
Solitudini e dolori di Luigi Pirandello, attraverso le pagine di alcuni biografi (Camilleri, Gardair, Gioanola)
Luigi Pirandello
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Autoritratto
«Sono nato in Sicilia, e precisamente in una campagna presso Girgenti, il 28 giugno del 1867. Venni a Roma la prima volta nel 1886 e vi stetti due anni. Nell'ottobre del 1888 partii per la Germania e vi rimasi due anni e mezzo. Mi laureai là, all'Università di Bonn, in lettere e filosofia. Nel 1891 ritornai a Roma, e non me ne son più mosso. Insegno, purtroppo, da 15 anni Stilistica nell'Istituto Superiore di Magistero Femminile. Dico purtroppo, non solo perché l'insegnamento mi pesa enormemente, ma anche perché la mia più viva aspirazione sarebbe quella di ritirarmi in campagna a lavorare.
Vivo a Roma quanto più posso ritirato; non esco che per poche ore soltanto sul far della sera, per fare un po' di moto, e m'accompagno, se mi capita, con qualche amico.
Non vado che rarissimamente a teatro. Alle 10, ogni sera, sono a letto. Mi levo la mattina per tempo e lavoro abitualmente fino a mezzogiorno. Il dopo pranzo, di solito, mi rimetto a tavolino alle 2 e mezza, e sto fino alle 5 e mezza; ma, dopo le ore della mattina, non scrivo più, se non per qualche urgente necessità; piuttosto leggo o studio. La sera, dopo cena, sto un po' a conversar con la mia famigliuola, leggo i titoli degli articoli e le rubriche di qualche giornale, e a letto.
Come vede, nella mia vita non c'è niente che meriti di essere rilevato: è tutta interiore, nel mio lavoro e nei miei pensieri che... non sono lieti.
Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria.
Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita.
Così è. La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che si ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l'uomo all'inganno. Questa, in succinto, la ragione dell'amarezza della mia arte, e anche della mia vita.»
Il matrimonio
Luigi Pirandello si sposa con Antonietta Portulano («Ella finora maccontenta fisicamente, mi par molto simpatica, se non del tutto bella scrive di lei In quanto al morale, scorgo che è molto buona e dell'impronta nostra: poca esperienza, ma ha contegno e prudente compostezza.») il 27 gennaio 1894, prima in Municipio e poi in chiesa, ed è un matrimonio che tuttavia nasce sotto il segno della non comunicazione reciproca.
«Intuiscono però che a legarli ci sarà una passione autentica, un'attrazione fisica veramente forte che durerà a lungo nel tempo, tanto che il figlio Stefano dirà che erano più che altro amanti.»
(Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Rizzoli)
Breve la vita felice dei due. Nel 1903, il maledetto 1903, don Stefano Pirandello, il padre, aveva ottenuto la gestione di una grossa miniera di zolfo a pochi chilometri da Girgenti. Nei primi tempi, la miniera rese abbastanza bene: don Stefano aveva fatto corposi investimenti, aveva rinnovato tutti i macchinari e le attrezzature. Ma un giorno, di colpo, la miniera sallagò. La stima del danno superò le quattrocentomila lire: «Era la fine e don Stefano scrisse tutto al figlio. Senonché la lettera, essendo Luigi a scuola, venne consegnata ad Antonietta la quale, come abitualmente faceva, riconosciuta la grafia del suocero, l'aprì e la lesse. Qualche ora appresso Luigi, tornando a casa, trovò Antonietta semiparalizzata sopra una poltrona, gli occhi persi, distrutta. È l'inizio dichiarato di quella malattia mentale che avrà, nei primi anni, alti e bassi, ma che peggiorerà col passare del tempo.» (Camilleri, op. cit.)
