I secondi volano. Uno, due, tre, dieci, venti, trenta
Quando torni, Sergio? Non è possibile che in una notte di pioggia, alle quattro meno undici minuti, tu non sia ancora a casa. Come faccio a resistere ancora?
(da Amarsi male)
Così tutto finisce col consumarsi, e basta. Si consuma: e sempre troppo in fretta. Lamore si consuma; il desiderio si consuma; la giovinezza si consuma, e il tempo, il tempo soprattutto, si consuma. E tale disperante consapevolezza è detta, è scandita dallinsistente ticchettio di sveglie e orologi, dallattenzione spasmodica e struggente per le date e per gli orari. Un venerdì, alle due del pomeriggio, si può iniziare a morire. Un giovedì, dopo le cinque come suona il titolo di un fortunato romanzo di Debenedetti può accadere qualcosa di irreparabile. In unora buia e insolita della notte si può cominciare a piangere, con ostinazione e senza singhiozzi, come fa la bellissima Lucia, apparentemente senza perché, nelle ultime pagine di E fu settembre.
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Sempre, intanto, fuori, il cielo séguita indisturbato le sue evoluzioni di colori e di venti. Sembra quasi che Debenedetti, raccontando un personaggio, non possa fare a meno di seguirne con perizia lo sguardo, quando rapido e inatteso si alza verso il cielo. A cercare, a domandare cosa? Questo non è mai detto, ovviamente: ma ha ragione Filippo La Porta a sottolineare quanto spesso i personaggi di Debenedetti si trovino allimprovviso soli di fronte al cielo. E certo è che bisognerà farlo, prima o poi, un inventario di questi cieli perfettamente impressionisti: blu-viola, gonfi e lividi, bui e compatti, o gelidi e tersi di tramontana. Cieli perlopiù romani, disegnati dai venti, dalla pioggia, dagli «accesi presagi del mare».
Una tale precisione meteorologica contiene le scintille del cortocircuito che il dentro e il fuori, anche solo avvicinandosi, scatenano. I personaggi di questo scrittore stanno spesso alla finestra, e guardano, aspettano: sino a che il groviglio delle loro passioni stanche, delle loro attese inutili, delle loro memorie crudeli, viene investito acidamente da qualcosa che sta fuori, o meglio: da qualcosa che quel fuori contiene e nasconde.
«Sentimentalgia, ha detto?» domanda una voce misteriosa al suo improbabile interlocutore telefonico. E riprende:
È solo paura, mi creda, che venga fuori qualcosa di peggio. I nervi, sa? Ho sempre terrore che, allimprovviso, mappaia quanto si nasconde oltre lazzurro del cielo o il tappeto delle stelle.
(da Ancora un bacio)
Questa paura, che è in fondo paura di avere paura, si può sorprenderla in parecchi personaggi inventati, trascinati nella narrazione da Antonio Debenedetti: la vedi nella piega delle loro bocche, negli abiti, nel modo come li indossano, nei loro corpi, che appaiono e scompaiono, inghiottiti dagli anfratti bui e polverosi di stanze troppo fredde. La vedi in certi gesti improvvisi: come quello di Oscar, in un racconto di Monsieur Kitsch (1972), che, provando «un tormentoso bisogno di abbracciare qualcuno o qualcosa», «esasperato raccoglieva le ginocchia contro il petto e le stringeva con tutta la forza».
Dopo le prime prove sperimentali, Debenedetti nato biologicamente e direi anche letterariamente sul finire degli anni Trenta, perché lì è andato a cercarsi i suoi modelli di scrittura ha cercato la verità della narrazione pura, e di una lingua che non camminasse sopra la realtà ma ci stesse dentro, brutalmente essenziale come un referto medico della realtà medesima, con la quale lo scrittore non ha mai smesso di fare i conti. Lironia, che nei primi due libri diventava anche feroce sarcasmo, non se nè andata: sè assottigliata però, ingentilendosi forse un poco, ed è comunque una lente che non deforma più: ma aiuta a capire. E soprattutto non esclude la commozione, «unumanissima pietas», come dice Raffaele La Capria.
