CARVER, CERAMI, CECOV, KING. SOLO SU INTERNET IL RACCONTO BREVE GODE DI OTTIMA SALUTE

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Carver, Cerami, Checov, King...

..ovvero: brevi considerazioni sul perché da qualche decina d’anni a questa parte, il racconto è un genere letterario destituito d’ogni importanza.
(di Margaret Collina)


Raymond Carver
Raymond Carver
aymond Carver, definito dai critici del «Daily Telegraph» di Londra «Il maestro del racconto americano moderno», volle questa iscrizione sulla sua tomba: <Poeta, scrittore di racconti, saggista>.

Morì nel 1988, quando ancora -almeno nella cultura anglosassone- il racconto rivestiva una posizione di rilievo. Forse ora, dopo poco più di dieci anni, egli non avrebbe riscosso lo stesso successo così faticosamente conquistato, e nell’epitaffio avremmo letto semplicemente “scrittore” senza puntualizzazioni imbarazzanti.

Non per nulla, il mentore ideale e l’eroe letterario di Carver fu, per sua stessa ammissione, Anton Cechov, la cui immensa produzione letteraria annovera migliaia di racconti brevi, stupende opere teatrali e nemmeno un romanzo vero e proprio.

Lo scrittore statunitense ammirava anche Ernest Hemingway, John Cheever, perfino Guy de Maupassant, tutti grandi scrittori di racconti; ciononostante, ed al culmine della notorietà, sentì il bisogno- quasi a scusarsi- di dare una spiegazione alla sua propensione verso la scrittura breve: «Adoro il salto rapido che c’è in un buon racconto, l’emozione che spesso ha inizio sin dalla prima frase, il senso di bellezza e di mistero che si riscontra nelle migliori storie; e il fatto…che un racconto si può scrivere e leggere in una sola seduta (proprio come una poesia)». Evidentemente Carver già si proponeva come uno scrittore cui manca una fondamentale modalità espressiva, quella del romanzo: genere letterario che ormai stava già per oscurare tutti gli altri «…non possiedo quel tipo di memoria capace di far rivivere intere conversazioni complete di tutti i gesti, tutte le sfumature del discorso reale…»

Nell’interessante prefazione al libro Tutto è fatidico di Steven King (un’antologia di brevi storie raccolte durante la vita dello scrittore) si legge una sofferta riflessione sulla sorte ormai precaria della produzione di novelle e racconti: King parla infatti della scomparsa delle riviste che li pubblicavano, e della refrattarietà dell’editoria a sobbarcarsi il rischio di proporne le raccolte.

Eppure non è sempre stato così, almeno in America e fino a pochi decenni fa; ed è facile dedurre che se, in epoche relativamente recenti, qualcuno pubblicava racconti, qualcuno (certo in numero economicamente rilevante) doveva pur leggerli ed apprezzarli: King stesso, per esempio, il quale afferma: «Eppure per me, ci sono ben pochi piaceri più squisiti dell’accomodarmi sulla mia poltrona preferita, in una serata fredda, con una tazza di tè bollente..e una bella storia che posso completare in una sola seduta.»

In Europa, per il racconto, già da tempo le cose non andavano bene. In Italia, per esempio, forse con la sola eccezione “atipica” di Dino Buzzati, dopo Giovanni Verga e Luigi Pirandello, pochi scrittori di rilevo si sono misurati con il racconto in modo convinto e sistematico. E anche se dal Decamerone in avanti le “novelle” sono entrate a pieno titolo nella storia della letteratura di casa nostra, il racconto italiano pare concludersi con il Verismo.

Cosa c’è dunque che non funziona più nella novella, ovvero nella storia interamente conchiusa in un numero relativamente esiguo di pagine? Non sembra plausibile arrivare ad una spiegazione analizzandone i contenuti, i quali sono in tutto uguali a quelli del romanzo (di formazione, autobiografico, storico…o di qualsiasi altro “genere”), poiché i racconti, a loro volta, possono spaziare attraverso tutti i generi letterari. Si deve perciò partire dalla sua struttura e, parallelamente, esaminare l’evoluzione del pubblico cui nel tempo la letteratura si rivolge, per trovare una possibile soluzione a questo enigma culturale.

