LA POESIA EROTICA RACCONTA DELL'ANIMA ESAMINANDO LA BELLEZZA DI CIÒ CHE LA CONTIENE

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Vocazione e ispirazione nella poesia di Alda Merini
(di Paolo Di Paolo)


«un foglio bianco, molta solitudine, qualche strappo al cuore e forse una guerra o due»
(Alda Merini)
el resto ero poeta», scrive Alda Merini nella prima pagina del suo L’altra verità. Diario di una diversa (1986) – a evidenziare, anzitutto, la sua più vera, peculiare condizione. Il suo essere poeta è prima del manicomio, è durante ed è dopo. «Il mio animo era rimasto semplice, pulito, sempre in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte»: apertura alla vita, quindi, con occhi vergini di veggente bambino.

No, non mi importa molto della poesia: la poesia è una delle tante manifestazioni della vita. È un modo di parlare, e può essere cattiva, buona, iraconda, inutile. È un modo di far teatro, è un modo di mascherarsi. La poesia può essere una maschera greca, un carnevale. Può essere una dignità che non si ha, una dignità che si soffre. Sono tante le definizioni della poesia. Diciamo che la letteratura può essere anche un modo di sentirsi pazzi.

Un modo di parlare, di sentire e di sentirsi, di essere al mondo: ma modo irrinunciabile; investitura divina che non consente abiure; personalissimo, esclusivo esserci; condanna e dono insieme.

«Padre, se scrivere è una colpa perché Dio mi ha dato la parola per parlare con trepidi linguaggid’amore a chi mi ascolta?»

In Alda Merini è forte la consapevolezza di una diversità originaria, di una più acuta e narcisistica sensibilità, di una profondità di sguardo non comune, di una capacità visionaria quasi mistica («Difatti quando Maria Corti disse a Paolo Volponi sbuffando: “Questa qui è da una vita che vede la Madonna”, il buon Paolo candidamente rispose: “E ti pare poco, Maria.”», si legge in La pazza della porta accanto).

Giorgio Manganelli, a proposito de L'altra verità, parlò di «vocazione salvifica della parola»; per Merini come persona e come poeta credo sia possibile parlare di vocazione salvifica alla parola. La vocazione alla parola è l’urgenza di dire e di dirsi, di «prendere questa materia incandescente che è la vita di tutti i giorni, e farne oro colato». «E allora il poeta deve parlare», scrive Merini: non tanto imperativo, quanto presa d’atto, constatazione della impossibilità di non adempiere a un compito assegnato che coincide con il proprio destino – e come il destino può turbare, ferire, illuminare la vita, aggiungere dolore al dolore, sembrare una intollerabile crudeltà e ingiustizia, fare paura; così anche la poesia.

«O poesia, non venirmi addosso sei come una montagna pesante, mi schiacci come un moscerino poesia, non schiacciarmi, l’insetto è alacre e insonne, scalpita dentro la rete poesia, ho tanta paura, non saltarmi addosso, ti prego.»

Di fronte all’irruenza dell’ispirazione poetica, si può essere attraversati dalla tentazione di rifiutarla, rifuggirla, perché essa tenta sì di venire a capo del buio, ma nello stesso tempo ferisce, riapre cicatrici, acutizza antichi e poco angelici dolori. È questo il punto di crisi su cui finisce per spalancarsi spesso la più dolorosa scissione: la vita e la poesia; voler vivere vs. essere poeti. Le due aspirazioni sono in contrasto? «La vita o la si vive, o la si scrive», ammoniva Pirandello – e Guido Gozzano, tra i poeti italiani di primo Novecento, che pure in parte condividono i suoi stessi tormenti, pare estremizzare l’assunto pirandelliano come un rigoroso e non aggirabile aut-aut. A momenti di esaltazione, fugaci come lampi, per quel talento innato di mettere in versi la vita – appreso forse, quasi geneticamente, dalla madre Diodata, autrice di poemetti, per sua stessa ammissione, di poco valore, e «aventi un solo pregio – si partono dal core» – seguono disperazioni, tormenti, abbandoni, per l’esclusione, non cercata, dal turbine dell’esistenza. Così accade che scriva, ad Amalia Guglielminetti: «Noi non siamo persone comuni!» (23 ottobre 1907), e poi, in un’occasione immediatamente successiva, a Carlo Vallini: «Ah! che persone intelligenti non siamo mai noi! Dio! Perché farci così superiori!» (11 novembre 1907).

È stato giustamente notato quanto sovente Gozzano mostri «un sordo rancore contro la letteratura, come tutti quelli che ne hanno succhiato i tossici» – un rancore malinconico o persino rabbioso (nonché molto recitato, spettacolarizzato) contro il cerchio in cui egli è (o si è) chiuso, la letteratura, segnata dalla insufficienza e dalla sterilità.

