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UNO DEI DRAMMI PIU' VIOLENTI NELLA VITA DI PIER PAOLO PASOLINI ATTRAVERSO I FILM PIU SIGNIFICATIVI

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Contributi

Appunti per un universo mitico: Pier Paolo Pasolini
Di Ruben Garbellini
(FRANCAIS)

Pier Paolo Pasolini

«una sola cosa comprendo: che sta per morire
l'idea d'uomo che compare nei grandi mattini»

[Pier Paolo Pasolini, Nuova poesia in forma di rosa]

«Morte o Vita: una parola!»
Euripide, Oreste

retica (1) e blasfema ma paradossalmente cristiana, la simbologia di Pasolini si iscrive in un universo profondamente pagano, arcaico ed essenzialmente letterario. La costellazione dalla quale provengono le opere di Pasolini è strettamente correlata più che alla storia del cinema -arte appena nata e priva ancora di una sua codificazione (2)- alla storia dell’arte e a quella della letteratura e della poesia. Nella poesia, vista dall’autore non solo come costruzione letteraria ma come costruzione visiva di un immaginario profondamente irrazionale (3) -i "testi" letterari e cinematografici pasoliniani ritrovano l’universo antico e mitico dei trovatori e degli aedi della Grecia arcaica per ricongiungersi alla sua personale visione critica e poetica.

Pasolini era un profondo conoscitore del mito nei suoi aspetti antropologici e linguistici (ricordiamo le sue traduzioni da Saffo e delle tragedie greche), e sono dell’avviso che sia la produzione letteraria che va da Poesie a Casarsa a La Divina Mimesis quanto quella cinematografica da Accattone a Salò o Le centoventi giornate di Sodoma è irrimediabilmente proiettata in una dimensione mitica che sboccia nella morte, come nel solido impianto di una tragedia classica. Penso che sia utile riprendere il dibattito attorno ad un autore del livello di Pasolini rilevando quanto il cambiamento culturale e ideologico di una società durante quarant’anni ha potuto apportare alla visione della sua opera, e ciò che vi è rimasto di autenticamente produttivo per l’immaginario e per la critica contemporanea. Vorrei rilevare il valore del Mito, termine che qui considero non nella sua definizione ortodossa; a mio avviso una delle chiavi più importanti attorno alle quali rileggere l’opera di Pasolini, dalla prima raccolta di poesie sino all’ultimo film postumo. Il significato profondo va ricercato entro gli opposti coincidenti del mito e della morte, ovvero della vita stessa e del mito successivo.

Non si dimentichi che il mondo giudeo-cristiano dal quale proviene Pasolini è un universo ancestrale circondato dal peccato e dalla morte, e che nell’idea di realtà (sacra) perseguita dall’autore vi è sempre qualcosa di sconosciuto dietro la soglia: le grida, gli spasimi, l’orrore, le tenebre. Il mondo medioevale di Dante non è discosto da certo pensiero pasoliniano tale lo si può rintracciare in alcune sue opere. L’inferno nel quale sono immersi i protagonisti di Salò/Sade –ormai ridotti a bestie- è un identico inferno a quello conosciuto dai personaggi danteschi. Per Pasolini la "stagione infernale" non è mai terminata, è anche un percorso cinematografico anomalo espressamente scelto come mezzo di espressione intimo e personale a causa delle sue profonde radici letterarie e filosofiche. Un ardore orientato verso un cinema essenzialmente filosofico in una dimensione chiamata dall’autore «cinema di poesia», dove il grafismo coincide sovente con un’altissima capacità evocativa e linguistica. Un universo senza alcun dubbio mitico e unico, sospeso entro il sogno e la realtà (ma dov’è la frontiera per l’uomo Pasolini?) e nel quale la felicità diventa anch’essa sogno, attuazione utopica di un’umanità degradata e ridotta a marionetta di se stessa, condannata dalla sua propria vocazione più animale alla caduta definitiva nel fango di una palude infernale. Sono più le storie che terminano nel sangue, più gli abbracci disperati e feroci che quelli gioiosi e fertili. La tensione tutta mortale dei personaggi de Il Vangelo secondo Matteo o di Una vita violenta nasconde uno dei drammi più violenti dell’uomo Pasolini: quello dell’anima e della carne. La pesante plasticità dei corpi è comparata alla loro vocazione spirituale, una vocazione materializzata (il viso dell’angelo annunciante nel Vangelo ne è un meraviglioso esempio, mistura di androginia e sensualità adolescente) in un tempo indefinito, che è per l’appunto il tempo, indefinibile, del mito. Del mito della nascita, e della inevitabile, successiva degenerazione e caduta.

