I due testi che proponiamo integralmente, Il «Manifesto» presentato al festival di poesia di Induno Olona e Varese 1995 e quello presentato a Roma nel 2000, si distinguono per quelli che sembrano essere destinatari e obiettivi: il popolo italiano, nel primo caso, la comunità economica e amministrativa italiana, nel secondo. Declamatorio il primo, tagliente il secondo. Ingenuo e entusiasta il primo, ambiguo e minaccioso il secondo. Leggiamo nel «Manifesto» redatto dall'Associazione La bella lingua, (vedi «promotori») un' iniziativa semi-ufficiale a cui hanno aderito politici e intellettuali di rilievo, che, tra le sue qualità, l'Italiano annovera «una singolare tendenza a degradare gli errori di pensiero a errori di lingua, segnalando i falli della mente attraverso le stesse regole che presiedono alla logica della sua espressione» (nota*). Non è questo il ritratto di una lingua dell'élite, capace di sclerotizzare la situazione sociale, di imbalsamare la società? Nella conclusione, leggiamo che il nemico da combattere sarebbe «chi si augura la sua rapida estinzione [dell'italiano] per poter approdare, quanto prima, a un mondo globalizzato, dove la comunicazione corrente sia affidata ai dialetti e quella culturale al basic english [...] in nome di una rapida unificazione del mondo sotto l'impero della new economy». Infine, ci sembra di cogliere una minaccia, non tanto velata, da parte di persone che, attraverso il potere di legiferare, sono in grado di influire sulla realtà: «[...] la lingua è un'arma». Di fronte a questo linguaggio, ci viene spontaneo di commentare**: «plus ça change, plus c'est la même chose». |
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Promotori: due poeti lombardi, Franco Manzoni e Filippo Ravizza. |
Promotori: L'Associazione La bella lingua, nata per iniziativa di un gruppo di parlamentari appartenenti a diversi gruppi politici - Saverio Vertone, Luigi Manconi, Aldo Masullo, Ferdinando Pappalardo, Vittorio Sermonti, Mario Crescenzio, Domenico Fisichella, Domenico Contestabile, Paolo Giaretta. Fra le adesioni al manifesto in difesa della lingua italiana, si annoverano le firme di Vincenzo Consolo, Guido Ceronetti, Sergio Romano, Ernesto Ferrero, Francesco De Gregori, Giulio Paolini, Giuseppe Cassieri, Ida Gianelli, Paolo Granzotto, Oddone Camerana. Il presidente della Camera Luciano Violante ha preannunciato che si farà egli stesso tramite e promotore nel prossimo appuntamento di novembre con i parlamentari di origine italiana all'estero, che si riuniranno a Roma in vista della Conferenza mondiale degli Italiani all'estero. |
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Lunghezza: più corto |
Lunghezza: più lungo |
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Carattere: profetico |
Carattere: ufficiale |
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Tono di voce: altisonante |
Tono di voce: cattedratico |
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Destinatari: il popolo italiano |
Destinatari: la comunità economica e amministrativa italiana |
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Incipit: drammatico, crea un clima di preoccupazione, chiama in causa il sistema scolastico |
Incipit: positivo, ottimista, rassicurante, affermativo, sciolto. |
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Premessa: individua nella sterilità («impotenza [...] di creare nuove parole») la crisi del linguaggio. Denuncia l'imbarbarimento causato dall'adozione di termini stranieri |
Premessa: dichiara gli obiettivi: legittimare e potenziare la lingua italiana, nella parola scritta e nel discorso parlato.Ricorre fin dall'inizio alle più vivide metafore e anche a parole nuove! («trovarobato»). |
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Sviluppo: Rivendica l'autodeterminazione linguistica e un rapporto paritetico con gli altri popoli europei. |
Sviluppo: si inoltra in dettagli tecnico-linguistici. Denuncia l'influenza negativa di agenti e fenomeni culturali, non esita a fare nomi e cognomi: «Alitalia... Ferrovie...». Ricorre all'uso di metafore sempre più ardite. Sfoggia un approccio multidisciplinare (filosofia, psicanalisi, filologia). Esprime la necessità di esplorare zone più ignote dello stesso inconscio. |