Prima di tutto: cosa si può definire racconto, e cosa romanzo?

Vincenzo Cerami ritiene che l’uno è sostenuto da “un’idea forte”, l’altro da “un’idea debole”: il racconto è quindi monotematico, mentre il romanzo consentirebbe delle divagazioni, delle mutazioni, e quindi passaggi di tempo. Da qui la funzione narrativa del tempo, nel romanzo e non nel racconto. Sempre per Cerami quindi la differenza non ha nulla a che vedere con la lunghezza misurata in pagine.

La non esattezza dell’ovvia argomentazione che nel racconto l’inizio, la centralità e la fine della storia sono concentrati in poco spazio mentre nel romanzo possono essere dilatati indefinitamente, sarebbe confermata da un’affermazione di Cechov, il quale in una lettera al fratello aspirante scrittore (di racconti), raccomanda.«Prendi qualcosa della vita reale, di ogni giorno, senza trama, e senza finale..».

Esistono, per la verità, moltissimi racconti moderni (Carver ne è maestro) di cui si potrebbe affermare che “non hanno storia”: al più, semmai, crude istantanee di qualche brandello di umanità, flash su personaggi che entrano ed escono dal racconto senza che se ne conosca l’origine né la fine. Questo tipo di destrutturazione, di asciuttezza della diegèsi, pur non impossibile è evidentemente molto più difficile da realizzarsi nel romanzo.

Una parte della critica letteraria (a cominciare da Clara Reeve nel 1785) distingue invece i fondamentali tipi di narrativa in “novel” e “romance” : il primo inteso come rappresentazione di vita ai tempi dello scrittore, il secondo come descrizione fantastica di cose mai successe nella realtà; senza, peraltro, apportare purtroppo nessuna nuova luce al mistero che circonda il fenomeno dell’abbandono degli scritti brevi, da parte dei lettori.

Se per motivi di semplicità ci soffermiamo sull’apparente equazione: racconto =scritto breve, romanzo = scritto di durata medio - lunga, dovremmo anche arrestarci di fronte al binomio difficilmente contestabile modernità =rapidità, che ci porterebbe a concludere che il lettore moderno preferisca tutto ciò che è breve e rapido e quindi il racconto. Invece questo non corrisponde alla realtà.

E’ pur vero che Carver, nel saggio Il mestiere di scrivere, afferma «Adoro….. l’emozione che spesso ha inizio sin dalla prima frase, il senso di mistero che si riscontra nelle migliori storie…», ma proprio in Carver – come in Cechov- forse sta proprio la chiave del problema e la spiegazione del perché la fretta del lettore dei nostri giorni non coincide con il gusto della lettura dei “sintetici” racconti contemporanei.

In un altro passo del suo saggio, Carver scrive di non essere interessato a proporre ai lettori «ulteriori esempi di quella che qualcuno ha salutato come <la nuova narrativa >, autoreferenziale, fabulistica, magico –realista, con tutte le varietà, germogli e frange che ne derivano.» Ma paradossalmente proprio nel realismo di Cechov “senza trama né finale”, nella nuova narrativa deplorata da Carver, e, alla fine, nello stesso stile carveriano, con i suoi racconti-studio (o fotografie narrative) sta probabilmente la fine del racconto.

Il lettore moderno ha fretta, quindi ha bisogno di una storia che inizi, si sviluppi e finisca in fretta. Ma non è questo ciò che gli offrono gli autori di racconti da quasi un secolo.