Pirandello parlava molto di rado con la moglie, sia del suo lavoro di scrittore (forse non ritenendola allaltezza di comprendere), sia dei problemi che incontrava ogni giorno nel mestiere "di ripiego", l'insegnamento di linguistica e stilistica presso l'Istituto Superiore di Magistero femminile a Roma. Su Pirandello professore non esiste molto materiale. La testimonianza di un'alunna che il maestro molto amava, Maria Alajmo, suona così:
«Odiava tutto quello che era meccanico, tutto quello che era di maniera, tutto quello che alle volte arieggiava il moraleggiante, senza avere realmente risonanza nella vita. Qualche volta, però era chiuso, rigido, magari a quella comprensione umana che era così viva nelle sue novelle, talvolta pareva proprio che gli facesse difetto, come uomo, come professore, come esaminatore, da uomo a uomo, da persona a persona. Era come se su quella cattedra ci stava più per una necessità di vita che non per trasporto suo proprio. Vestiva, almeno in quel tempo, vestiva quasi sempre di grigio. Molto distinto; del resto, la sua figura slanciata gli conferiva distinzione. Il cappello a larghe tese, il sigaro quasi sempre in bocca, gli occhi sempre un po' socchiusi e lontani. Preferiva aiutarsi coi gesti delle mani. Si serviva molto del pollice, come uno scultore.»
Una solitudine estrema
Quando tornava a casa, si metteva a scrivere o a correggere temi. E per il dialogo non c'era mai tempo. Antonietta, dunque, come donna, viveva in una solitudine estrema, in una sorta di confino che aggravava la sua fragilità nervosa. L'allagamento della zolfara la stravolge letteralmente, diventa crudelmente gelosa del marito, e senza motivo, nervosa, incontrollabile. Scrive Pirandello nel 1906 alla sorella Lina:
«A quarantanni, mezzo calvo, con la barba quasi tutta bianca, perduti gli averi; distrutta la casa; lontano dai figli. La mia sorte è veramente tragica, Lina mia, e per me non c'è scampo. Sono stato colpito nei più sacri affetti, e la vita ha perduto ogni pregio agli occhi miei quella donna disgraziatissima non può guarire: ho potuto sentire e misurare l'orrido abisso di quell'anima. Non guarirà, non può guarire.»
Ricco jeri, oggi povero. E non so
com'ita se ne sia tanta ricchezza.
Non del tesor perduto è l'amarezza;
ma il non saper come perduto io l'ho.
Nessun piacer, nessuna gioja, ahimè,
la cui memoria avrebbe almen potuto
consolar la miseria e il viver muto,
o dello stato mio dirmi il perché.
Come dunque ridotto mi son qui?
Con la ricchezza mia potea far tanto,
e nulla ho fatto, e son povero intanto.
L'ho sperduta in ispiccioli, così.
Non l'opera che dia lustro a un'età,
né la gioja ch'empir possa una vita.
Dunque tanta ricchezza m'è servita
per comperarmi questa povertà...
Andrea Camilleri, La camera di dormiri
Luigi solleva la testa dal foglio che sta cummigliando di parole, deve finire una novella da spedire al «Corriere della Sera», talìa il relogio da taschino che sta posato allato al calamaro. La mezzanotte è passata da qualche minuto e lui sente di colpo pesargli la stanchizza sopra le palpebre. La luce che manda l'abbajùr, spostato dal comodino sullo scrittoietto, è scarsa, giallùsa, ma così deve essere per non disturbare l'eventuale sonno di Antonietta. Quella che ai primi tempi del matrimonio era una semplice càmmara di dormiri, confortevole e ordinata, ora è un cafarnao. C'è, per esempio, un tavolinetto assistemato dalla parte di lei sul quale ci sono decine di boccette di medicinali, di bustine di rimedi, una spiritera per far bollire l'acqua se per caso, di notte, ci fosse bisogno di preparare un qualche infuso, una qualche tisana. Luigi ci ha portato macari un piccolo scrittoio, dove può travagliare senza sentirsi chiamare a ogni momento, come capitava prima:
«Luigi, dove sei? Che fai?».
«Qua sono. Sto scrivendo.»
«A chi? A qualcuna delle tue fimminazze, eh?»
Così invece Antonietta, se vuole, può susìrisi dal letto senza fare la minima rumorata e andare a vedere, sporgendo la testa da sopra la sua spalla, che cosa il marito sta scrivendo. Ma macari se le parole che ha letto chiaramente non possono essere quelle di una lettera d'amore, certe volte lei diventa ancora più squieta.
«Tu a quelle fìmmine le hai conosciute tutte?»
«Quali fìmmine, 'Ntuniè?»