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Questa vocazione riaffiora oggi in superficie ed è ben visibile sotto i detriti dell'uso corrente; né bastano a oscurarla la vulgata giornalistica, il dialetto politico, i gerghi professionali, i linguaggi simil-tecnici. Hermann Broch ha scritto che dove degenera il linguaggio, là degenera la vita. Se dobbiamo credergli, in Italia la vita è salva, a dispetto della lunga e confusa transizione culturale e politica che stiamo attraversando. Una lingua è viva quando non ricorre a prefabbricati verbali, propri o altrui, per inventare comunicazione quotidiana o creazione letteraria, ma attinge alla falda profonda delle proprie potenziali risorse espressive. Queste risorse esistono, si sono conservate e rinnovate, e sono adesso alla portata di tutti. Eppure molte istituzioni pubbliche e private, non esclusa la scuola, non le attivano. Alitalia, le Ferrovie (si ponga attenzione alle scritte negli aeroporti e nelle stazioni) e le altre aziende di Stato, le banche e le agenzie di pubblicità dimenticano spesso che la comunicazione corrente non si fa con la comunicazione altrui, così come la letteratura non si fa con la letteratura; mentre anche i peggiori panettieri sanno che il pane non si fa con il pane, ma con la farina. Se sia buona o cattiva farina il materiale linguistico di chi parla o scrive oggi, è questione di scelta. E' però farina e non pane, a dispetto di televisioni e agenzie pubbliche. E dunque, almeno la vita è salva. Usare il linguaggio per giudicare la lingua, parlare di parole, è un'impresa delicata. Come battere conio anziché moneta. Ma la cultura è spesso costretta a fare capriole su se stessa, azzardando esplorazioni in zone assai più ignote di quelle battute dalla psicanalisi. Capire la coscienza è più difficile che capire l'inconscio. E poiché il linguaggio è a metà strada tra l'una e l'altro, chiunque, e in ogni momento, intenda difendere una lingua dai pericoli che la minacciano è costretto a affrontare entrambe le difficoltà. |
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Sviluppo (segue): ventila la catastrofica ma verosimile possibilità che la lingua italiana scompaia nell'oblio. |
Sviluppo (segue): elenca affettuosamente i punti di forza e di debolezza della lingua italiana. Per gli estensori del manifesto, chi non parla correttamente l'italiano, neppure è in grado di pensare correttamente. Cita la duttilità dell'inglese, la sensualità (sic) del russo, l'apoditticità del francese. Si lascia trascinare dall'entusiasmo descrittivo, in un'eroica cavalcata linguistica, prendendo però le distanze dalle «doti» del tedesco. |
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Inoltre, si rifiuta giustamente di avvitarsi in quelle tortuose ripetizioni alle quali indulgono volentieri altre lingue (europee e non europee); e non per un banale gusto dell'eufonia, ma per la pretesa, bizzarra e generosa, di costringere il pensiero a non tornare mai sui propri passi e a sorvolare territori sempre nuovi e sconosciuti. L'italiano non è una lingua infinitamente duttile come l'inglese, sensuale come il russo (dove un suono può essere analizzato con dieci parole diverse), tagliente e apodittica come il francese. E' rigido e può facilmente apparire inamidato e goffo nelle effusioni sentimentali, perché riflette una cultura sotto sotto scettica; ed è anche smorto e impreciso nella resa delle sensazioni, perché troppo ancorato al filtro dell'intelletto. Inoltre, è sospinto da una tradizione secolare verso il povero rimbombo ciceroniano dello stile cattedrattico. Eppure, se usato bene, l'italiano può diventare espressivo, sensuale, limpido, semplice ed essenziale come nessun'altra lingua. Ed è usato bene quando è lineare, perché questo è il suo demone, il suo genio. Infatti è una lingua fredda, dura, lucida, consequenziale. Tra i suoi meriti può vantare anche una propensione naturale al giusto dosaggio tra astratto e concreto e una diffidenza, nascosta ma tenace, per le frane incontenibili che trascinano verso l'empireo delle idee artificiali. Alle quali si abbandona invece, orgiasticamente, il tedesco: lingua meritoria, ancora caldissima e omerica (e però senza parapetti verso l'indefinito), nella quale la creazione incessante di parole e di concetti consente tuttora, agli albori del XXI secolo, di battezzare le cose che esistono come le cose che non esistono, e di scrivere quasi quotidianamente l'Iliade e l'Odissea della mitografia concettuale, il grande epos moderno del pensiero burocratizzato o estaticamente meccanizzato. |
