Le stagioni di Dacia Maraini

Una lettura critica dell'opera della scrittrce.
(di Paolo Di Paolo)
Dacia Maraini
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i può iniziare a scrivere per superare la timidezza? Si può prendere carta e penna per risvegliare le parole morte dentro di sé, sepolte in bocca, dopo unesperienza odiosa e brutale? «Cera una volta una ragazza», racconta Dacia Maraini parlando di sé stessa, di quando a diciassette anni ha cominciato a scrivere un romanzo «asciutto e ruvido che ha voluto chiamare La vacanza (1962), ma non e sono le sue parole nel senso di uno svago o di un viaggio festoso, bensì di un vuoto interiore». La vacanza è lestate e lopera della Maraini parte da questa stagione, stagione di abbandoni sensuali e di scoperte crude e dolorose. Cè laria pomeridiana odorosa «di alghe e di gelsomini», cè il «rimbombo soffocato e monotono del mare», in questo primo romanzo del 62 e cè Anna, una ragazza taciturna nellItalia del 43, che vuole sfidare il mondo, o soltanto conoscerlo, ma senza finzioni e falsità, e fare i conti con la vita, prenderla di petto. Ma poi la vacanza finisce, ed è ora di tornare in collegio e ad aspettare Anna ci saranno mani legnose, le mani di una suora e una finestra, la finestra socchiusa da cui scrutare «le tegole lustrate dalla pioggia». È un libro duro, La vacanza, dalla scrittura asciutta ed essenziale, la stessa prosa che afferra la realtà con immediatezza, senza infingimenti, ne Letà del malessere (1963), nelle cui pagine si racconta la paura della vita e una difficile educazione sentimentale. «Dunque tu sei soprattutto una scrittrice realista», scrive Alberto Moravia nella bellissima e gentile introduzione sotto forma di lettera a La vacanza. E continua:
«Cosa intendo per realista? Intendo lo scrittore che ama la realtà per quello che è e non per quello che dovrebbe essere, cioè soltanto e appunto perché è realtà; e che non si ritrae di fronte ad alcun aspetto per quanto imprevisto di questa realtà».
Moravia era convinto che nelle pagine de La vacanza ci fossero «nascosti e invisibili agli occhi dei più, i semi delle opere future». E in effetti aveva visto bene. Dacia Maraini, nella sua lunga carriera, non ha mai rinunciato a osservare la realtà, ogni realtà, anche quella più dolorosa e crudele, e a raccontarla, senza fronzoli o parole alate, con una fedeltà assoluta alle cose come sono. In nome di questa fedeltà (allinizio direi quasi verista e non è un caso che uno degli autori che Dacia ha amato e riletto di più sia Federico De Roberto), si è aperto un dialogo con i lettori. È sempre Moravia a spiegare che «noi in realtà non leggiamo tanto un libro quanto impegniamo un dialogo con luomo che è nel libro». E nonostante che bisognasse mandare giù molte minestre per portarlo avanti, la Maraini non ha smesso di credere nel dialogo con gli altri attraverso le parole di un libro o attraverso quelle che prendono vita su un palcoscenico, e che possono incidere sulla coscienza di chi ascolta, indurre alla riflessione, e scandalizzare, se necessario.