La sorpresa sta nelle straordinarie potenzialità di questa scrittura pulitissima, talvolta finanche disadorna, scarnificata: una scrittura che costa allautore fatiche e ripensamenti, e un continuo levigare, togliere via: nessuna virgola vi cade a caso. Le parole scivolano come lacqua ma senza perdere consistenza: qui sta lincanto. Trovano spazio, nello spazio essenziale delle parole di questo autore, frammenti di realtà tangibile, materiale, corporea. La precisione della scrittura riesce a portarseli dietro senza lievitare, senza crescere su sé stessa; a investire sui sensi, senza abbandonarsi a essi. Ecco che ti stupisci nellavvertire entro i confini geometrici, senza sbavature, di una frase molti odori, sapori: di cucina (carciofi fritti, basilico, mentuccia, ragù, legna da ardere), sparsi nei racconti di E fu settembre; di camere da letto: profumi invecchiati sulle mensole o nelle pieghe di vecchi tailleur. Restano dunque appiccicati a queste parole di carta adesiva brandelli concreti di vita concreta ché la vita stessa è come un colloide, ha detto qualcuno: di fatti, sensazioni, relazioni.
Se è vero che i narratori (gli autori di racconti, soprattutto) della seconda metà del secolo scorso hanno giocato più sulle atmosfere che sugli intrecci, anche Debenedetti, che quella metà di secolo ha attraversato da scrittore, da testimone, da critico, punta molto sul clima: quello meteorologico, si diceva prima, e quello sentimentale. Per luomo senza qualità protagonista di Un giovedì, dopo le cinque, Alfonso Berardinelli ha parlato di «personaggio Novecento»: come se Piero Ceriani riassumesse in sé le inquietudini, i vuoti di un intero secolo ed è senzaltro un giudizio condivisibile. Ma «personaggio Novecento» è latmosfera stessa che circola e sostiene le storie raccontate da Debenedetti: come se unaria, un vento nervoso che raccoglie le incertezze, le angosce pirandelliane, le schizofrenie sveviane, le indifferenze moraviane, le nausee sartriane, le paure gaddiane, i turbamenti collettivi e personali del secolo breve insomma, è come se questo vento nervoso, bizzoso Debenedetti lavesse inscatolato. Infilato e chiuso con metodo misterioso in una scatola robusta, di solido cartone ottocentesco (carta russa soprattutto, francese, e anche un po italo-manzoniana).
«Credo proprio di essere uno dei pochi scrittori odierni, dei pochissimi, che usa mettere le date dentro il contesto di ciò che scrive [
]. Come narratore, la mia ambizione suprema è sempre stata quella di risultare attendibile, credibile» scrive di sé Giorgio Bassani nelle pagine raccolte in Di là dal cuore. Uno dei maestri di Antonio Debenedetti è stato proprio Bassani, capace, da maestro appunto, di lasciarti addosso il corrosivo tormento di una virgola mal messa, di unimmagine confezionata con sciatteria. Così non è azzardato dire che anche a Debenedetti stia molto a cuore la credibilità di quello che racconta: una credibilità ottocentesca, la credibilità di chi prova a raccontare dal vero il vero. A tirare fuori dalla Storia una storia che riveli molto più di qualunque saggio: perché non gioca tanto con le idee, ma si sporca le mani con le cose, e indaga un mal di stomaco con la stessa serietà con cui indagherebbe un fossile o un faldone darchivio.
È così che si può spiegare la profonda commozione, partecipazione che suscitano i racconti di E fu settembre, lultimo, bellissimo lavoro di Debenedetti, uscito da Rizzoli. Raffaele La Capria ne ha scritto sul «Corriere della Sera» parlando di «un piccolo capolavoro»: per lemozione che le cinque storie del libro suscitano e per la lingua, «nitida e scorrevole, letteraria e discorsiva, che potrebbe definirsi loica e laica, una scrittura che ricorda quella di Svevo e di Moravia e anche quella di due prosatori affettivamente allautore più vicini, il padre Giacomo e lamico di famiglia Umberto Saba».
A cura della Redazione Virtuale
Milano, 2 maggio 2005
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