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Sviluppo (segue): appello «di poeti», dichiarazione di belligeranza, invocazione all'impegno, in prima persona, di tutti, in difesa della lingua. |
Sviluppo (segue): entra nel cuore del discorso più propriamente politico. Chiama in causa gli scrittori che ricorrono a espressioni dialettali o all'inglese, denuncia la tendenza nefasta di idolatrare «tutto ciò che è globale o locale». Addita a esempio la politica linguistica di Francia e Germania. |
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Giornalisti, politici, divulgatori scientifici, pubblicitari, insegnanti non abdicate inutilmente all'unico strumento attraverso cui passa ciò che ci identifica, la nostra lingua! E' questa la sola condizione per non precipitare nel colonialismo culturale, per non essere vittime dell'imperialismo linguistico. |
Minacciate dalla ripresa dei dialetti, dall'insorgenza dei gerghi corporativi e dall'avanzata del pidgin english, le grandi lingue dell'Europa si difendono come possono. E non solo la Francia, sempre sensibile alla continuità e alla vitalità della sua cultura, difende il francese; ma anche la Germania, assai più restia (per radicate e giustificate ragioni) a compromettersi con rivendicazioni identitarie, ha recentemente lanciato una grande campagna per la difesa del tedesco. |
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Conclusione: «Popolo italiano...». Travolgente nel finale, il Manifesto milanese fa appello al solo protagonista che possa esorcizzare la minaccia dell'annientamento culturale, attraverso la conservazione delle tradizioni, «se non ci penseranno gli intellettuali» (vedi colonna a fianco). |
Conclusione: «Sembra necessario...», perso il sicuro ottimismo iniziale, l'incertezza politica ha il sopravvento. Il pericolo che si manifesta nel finale sembra essere più quello dell'irrilevanza politica di un governo centrale - schiacciato fra le autonomie regionali e l'Unione Europea, tra la scomparsa dei confini e internet - che una vera, sincera preoccupazione per il destino della lingua. |
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La quale non è minacciata da chi parla o scrive, ma da chi si augura la sua rapida estinzione per poter approdare, quanto prima, a un mondo globalizzato, dove la comunicazione corrente sia affidata ai dialetti e quella culturale al basic english. Da questo punto di vista, il purismo lessicale non è importante; sono utili i prestiti linguistici, possibili le contaminazioni efficaci, benvenute le innovazioni intelligenti: ma è vitale la difesa della sintassi, che è la struttura ossea di qualsiasi linguaggio. Gli Aeroporti italiani e le banche che, per una campagna contro il fumo, non hanno trovato di meglio che spalmare parole italiane su un frasario inglese, inventando lo slogan: "Grazie per non fumare!" ("Thank you for not smoking!"), non sanno, forse, di aver creato un mostro. Si sono comportati, più o meno, come un biologo che pretendesse di stendere la pelle di una lepre sullo scheletro di un gatto per ottenere un animale al tempo stesso aggressivo e veloce. Ignorano probabilmente che ibridi di questo genere, come il pidgin english dilagante, possono ridurre in breve tempo culture sedimentate alla balbuzie puerile di una clinica per minorati. Sempre che, sapendolo, non se lo augurino: in nome di una rapida unificazione del mondo sotto l'impero della new economy. Contro questa unificazione autoritaria e impoverente, la lingua è un'arma. |
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* Questo è il modello ideale di razionalità e darte lasciato da Cicerone in eredità alla civiltà europea. Ma è vero anche che Seneca esprimerà «la sua passionalità e le contraddizioni in cui è coinvolto il suo pensiero con un linguaggio eloquente ma diseguale [ ] »; e Tacito rivivrà «drammaticamente la storia con una sintassi concentrata e impervia in cui si avverte la tensione morale, e scandita più dalle pause che dall'articolazione dei rapporti logici»[da Marcello Durante, Dal latino all'italiano moderno, saggio di storia culturale, Zanichelli, Bologna 1981]. La lingua italiana parlata e scritta di oggi è forse lo specchio del proprio tempo, tempo di scarsa razionalità, di forti contraddizioni e di equilibri precari.