la voglia del palcoscenico ci attizza i sensi
e piangeremo insieme seduti al buio
pensando a quello che avremmo
potuto essere e non siamo
(Dacia Maraini, Viaggiando con passo di volpe, 1991)
Sono versi di Dacia Maraini, che esprimono in maniera significativa il suo amore per il teatro, tempio della parola e del pensiero, a cui ha dedicato una vita, cominciando ad allestire spettacoli in cantine umide e polverose, con la collaborazione di donne che, come lei, avevano voglia di fare sentire la loro voce, di parlare, di aprire un dialogo, appunto e il palcoscenico è, per eccellenza, il luogo del dialogo. Negli anni Settanta la Maraini si è impegnata in prima fila per rivendicare i diritti delle donne, diritti troppo spesso negati e violati. Ha conosciuto da vicino realtà estreme le donne che racconta nei versi di Donne mie (1974), si potrebbe dire, sono le madri dei ragazzi di vita di Pasolini. E allora le storie di donne in guerra, le memorie della ladra Teresa, la tragica vicenda di Isolina, sono le storie di quegli anni battaglieri in cui la volontà è quella di provocare, di svegliare, se possibile, qualche coscienza addormentata, senza dolcezza, perché dolcezza non cè in quelle vite narrate. La dolcezza si fa largo più tardi, quando al dolore si sostituisce una speranza che si fa via via più tenace, senza diventare mai puro sogno o utopia. La dolcezza cè nelle Lettere a Marina (1981), lettere che forse non arriveranno mai a destinazione ma che diventano il pretesto per raccontarsi a sé stessi, per svelarsi e fare i conti con gli incubi, con la memoria, con gli amori segreti e con lamore magari per una donna. Lettere a Marina è un romanzo epistolare la cui stessa forma consente di stringere in un tu carico di affetto tutte le storie del nostro io. Come nel Treno per Helsinki (1984), lo stile scelto dalla Maraini è molto suggestivo, un poco petroso, con una punteggiatura essenziale e una ricchezza di immagini rivelatrici e perfette. È in queste pagine che incomincia a sentirsi più forte quella attenzione ai sensi, quella scrittura dei sensi che sarà come molti hanno notato una delle più evocative e magiche peculiarità della prosa di Dacia Maraini. Odori di mare, di grasso di maiale, di cipolla, di basilico, di erba medica, di margherite bruciate dal gelo. E pezzi di memoria, risuscitati per incanto da un gesto, un volto, una qualsiasi madeleine, finanche il sesso di una donna amata, che diventa
« [
] qualcosa daltro un ingombro di macerie le rovine di una mia casa dinfanzia le statue nel giardino di una delle amanti di mio padre la cappella umida e scrostata del collegio lostia dal sapore di carta che rigiravo sulla lingua trasformandola in un pezzo vivo del corpo di Cristo le mani voluttuose di mia madre un letto disfatto un vestito a foglie rotonde lilla che mettevo quando avevo tre anni un rubinetto che gocciola nel dormiveglia e non so che altro un turbinio di cose perdute e rimosse che tornavano dandomi laffanno.»
Un turbinio di cose perdute investe anche le pagine di un libro del 93 molto fortunato e apprezzato da critica e pubblico, Bagheria (1993). Bagheria è, tra le stagioni dellopera di Dacia Maraini, lautunno. Il momento del recupero memoriale, dei conti con un passato che fino a ieri si voleva dimenticare, sradicare da sé stessi. La voce che dice «io», stavolta, è proprio quella di Dacia, che con una certa timidezza e forse con un poco di paura prova a risuscitare il tempo dellinfanzia, le luci e le ombre di quei giorni e, di nuovo e con più insistenza, i sapori e gli odori di una terra amata e odiata, la Sicilia. Qui la prosa ha perduto completamente la secchezza degli esordi, qui la prosa è liquida e invita allabbandono, allindugio sentimentale, al ricordo. Lolfatto è protagonista, e gli odori di «vecchie mele [
], di biancheria usata, di capelli scaldati dal sole, di libri scartabellati, di pane secco, di scarpe vecchie, di fiori macerati, di tabacco di pipa, di balsamo della tigre contro i reumatismi» sono gli odori del padre, quelli che si portava dietro dai suoi interminabili viaggi. Perché Bagheria è anche il racconto dellamore per il padre come La nave per Kobe (2001) è il racconto dellamore per la madre.