«Quelle che poi ci scrivi sopra una novella.»
«Ma che ti viene in testa? Sono cose di fantasia. Non esistono!»
«Esistono, esistono.»
«Ma dove, santo Dio?!»
«Nella tua fantasia, lo dicesti tu ora.»
Adesso sente che Antonietta è vigliante, è assumata come un'annegata dalla profondità del sonno piombigno dove affonda a tratti e brevemente, ha il respiro pesante. I suoi occhi sono fissi su di lui, non parla, si limita a taliàrlo e Luigi sente proprio darrè il cozzo due punte che lo trapanano. Non può continuare a scrivere in quelle condizioni, sapere che lei lo sta taliàndo con gli occhi sgriddrati lo paralizza. Si alza, si stira perché la posizione l'ha aggrancuto, piglia l'abbajùr, lo rimette sul comodino, e si avvia a nèsciri sempre seguito da quello sguardo implacabile.
«Dove vai?»
«Dove vuoi che vado? In bagno, mi spoglio.»
«Doppo vieni? O fai come l'autra volta che te ne calasti dalla finestra e te ne andasti con le fimminazze?»
Non le risponde. Figurarsi! Calarsi di notte da una finestra! Di cosa sarà capace d'accusarlo la prossima volta quella fìmmina il cui cervello si macerìa inventandosi storie d'impossibili tradimenti che gli vengono rinfacciati come veramente avvenuti?
In bagno, perde tempo, si spoglia con lentezza, si lava evitando accuratamente di taliàre la sua faccia allo specchio.
«Che fai? Ancora lì sei?»
«Arrivo.»
Non faceva in tempo a infilarsi sotto le coperte. Lei l'afferrava, si stringeva a lui con violenza e lo baciava e lo mordeva e gli strappava i capelli e poi principiava a piangere e tra i singhiozzi, con voce diversa, voleva sapere come aveva amato un'altra, una inesistente altra, alitandogli sul volto il suo fiato denso di malata.
Così, è vero? ti stringeva così? le braccia, così? la vita? come te la stringeva? così? così? e la bocca? Come te la baciava? Così?
Lui si abbandonava, si lasciava trasportare dentro quel gorgo con ribrezzo. Ma non poteva fare a meno di lasciarvisi trasportare. Ottenuta la "prova d'amore" Antonietta non si placava. Avrebbe voluto farlo nèsciri da casa senza più forza d'omo per essere certa dell'impossibilità fisica del tradimento. Così come aveva ormai obbligato il marito ad andare in giro coi soldi contati per il tram, in maniera che, se gli fosse saltato qualche firticchio per una fìmmina, non avrebbe saputo come pagarselo.
Poi lei risprofondava nella vischiosa palude del sonno. Luigi invece a lungo s'arramazzava nel letto, ma adascio per non arrisbigliare Antonietta, prima di poter serrare gli occhi. (op. cit.)
La follia
Pare quasi impossibile, ma negli anni la pazzia di Antonietta peggiora. Ne fa testimonianza una lunga lettera di Pirandello all'amico Ugo Ojetti, datata 10 aprile 1914, in cui afferma di vivere in un vero e proprio inferno. La pazzia di Antonietta si acuisce alla morte del padre, Calogero Portulano, e si riversa sulla povera figlia Lietta. Luigi è costretto ad acconsentire all'internamento della moglie, nel 1919. In clinica, Antonietta è più che mai intrattabile, non vuole ricevere nessuno: si lascia andare, si trascura, indossa sempre lo stesso logoro vestito. Muore il 20 dicembre 1959.
C'è una frase di Pirandello terribile, sospesa, misteriosa: «La pazzia di mia moglie sono io». A una prima lettura, viene a significare che l'oggetto della pazzia di Antonietta è Luigi, ma è vero anche come in molti hanno notato che queste parole siano velate da un'ambiguità inconscia, che lascia però intravedere una seconda, più inquietante ma anche più complessa, forse addirittura impossibile, lettura.