«Ah! Con te, forse, piccola consorte vivace, trasparente come l’aria, rinnegherei la fede letteraria che fa la vita simile alla morte… Oh! questa vita sterile, di sogno! Meglio la vita ruvida concreta del buon mercante inteso alla moneta, meglio andare sferzati dal bisogno, ma vivere di vita! Io mi vergogno, sì, mi vergogno d’essere un poeta!»

«Ed io non voglio più essere io!», ripete più volte nei Colloqui. Rinnegare la poesia significa dunque rinnegare sé stessi, e questo non è possibile se non nel sogno. Scrivendo ancora ad Amalia (10 giugno 1907), Gozzano, nel giustificare la difficoltà-impossibilità ad innamorarsi, in un inciso parentetico assai eloquente ammette: «io non sono innamorato che di me stesso; voglio dire: di ciò che succede in me stesso». Annota Giorgio De Rienzo:

«Guido recita, anche fino al limite del cattivo gusto, la propria cattiveria, come il suo egoismo, la propria sensibilità, come la sua aridità: dà colore d’imbroglio alla sincerità e decora di genuino l’inganno; si vanta come un “egoista e un freddissimo calcolatore” e loda la propria “anima casta di fanciullo”.»

La messa in scena dei sentimenti, la sincera finzione è anche per Alda Merini la verità della poesia. Traspare in filigrana dai suoi versi l’anima casta di fanciullo assieme a una consapevolezza di sé che confina spesso con un prepotente egocentrismo. Ma se Gozzano prende continuamente le distanze da sé, ironizza, e la tragedia si conclude il più delle volte in farsa, seppure amara («mi vien voglia di prendere le mie carte e di pulirmene il buco del c…», scrive in una lettera a Vallini del 5 agosto 1907), nella presa di coscienza dell’irrimediabile inutilità del fare poetico, Merini può paradossalmente somigliare di più alla figura di poeta-vate che il crepuscolare metteva in burla. Per quanto pure giochi, e canti, e rida, e per molti versi sia lontana dal dannunzianesimo, la poetessa milanese rinnova spesso la rivendicazione di un ruolo nella società – la società che l’ha offesa, emarginata, e ancora l’offende, con quel silenzio e quell’indifferenza che i riconoscimenti dell’ultimo decennio non bastano a colmare; e già nelle poesie degli esordi è rintracciabile una tonalità solenne che ha qualcosa di sacrale, come il resoconto di una visione in preda a uno stato di ebbrezza, à la Rimbaud.

Per Alda Merini si può vivere e scrivere, ma non cantare solo per cantare. Sovente le capita di evidenziare in modo quasi didascalico il significato del suo lavoro, che è prigione dolce e tormentosa. Perdute ormai da tempo le illusioni di Lucien Chardon – quelle raccontate nello splendido romanzo di Balzac («– Che avete? – gli chiese Étienne Lousteau. – Vedo la poesia gettata nel fango, – rispose. – Eh, mio caro, vi fate ancora troppe illusioni!») , Merini reclama un giusto risarcimento alle sue fatiche e ai suoi dolori messi in versi. Ma, con gli occhi del disincanto, sa che mai le verrà concesso: soprattutto perché forse l’entità del risarcimento stesso non potrebbe essere misurata con metro umano.

Se un poeta dona le sue carte con l’intenzione di regalare i propri patimenti, le ansie, le mille anime, gli altri dovrebbero ringraziarlo. Perché il poeta, con gli occhi rarefatti dalla follia, sta guardando il destino anche per loro.

Anche un grazie generoso e sincero, uno sguardo meno indifferente, può bastare al poeta per essere un poco felice, se altro non c’è («C’è chi mi scrive che gli ho salvato la vita / e chi mi dice che io l’ho dannato. / Nessuno mi invita mai a una festa / perché come poeta debbo stare lontana / dai vincitori», si legge nelle Ballate non pagate). «Siamo poeti. / Vogliateci bene da vivi di più / Da morti di meno / Che tanto non lo sapremo», sorride Vivian Lamarque. E proprio a Vivian, «preziosa fatina dei nostri giorni», si rivolge l’amica Alda in una delle sue Lettere a un racconto: «so che definendoti da te “una poetina chiusa nella garzantina” sai benissimo di essere una grande donna, una che sa baciare veramente la vita. Tu sai che cosa devono imparare a fare i poeti: baciare la vita, anche se ha un alito stantio» . E questo è un lavoro vero, anche se sembra un gioco, anche se gli altri non ci credono.

Per questo cerco di scendere le scale un po’ curva, un po’ zoppicante, per non dare nell’occhio. E sporco la casa per far vedere (soprattutto agli editori) che io lavoro come gli altri.