E linverno? Linverno dovè nellopera della Maraini? Di inverno ce nè molto, linverno si insinua in tante pagine, in tante storie, come si insinua nelle pieghe del vivere. Linverno è nel dolore de La vacanza, del vuoto che fa torcere il collo «in un gesto dolente di ricerca»; linverno è ne L'età del malessere, e in tante altre storie. Come soprattutto quelle di Buio (1999), dove i sentimenti sono congelati ed è difficile credere che tutto quel dolore sia possibile. Con Buio, Dacia riprende in mano le realtà più crudeli di oggi e le racconta con essenzialità, mettendosi in disparte e cucendosi addosso i panni del testimone. Un testimone che a volte non riesce a trattenere lo sgomento e la desolazione, sentimenti che si avvertono tra le righe, come uneco disperata, come il canto del gallo, che canta «tutta la notte un suo amaro e squillante canto di dolore» per Suor Attanasia, violentata e poi brutalmente privata della bambina che amava con tutta sé stessa, sebbene nata da uno stupro. Linverno può essere anche in un dolore privatissimo, come la morte di una persona cara, da cui viene colpita Vera, lio narrante in Dolce per sé (1997). Dolce per sé è la primavera, la stagione della speranza, del superamento del dolore, dellallegria vitale della maturità. In queste pagine ricche di una grazia leggera e straordinaria trova spazio, ancora una volta, il linguaggio dei sensi, e più di tutti, stavolta, ludito. Cè molta musica, in Dolce per sé, la musica del ricordo, la musica delle fiabe, delle filastrocche, dei più buffi gerghi familiari, la musica dellopera lirica e quella, più bella in assoluto, di un violino, il violino dello zio Edoardo, che si ascolta con le orecchie e con il cuore.
«Quando senti che quel piccolo corpo di legno cavo sta dando il meglio di sé, quando ti rendi conto che la sala segue e incalza lesecutore con ondate di entusiasmo e gratitudine, quando percepisci che migliaia di respiri si stanno adeguando allo stesso ritmo, quando ti accorgi che levento mondano si sta trasformando in qualcosa di sacro, ecco che esci fuori dalla tua ristrettezza individuale e piano piano ti trovi trasformata in una parte dellinsieme.»
La riscoperta dellinfanzia, il ricordo e il contatto quotidiano con le parole rigenerano, sembra dire Vera nelle bellissime lettere che spedisce alla sua piccola interlocutrice Flavia. Limmagine che chiude il libro è quella di un quadro, La fontana delleterna giovinezza, simbolo di una concezione che vede nella memoria e nella letteratura come ha notato Lorenzo Mondo la «grazia estrema contro gli insulti del dolore e del tempo». E in quella fontana ci sono un po tutte le stagioni della vita, come in La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), romanzo che ormai è quasi un classico della letteratura degli ultimi anni. Romanzo della vita e romanzo di vita. Romanzo in cui riassumere esperienze, seminare speranze dolori ricordi vissuti o inventati, e inventati secondo letimo latino, invenire nel senso di scoprire, trovare, riportare alla luce. Perché Dacia Maraini in questo libro, famoso in tutto il mondo, ha riportato alla luce una storia lontana, ha dato voce ai pensieri di una donna sordomuta piena di coraggio che non vuole arrendersi e tenta di sfidare le ottusità e le viltà di chi la circonda, in un ambiente del Settecento siciliano fastoso e sordido. E questa impresa faticosa, costata anni di minuziose ricerche, è riuscita anche grazie alluso di uno stile che secondo la felice osservazione di Walter Pedullà «alla lunga si mette a cantare», svelando segreti, acciuffando come sempre odori e sapori. Uno stile che è frutto di un lungo lavoro di lima, di cesellatura, un lungo e faticoso lavoro, dove niente è lasciato allimprovvisazione.
È questa una delle lezioni fondamentali che Dacia lascia ai suoi allievi dei corsi di scrittura: in letteratura limprovvisazione non paga. Bisogna piuttosto stare ore e ore su una pagina, perché per dire qualcosa ci vogliono le parole giuste, e trovarle non è facile. Il risultato, oltretutto, deve avere naturalezza e leggerezza. Dovrebbe rifarsi, insomma, a quello che Raffaele La Capria chiama «lo stile dellanatra», che «senza sforzo apparente fila via tranquilla e impassibile sulla corrente del fiume, mentre sottacqua le zampette palmate tumultuosamente e faticosamente si agitano: ma non si vedono». Limmagine è divertente, e rende bene il concetto di una letteratura che, in virtù di un notevole sforzo nascosto, scivola via come sulla corrente di un fiume, capace però di incidere profondamente nei pensieri del lettore, i cui occhi raccolgono le parole e questa immagine appartiene proprio a Dacia Maraini «come grappoli di una vigna sospesa» poi spremuti e sparsi in forma liquida nelle vene, attraverso cui scorrono felici. È dunque questa, secondo Dacia e anche secondo noi, la «divina vendemmia della letteratura».
Milano, 11 gennaio 2003
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