L’esclusione dell’”avvenimento”, della sorpresa (stigmatizzata come meschino espediente narrativo), e di tutte le figure classiche della narrazione, come la schidionata e l’analessi, hanno reso il racconto privo di storia e quindi lento, meditativo, ripiegato su se stesso. L’analisi psicologica dei personaggi ha il sopravvento sulla descrizione dei loro caratteri attraverso l’azione. La descrizione, scarna, quasi priva di aggettivazione, diventa inopinatamente grave e soffocante. Da ogni riga della sua opera, sembra che l’autore moderno ordini perentoriamente al lettore: «Pensa, pensa profondamente, ricorda ciò che solo io posso ricordare, ma resta distaccato, non lasciarti mai andare, non confonderti volgarmente con i miei personaggi, non immedesimarti in loro perché non ti appartengono, e non pretendere che succeda alcunché, perché nella vita reale, di solito, succede assai poco». Ed il nostro buon lettore, probabilmente gli risponderebbe: «Troppo faticoso. Non ho tempo per pensarci tanto, ho bisogno di facili evasioni: preferisco un bel romanzo zeppo di fantasiose avventure, o un buon giallo, in cui succeda qualcosa di “fatidico” in ogni pagina, ma che mi permetta, senza sentirmi in colpa, di saltare quelle più noiose, e arrivare più velocemente a sapere…come va a finire».

Proprio nella prefazione di Tutto è fatidico, King pone l’accento su quanto invece, in apparente controtendenza, sta accadendo su Internet, dove il racconto prolifera e gode di ottima salute. Ad un’analisi superficiale, si potrebbe sostenere che nel luogo più “veloce” che l’essere umano conosca, quanto più la navigazione letteraria è breve, tanto più è gradita. Ovvero: il racconto è l’unica misura possibile per l’escursione nella prosa virtuale. Ma questa posizione contrasta palesemente con quanto affermato poc’anzi: meno che mai, il viaggiatore internettiano è indotto a troppo complesse e approfondite astrattezze letterarie. E lo stesso King (che certo non indulge ad intellettualismi narrativi) deve tristemente ammettere, dopo il clamoroso successo del racconto elettronico Riding the Bullet che ahimè « …è ancora più strano rendersi conto che forse i lettori erano molto più interessati alla novità del formato elettronico che non al contenuto. Voglio davvero sapere quanti lettori che hanno scaricato Riding the Bullet lo hanno poi letto.»

Da qui la constatazione che Internet si propone come mezzo perfetto per la pubblicazione del racconto, ma non altrettanto adatto alla sua fruizione. Sono numerosissimi, infatti, i siti letterari che consentono agli aspiranti scrittori di dar sfogo alla propria vanità pubblicando degli inediti: spesso purtroppo inconsistenti o deliranti, quasi sempre ingenui e carenti sotto il profilo linguistico. La maggior parte di questi scritti, tutti ne sono coscienti, non è letta da nessuno all’infuori dell’autore medesimo.

Ed è assai probabile che ciò avvenga anche per le poche opere “titolate” presenti in rete.

Riconsiderando, per logica conseguenza, il racconto cartaceo, sarebbe sciocco pensare ad un ritorno alla narrazione verista, sulla falsariga del Verga, o a rivisitazioni dello stile novellistico del Decamerone e delle Mille e una Notte. D’altra parte, l’unica strada possibile perché il racconto ritrovi una platea vasta e variegata, sembra quella della riconquista del gusto popolare. Il gusto dei primi racconti, che nella forma semplice e perfetta della favola, ascoltavamo incantati dalle labbra dei nostri genitori.

In poche parole, un racconto che racconti qualcosa, una narrazione alto-mimetica, che abbia (forse a dispetto di Cechov) “una trama e un finale” e che, possibilmente, ci conduca all’interno di una realtà appena un tantino diversa da quella del nostro quotidiano. Quel tanto che basta a ricordarci di possedere la fantasia, e di poterla usare -proprio in virtù della fascinazione narrativa- per nostra somma beatitudine.

BIBLIOGRAFIA

R. Carver – Il mestiere di scrivere – Einaudi
S. King- Tutto è fatidico – Sperling&Kupfer
A. Cechov- Senza trama e senza finale- Minimum fax
B. Marchese – L’officina del racconto- Mondadori
V. Cerami – Consigli a un giovane scrittore- Einaudi
H. Bloom – Come si legge un libro- Rizzoli

Milano, 20 gennaio 2003
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