La vita può inchiodare un uomo alla poesia, dice Alda Merini, rendendolo diverso, quasi sospetto agli occhi diffidenti del mondo. La mente da cui sgorga la poesia è certo vulnerabile, «una specie di grande zolfara», sosteneva Maria Corti, e la fatica del poeta sta nel gestire questa vulnerabilità, questa follia, analizzando il proprio delirio: come un «medico matto» destinato a curare sé stesso. L’insania è «un rapporto anche magico con la realtà»: la linearità dell’esistenza che si incurva, si arriccia.

«Combattuta fra te e la poesia, tu non puoi togliermi questa dimensione di luce né abbattere il cordoglio della fede perduta, questa fede così grande e trasparente come quercia che pare a me un bell’albero infinito, e la luce dirompe dalle vene nel segreto magnetico del carme. Combattuta tra te e la mia agonia, ora fugge l’amore: è canto pieno… nato da vita che ben mi assicura molta pietà del mio povero corpo.»

Alda Merini
Uno scontro armato fra un tu e la poesia, una scelta assurda come una battaglia, impraticabile: abbandonare una dimensione, che è questa – e il deittico sembra voler risaltare il termine che segue: estensione, misura stessa del corpo, valore. Né un amore è in grado di dissolvere un dolore del cuore (cordoglio) provocato dal lutto senza rimedio: la perdita di una fede che, pur essendo in presenza (questa fede), pare inavvicinabile: ed è un albero infinito, una quercia che si lascia attraversare dalla luce (o dalle parole degli innamorati: «gli innamorati si parlano / attraverso gli alberi»), la accoglie trasparendo – allegoria che occhi giovani sanno svelare. È tipico della poesia di Alda Merini il tentativo di dare forma all’informe, di fare acquistare un corpo all’incorporeo per definizione, e un corpo di cui è evidente la materia, l’essere destinato al disfacimento come la carne umana (in Merini è sempre fortissimo il senso del corpo): è così che l’oscuro silenzio si raccoglie in «ceste», la fede in «canestri», ed è possibile «degustare» le idee, «mangiare» la vergogna o il destino. L’albero è «un bell’albero infinito», o almeno così appare all’io poetante, che altrove ammette la sua inguaribile imprecisione: «mi inerpico su teneri arboscelli / e dico che sono alberi grandi»: ma forse è soltanto questione di prospettiva – la prospettiva della visione, della profezia («Io non ho mai avuto ricordi, / solo visioni acute, profezie»).

Quella stessa luce che le vene dell’albero filtrano, «dirompe» – nel verbo si avverte la violenza, l’implacabilità e la sacralità dell’azione – dalle vene del poeta, le infrange con impeto per farsi canto al termine di un processo «segreto» (dunque mai totalmente decifrabile, schematizzabile), che – come il cuore della terra – conserva una oscura capacità magnetica: e la poesia attira la vita, lega a sé chi scrive e chi legge e leggerà, trattiene schegge, frammenti, infilzati nell’inchiostro come ali di farfalla.

«Tormentosa è la sorte dei poeti»: la dimensione di luce è anche agonia – faticoso tentativo di fare spazio, nel buio, alla luce, lasciandosi parlare dall’ignoto, “divaricando” la mente, in un amplesso col sogno . Il lutto della fede perduta conduce chi lo avverte a uno stato di perpetua prossimità alla morte. «Tu, Dio, mi destinasti ai poemi / e per queste grandi vicende / mi hai dato tenebre grandi, / il male oscuro mi sorveglia di notte / ed è come una grossa arpia / con ali di diamante». Così l’amore si fa «pieno», nato dalla vita, e nella sua forma di carme assicura pietà per sé stessi, per un corpo – il corpo, una volta ancora – che il tempo maltratta, che si allarga nel destino, «macchina senza stantuffo» che si appesantisce, che ingrassa («per una ragione molto semplice: non faccio mai l’amore») e fa piangere, spesso – come piangono i bambini e i poeti, se si scoprono vecchi, «inutilmente» vecchi, o troppo soli: «Non sanno che io piango, / che ho una solitudine bambina». E nemmeno la luna consola, né accoglie lamenti come quella del pastore errante, ma si lamenta essa stessa, tirata fuori dai canti, pur sopra un poggiolo «che è sempre in festa», e si fa pesante, allora, la luna – quasi al pari di quella della Terra Santa, il manicomio: corrotta, «gravava sopra di noi la sera», «sghemba, irrisoria, che pareva volesse continuare a schernirci anche nel cielo». E sfuggente: come i versi di chi faticosamente deve gestire la sua follia, come la poesia di Dino Campana («selvaggio / e giusto ed equo come una campana»); e quella di Alda Merini, che afferra e non si lascia afferrare, scivola tra le dita, brucia, scappa via, trascolora – come un’apparizione.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 3 febbraio 2004
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