Pasolini, Decameron

Essere nella storia non basta a Pasolini. Con tutte le sue contraddizioni è un uomo pervaso di una domanda alla quale non avrà mai una risposta. E’ autore di grida disperanti come Salò e di favole sull’innocenza e l’amore come Il fiore delle mille e una notte, favole possibili unicamente nella dimensione del mito, e in quella, egualmente mitizzata dall’autore, dell’adolescenza. Sarà questo amore agape ed eros nello stesso tempo che spingerà Pasolini a risalire il fiume del tempo e del mito «alla ricerca di fratelli che non sono più» (Appunti per un’orestiade africana). Ma anche da questa ricerca ritornerà sconfitto. Posso parlare di una persistenza del mito nell’opera di Pasolini, generatrice di una “dimensione” mitica.

Il mito, l’amore viscerale per il popolo, la ricerca costante di una dimensione sacra in contrasto ad una terra desolata, Pasolini lo ritrova nei corpi dei ragazzetti e delle ragazzette del desolato agro romano protagonisti dei suoi primi romanzi, o nella scoperta sensualità dei corpi del Decameròn. Un corpo rappresentato per la sua orgiastica fecondità, il sesso. Allorché l’ultima bellezza sopravvissuta- quella della nudità della carne- sarà distrutta, annientata da un percorso di spersonalizzazione di massa, la città mitica di Sahnn’a si trasformerà in Salò-Sodoma; alcova di angeli crudeli e caduti, i corpi saranno carne sanguinante sul tavolo anatomico, il piacere ridotto a meccanica, i gesti divenuti una banalità: la sacralità della vita per una morte donata gratuitamente.

Il rapporto con il mito deve essere fecondo, e per ciascuna fecondazione è necessario un sacrificio. Il tema del sacrificio come atto indispensabile alla santificazione e alla sottintesa rinascita è esemplarmente analizzato nei due film dedicati espressamente al mito greco, Edipo re e Medea. Ma il sacrificio, dalle sue prime opere poetiche, è legato alla sua cultura cristiana nella figura del sacrificio salvatore di Cristo. Col passare del tempo sempre più Pasolini identificherà se stesso con la figura del Cristo tormentato, il Cristo patients della tradizione latina. Il tema dominante del sacrificio diventa un dialogo che rivela l’apertura ad un passato -quello dell’universo ancestrale, del Mito e dell’oscurità- nel quale la morte diventa compimento supremo della vita, «salario pagato al peccato» (4). La morte che compie «un montaggio definitivo della nostra vita», concludendo il racconto della nostra esistenza e suggellandola per sempre. Si potrebbe forse apportare una revisione alla terminologia mitica -questi brevi note non bastano a spiegarla, ma ne posso proporre una chiave di lettura- sul concetto di morte, rinascita, come luogo della reinvenzione tale lo si può trovare in The Waste Lande di T.S.Eliot o nel cinema di Bergman: il valore del mito all’interno di strutture letterarie e dunque cinematografiche diviene una visione quasi antropologica, scientista. Per una antropologia mitica pasoliniana dovremmo ritrovare i suoi punti cardine con la pittura della prima Rinascenza italiana, Masaccio e Masolino, L’Orcagna del Trionfo della Morte, La Terra, Il Sesso e ancora la Morte; le radici della poesia dantesca in volgare, la civiltà contadina, l’ineluttabilità quasi fatale degli avvenimenti, il profondo pessimismo dell’autore privato della speranza.

Il mito dell’Uomo è sbriciolato nello scontro con un presente in rapido progresso industriale e meccanico, controparte blasfema e atea della sacralità pastorale vagheggiata da Pasolini ragazzo nella campagna del Friuli. Il rapporto uomo-natura è completamente infranto a favore di un progresso mostruoso; la natura vergine e profondamente pagana del suo primo romanzo, Il sogno di una cosa, è mutata sino al titolo chimico della sua ultima opera, Petrolio.

Caravaggio, I musici

Cineasta e poeta, Pasolini non può dimenticare le sue profonde letture nel campo del mito e dell’etnologia così come la lezione di Roberto Longhi sulla pittura del primo Rinascimento italiano [vedi anche le note al saggio Dove l'acqua del Tevero s'insala]. Per Pasolini, un’opera è completa solo quando può avere un rapporto diretto e più con il suo panorama storico, culturale e sociologico. Questo significa anche il suo contrario; la dialettica pasoliniana si articola per elementi opposti, talvolta stridenti. Quella che circonda il giovane Pasolini nei campi del Friuli è una cultura ancestrale, più prossima al mito che alla dimensione sociale. Facendo una ellisse e un iperbole, possiamo vedere nell’affermazione del regista sulla sceneggiatura come «struttura che vuole essere altra struttura» l’idea di un mito primordiale generatore di altri miti? Una struttura aperta? Un’opera perpetuamente in fieri? Molta sua produzione parrebbe confermarlo. Questa affermazione la posso associare a un dominio di «necessità espressiva»: un fare del linguaggio -anche cinematografico- una sperimentazione.