Nel suo bel libro più volte citato, Andrea Camilleri si pone la domanda che ogni biografo o studioso di Pirandello si è posta: perché Luigi volle a tutti i costi convivere con la follia della moglie quando a consigliargli il ricovero in casa di cura erano familiari e medici? Una delle risposte possibili è quella dello studioso Jean-Michel Gardair in Pirandello e il suo doppio:
«Pirandello, almeno fino all'internamento di Antonietta (nel 1919) ha scelto di lasciarsi alienare, giorno per giorno, dal delirio paranoico di sua moglie. Egli si è sempre rifiutato di considerare la sua follia come uno stato di fatto e ha sempre negato alla malattia il minimo potere di decidere tra ragione e sragionevolezza. E come nei confronti di se stesso, non ha voluto riconoscere alla 'follia', secondo un compiacente paradosso, il privilegio della verità. In definitiva, egli ha lasciato in sospeso, per il più lungo tempo possibile, il problema stesso della follia di Antonietta. [
] Nel suo rapporto con Antonietta, Pirandello è vittima del discorso infinitamente scaltro della 'follia': rifiutare d'internare Antonietta è darle ragione, confessarsi colpevole; ricoverarla, significa consacrare irreversibilmente la verità delle sue parole, nel momento stesso in cui si pretende di considerarle false.»
La tesi di Gardair non convince del tutto Camilleri, secondo cui Pirandello avrebbe piuttosto considerato due fatti: Antonietta non è responsabile della sua follia e il matrimonio prevede precisi doveri che non ci si può scrollare di dosso; in secondo luogo, allontanare la moglie avrebbe significato per Pirandello ammettere di non possedere quella vita che aveva voluto ostinatamente crearsi e per questo egli preferì patirne l'imprevisto e spaventoso disagio. In fondo come emerge dalle pagine di Elio Gioanola (Pirandello, la follia) Pirandello era abituato alla follia avendola trovata spesso nel suo difficile cammino di vita.
I libri
«Il mio primo libro fu una raccolta di versi, Mal giocondo, pubblicata prima della mia partenza per la Germania. Lo noto, perché han voluto dire che il mio umorismo è provenuto dal mio soggiorno in Germania; e non è vero: in quella prima raccolta di versi più della metà sono del più schietto umorismo, e allora io non sapevo neppure che cosa fosse l'umorismo. Scrissi in Germania, invece, Pasqua di Gea, che è un poemetto primaverile in lasse rimate di settenari, per nulla umoristico. Tornato a Roma, tradussi in distici italiani le Elegie romane del Goethe. Fino a tutto il 1892 non mi pareva possibile che io potessi scrivere altrimenti, che in versi. Devo a Luigi Capuana la spinta a provarmi nell'arte narrativa in prosa.
La mia prima prova nell'arte narrativa in prosa fu il romanzo L'Esclusa, raccolto in volume dal Treves e molti anni dopo, riveduto e corretto. La prima raccolta di novelle stampata fu Amori senza Amore: tre lunghe aride, rigide, d'indole psicologica e nel fondo, amarissime. A me non piacciono più, quantunque dall'ultima, L'amica delle mogli, ci sarebbe da trarre una gustosa e originale commedia.
Seguì ad Amori senza Amore, il romanzetto comico-umoristico d'argomento siciliano Il Turno, che tra poco il Puccini d'Ancona ripubblicherà intatto. Seguì al Turno la raccolta di rime agresti Zampogna, preceduta dal poemetto Padron Dio, che forse, tra le mie cose in versi, è quella a cui tengo di più.
Dopo Zampogna, presso lo Streglio di Torino pubblicai Quand'ero matto, novelle umoristiche, e presso il Lumachi di Firenze Beffe della Morte e della Vita, in due serie, per insipienza dell'editore quasi a tutti sconosciute. Eppure in queste due serie vi sono quattro o cinque delle mie migliori novelle. Poco dopo, su la «Nuova Antologia», pubblicai un fortunato romanzo, Il fu Mattia Pascal.
Ora attendo a compiere il vasto romanzo I Vecchi e i Giovani, già in parte apparso su la «Rassegna contemporanea»: il romanzo della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso romanzo, ov'è racchiuso il dramma della mia generazione. E un altro romanzo ho anche per le mani, il più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita: Moscarda, uno, nessuno e centomila. Uscirà su la fine di quest'anno nella «Nuova Antologia».»
Milano, 19 ottobre 2003
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