Ciò detto, analizzando il Manifesto in difesa della lingua italiana, che per largomento che affronta, pensiamo sia di interesse dei nostri lettori, ci siamo accorti che non ci piaceva. Questo non ha a che fare ne' personalmente ne politicamente con il gruppo degli estensori, ma riguarda una certa arroganza che percepiamo al di sotto della forma, come se i contenuti fossero stati concepiti da un gruppo di giuristi e successivamente affidati agli «intellettuali» per essere integrati con citazioni dotte e splendide metafore. Sotto questa forma sgargiante, percepiamo una manovra che, col pretesto della difesa della lingua, si prefigge obiettivi noti solo ai gruppi di potere che i politici dellassociazione «La bella lingua» rappresentano. E questo, non solo non non ha niente a che vedere con la difesa della lingua, ma rischia di influire negativamente sulla diffusione dellitaliano nel mondo, che i dati che ci pervengono dicono sia attualmente assolutamente rassicurante. Milano, 23 Settembre 2000
Scriveteci le vostre impressioni I commenti dei lettori
Camille Maglio (camillemag@bigfoot.com), Philadelphia (USA), 1/06/'04 I read with interest the manifest of Saverio Vertone. Why all the fuss? Italian is Italian, english is english. Translate the sign into italian properly or better yet, use the symbol which are more helpful to travelers anyway. Italy needs politicians who can focus on the issues to make Italy better not stupid stuff like this. Mr. Vertone, don't you have any other things to occupy your time than this subject. I would conclude you have done all the important things and are now worrying about the little things. Italian is a little too heavy with verbs for americans. So what? It's italian. I communicate very well in italian (and am very much richer for the experience) and do not lose sleep over the fact that i can only conjugate present past and future.
Umberto Broccatelli (u.broccatelli@tiscalinet.it) Roma, 27.02.2001 Ci si preoccupa per le sorti della lingua italiana di fronte alla dilagante egemonia dell'inglese. Ci si preoccupa del degrado che la nostra lingua subisce. Si fanno delle diagnosi esatte, ma le terapie proposte sono dei palliativi. Un palliativo illusorio è, per esempio, il cosiddetto plurilinguismo: pochissimi sono coloro che possono veramente apprendere - a livello decente - due o tre lingue; e comunque neanche questo risolverebbe il problema, perché fra le lingue imparate sempre dovrebbe essercene una dominante, comune a tutti. L'inglese dilaga perché il mondo moderno ha bisogno di una lingua franca di comunicazione. Al giorno d'oggi, per motivi economici e politici tale ruolo è svolto dall'inglese. Ma una lingua naturale, posta in posizione egemone, è fatalmente destinata a distruggere le altre lingue. Il latino nell'Impero Romano distrusse l'etrusco, le altre lingue italiche e le lingue della Gallia e dell'Iberia, nel giro di alcuni secoli. Nel Medio Evo, invece, quando il latino non fu più lingua madre per nessuno, esso divenne una sorta di lingua artificiale e fu la lingua franca dei dotti per secoli, senza impedire la nascita dei volgari neo-latini. Non è facendo una battaglia di retroguardia per difendere l'italiano o il francese che si può porre argine al dilagare dell'inglese. Al giorno d'oggi il solo rimedio per evitare che l'inglese distrugga le altre lingue è affidare il ruolo di lingua franca - di cui c'è assoluta necessità - a una lingua non etnica. E poiché al giorno d'oggi la comunicazione internazionale è cosa necessaria non solo per i dotti, com'era nel Medio Evo, ma per tutti, tale lingua deve anche essere accessibile senza troppe difficoltà a tutti. Questa lingua potrebbe essere solo una lingua pianificata. L'unica lingua pianificata sperimentata e dotata delle infrastrutture necessarie è l'esperanto. Se si vogliono salvare le nostre lingue nazionali in Europa, occorre adottare l'esperanto, come lingue franca comune, come prima lingua "straniera" da studiare nelle scuole. Questo renderà più facile anche lo studio di altre lingue straniere successivamente, con maggiore libertà di scelta. Così si difenderanno veramente l'italiano, il francese, il tedesco e le altre gloriose lingue europee.
Pasquale Cacchio, Castelluccio Valmaggiore, Foggia 20.10.2000 Non pensavo che il ritorno al dialetto fosse deleterio per la lingua italiana. Pensavo anche che i dialetti fossero in via di estinzione. Dunque innocui. Pensavo che il ritorno al dialetto ci avrebbe rispermiato gli anglicismi. E Pasolini? Mi meraviglio di Ceronetti (non lo immaginavo avverso al dialetto). Pensavo che accettando il realrazionale e il razionalreale si accettassero pure gli anglicismi. Devo portare i miei pensieri da uno psicanalista. |
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