Pasolini come profondo conoscitore del mito ne ricercava l’aura nel mondo contemporaneo: ecco dunque i fiumi romani, il Tevere e l’Aniene trasformati nella metafora nei fiumi infernali, mentre Roma caput mundi diviene il regno dell’oltretomba, la città di Dite, con Paradiso e Inferno fianco a fianco. Le acque del Tevere diventano le acque dello Stige, i giovani malfattori quasi caravaggeschi di una Roma «coperta di sporcizia e di sudore, tutta croste e vizio», diventano peccatori in cerca di una impossibile rigenerazione (Squarci di notti romane, Mignatta, Una vita violenta, Alì dagli occhi Azzurri). Passare un periodo in prigione nella "lingua" pasoliniana si tramuta in un passaggio all’inferno, attraversare una dimensione ctonia; e in un crescendo di metamorfosi (ché la sua realtà altro non era che una irrealtà metastorica) Dante nientemeno appare in carne e ossa alla sommità di una collinetta della periferia romana alla giovane prostituta di uno dei primi racconti romani. Testimonianza dell’irriducibile volontà di dialogo tra la realtà e una idea mitica della realtà stessa.

Pasolini, Salò

Vedo l’engagement pasoliniano come un possibile impegno utopico: l’integrazione, lo scambio continuo del mito e del favoloso nelle sue narrazioni ne costituirebbero un sintomo. Dunque non solo il narratore di «matrice squisitamente verista, più diretto discendente del Verga» (5), ma un narratore visionario, deciso a penetrare questa realtà con un’altra realtà soprastorica. Non mi pare, rivedendolo con la lontananza temporale che allora non era possibile, giudicare la prosa pasoliniana, soprattutto nella completezza della sua opera filmica così complementare alla sua opera letteraria, semplicemente sulle basi di quel verismo populista tanto blasonato ancora alla seconda metà del Novecento. Più marcati sarebbero i legami col neo-realismo, ma questa considerazione ci porterebbe su un altro versante che meriterebbe una esplorazione a sé. Piuttosto è il rimpianto per una terra perduta per sempre -la terra dell’adolescenza che sopravvive unicamente nell’amarezza del ricordo del poeta- contenuta in una visione che (oggi) assomiglia all’immaginario prodigioso dei bestiarii medioevali. Questa sacralità antica, che appare dalle sue prime poesie in dialetto friulano (Poesie a Casarsa, 1942) non è solo la sacralità dei corpi, ma anche dei luoghi ancora intatti e vergini nella loro aura arcaica; quasi una revisione Novecentesca dell’Arcadia goethiana (ricordo l’ammirazione del giovane Pier Paolo per il poeta di Weimar). Il sogno di un’età dell’oro, la sorgente dell’eterna giovinezza, costituiscono una capacità sacra di "stupefazione" dono dell’individuo ("il poeta") alla collettività. Un legame con l’argomento mito si ritrova così all’interno della narrazione de Il fiore delle Mille e una notte, che assomiglia sempre di più a un sogno dentro un sogno cui si oppone l’incubo nell’incubo rappresentato in Salò o Le centoventi giornate di Sodoma.

Il «cinema di poesia» teorizzato da Pasolini ritrova una dimensione ancestrale e mitica, anche perché la sua opinione personale sulla poesia nel dramma della realtà non ha nulla di sentimentale. Pasolini ci propone di vedere con differenti occhi quel che ci circonda («il principio di realtà» chiamato da lui stesso, sull’onda d’entusiasmo semiologico, significante): «non naturalizza i codici della natura letteratura cinema linguistica, ma al contrario rende colta la natura, facendo del vivere un parlare» (6). Ancora una volta possiamo proporre un’idea sacra della realtà che circonda i suoi film e i suoi romanzi, una specie di "lingua della realtà". Ma è attraverso questa lingua, questa trasfigurazione, riproposizione, che il tempo viene proposto come un sistema sregolato. Avremo dunque il tempo del mito Edipico, con i suoi legami con gli anni Venti del Novecento e l’infanzia del poeta e un passato arcaico e mitico al di fuori della Storia. La nozione del tempo in Edipo Re, Medea Il fiore delle mille e una notte così come in Il sogno di una cosa è la presa di coscienza di un tempo favoloso nel quale vivono e si muovono i personaggi della tragedia. Alla luce di un tempo storico indefinito e sfumato ‘che non è ma continua ad essere’ il significato finale della vita proiettata in una tensione verso la Morte come naturale epifania ritrova la sua dimensione sacra e il suo spessore mitico.

Uccellacci e uccellini

«L’immagine e la parola, nel cinema, divengono una sola cosa: un topos», afferma il poeta-corsaro. Le vittime sacrificali, il narratore favoloso (il corvo parlante di Uccellacci e uccellini) il mito del giovane Dio sceso in terra, nel Vangelo o in Teorema (ovvero il Dio reincarnato) così come il sacrificio vegetativo in Medea costituiscono una reinvenzione delle figure mitiche. La comparazione con l’universo dantesco, uno dei più analizzati e amati da Pasolini dimostra che il poeta aveva un concetto dell’ineluttabilità del Mito (nella Divina Mimesis in prosa, incompiuta, non senza mordace ironia, un mondo industrializzato e capitalista si sostituisce alle vecchie pene). Il mito come concetto sopratemporale (con naturali e quasi ovvie associazioni alla psicoanalisi), come struttura portante di un immaginario collettivo della realtà. Quest’idea del mito si infrange contro la cultura urbana, la società di massa, l’industrializzazione forzata, il tempo perde il suo valore umano: da qui la necessità del poeta di abiurare alla «Trilogia della vita», una volta che è stata soverchiata dagli stessi poteri distruttori del senso del mito.

Il Vangelo secondo Matteo

La perdita del senso del mito, per Pasolini, è soprattutto la perdita del senso della festività. L’antica festa apportava valore agli arcani simboli della Terra, della Notte, della Luna, del Sesso e del Sangue. Essendo scomparso il senso della festività solenne così come la festa orgiastica e dionisiaca nella natura senza limitazioni carnali e religiose, le giovani genti perdono il valore del mito rigenerativo, e al tempo stesso la perpetua continuità con il mito stesso. Questa interruzione, così repentina dopo millenni di connivenza, il passaggio traumatico da una società e dimensione agricola a un’industrializzazione a tappe forzate, sconvolgono l’universo poetico dell’autore il quale ne avverte la soffocante e lacerante mancanza improvvisa. Irrompe la necessità di un’abiura, di un distacco da quel che ormai non appartiene che al tempo del mito. La realtà contemporanea, per Pasolini, non è che "orrenda". Una volta interrotta questa millenaria continuità con il rito di passaggio non vi sarà più posto per l’ardente estate mediterranea, ma la «notte diverrà oscura». Il tempo dell’Omega è giunto, Salò. I «grandi mattini dell’umanità» sono scomparsi: come ne La Terra Desolata di T.S.Eliot il poeta, simile a un aedo cieco, non può profetizzare altro che sventura. Che resta all’uomo Pasolini? Il grido disperato delle giovani vittime di Salò, l’ambiguità della Domanda dell’uomo-Cristo, il Gesù morente e tormentato: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». La vita del poeta de Il vangelo secondo Matteo fu vissuta sotto le insegne della rivolta e della determinazione all’espressione. Ricordo e condivido la sua affermazione di coraggiosa poetica: «Esprimersi e morire o rimanere inespressi e immortali».

Parigi, 2001 - Milano, 4 febbraio 2002
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NOTE
1) Questo articolo fu scritto, in francese, in occasione della riedizione di quattro film di Pasolini in alcune sale di Parigi (Il fiore delle Mille e una notte, Salò o le 120 giornate di Sodomia, Edipo Re e Il Decamerone) Rivedendolo brevemente, ho mantenuto la struttura originaria e la citazione dei film. Non è un articolo espressamente cinematografico. Ma data la collaborazione di Pier Paolo Pasolini come sceneggiatore sin dai primi anni Cinquanta e al debutto di quella che fu all’inizio una carriera di letterato, mi sembra inestricabile il ‘groviglio’ che ne consegue.
2) Cfr. P.P.Pasolini, Empirismo Eretico, Garzanti 1995; pag. 167 e segg.
3) Cfr. Empirismo Eretico, cit.;
4) Paolo, Epistola ai Corinzi.
5) G.Contini a proposito di ‘Una vita violenta’, in Pier Paolo Pasolini, di F. Pierangeli e P.Barbaro, Gribaudo Edizioni, 1999.
6) In Empirismo Eretico, cit.

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http://www.italialibri.net - email: - Ultima revisione Mar, 24 mag 2005

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