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Antonio Debenedetti Una vita dedicata alla letteratura, costellata di incontri straordinari
o parlato a lungo al telefono con Debenedetti, che già avevo contattato tempo fa per una serie di incontri che organizzo nei Castelli Romani. Era un mio desiderio a lungo covato quello di parlare con questo scrittore, dopo la lettura di Giacomino, un libro bellissimo, straordinario... che non è solo un omaggio a un grande padre, ma un testo più istruttivo come ha scritto Filippo La Porta di tanti manuali di storia letteraria del '900. Molte domande mi sono nate lì per lì, altre le ho scritte prima, traendo spunti dai suoi testi e soprattutto nel tentativo di ricostruire una carriera nata sotto le ali di un grande critico, in una casa zeppa di libri e frequentata da personaggi come Saba, Montale, Savinio, Moravia ecc ... (Paolo di Paolo)
Antonio Debenedetti
D. Parlare con Antonio Debenedetti significa essere travolti da un fiume in piena di ricordi straordinari, figure e parole che hanno nutrito una passione precocissima per la scrittura, portata avanti negli anni, come ha scritto Giulio Ferroni, seguendo «un itinerario di coerenza estrema, rivolto a perseguire unanalisi spietata di figure di solitudine, di vita reticente e sospesa, di sorda negazione di se stessi, di impossibile comunicazione».
Considero Ferroni uno storico della letteratura di grande equilibrio e di grande penetrazione. Dunque mi riconosco nel suo giudizio. Naturalmente, ogni scrittore si lascia un margine di imprevedibilità rispetto ai suoi critici, perché vuole sempre, anzitutto, stupire se stesso.
D. Immagino che, in una casa piena di libri come quella della sua infanzia, la passione per la lettura non potesse, prima o poi, non fiorire in lei
Ho cominciato a leggere prima di saper leggere. Da bambino ero spesso malato, soffrivo di mal di gola e stavo molto a letto. A casa, mi leggevano pagine e pagine, dandosi addirittura il turno perché ero davvero insaziabile. Ricordo che ossessionavo la mia povera nonna chiedendole di continuo: mi leggi? mi leggi? e queste letture che mi travolgevano in modo così febbrile erano i romanzi di Salgari. Amavo soprattutto quelli che avevano come protagonista Sandokan, o I misteri della jungla nera, le storie indiane, insomma. Poi ho scoperto I figli del capitano Grant e divenni un lettore di Verne. Questo grazie ad Alberto Savinio, che frequentava casa nostra, e me ne regalò una copia. Verso i dodici, tredici anni cominciai a leggere Moravia, forse anche spinto da curiosità erotiche, e fu uno dei grandi autori della mia prima adolescenza, assieme alle altre passioni come Camus e Sartre. Più tardi vennero Cechov, Maupassant, Flaubert e Balzac.
E linteresse per la scrittura?
Potrei dirle, anche qui, che ho cominciato a scrivere prima di saper scrivere. Le sembrerà curioso, ma alletà di cinque anni già costruivo dei quadernetti con fogli piegati in quattro e spillati, immaginando che fossero dei miei libri. Quando ancora facevo le aste, già sognavo di diventare uno scrittore: in terza elementare, in un tema, immaginai la gloria letteraria nei panni di un futuro Pascoli o di un futuro Carducci, gli autori che allora conoscevo. Ricordo ancora questo episodio, perché il mio tema fu pubblicato sul giornale della scuola. Da ragazzo nacquero in me anche la passione per il teatro e per il cinema, che coltivo tuttora, ma la mia vita è scrivere.
Il suo secondo libro, dopo i racconti di Monsieur Kitsch, si intitola In assenza del signor Plot ed uscì nel 76 con la prefazione di Alberto Moravia. Come conobbe Moravia?
Moravia era amico di mio padre. Come ha ricordato nella lunga intervista rilasciata ad Alain Elkann (Vita di Moravia, Bompiani), lo conobbe molto presto, già nel 29 veniva appositamente a trovarlo a Torino. Dunque già da bambino conoscevo Moravia e la Morante, tanto è vero che io e mia sorella Elisa ricevemmo presto in dono Caterì dalla treccia azzurra, il libro per bambini scritto da Elsa. Avevo una grande soggezione di Moravia, e sono diventato davvero suo amico solo nei primi anni Settanta, pur conoscendolo da sempre. Per il «Corriere della Sera» lo intervistai spesso, e fu in quelle numerose occasioni che nacque una fortissima amicizia. Moravia è probabilmente lo scrittore a cui mi sento più affezionato, gli ho voluto bene, pur continuando, fino alla fine, a dargli del lei.
Negli anni, lei ha pubblicato diverse raccolte di racconti, che la critica ha salutato con giudizi lusinghieri. Filippo La Porta nota che negli splendidi racconti di Amarsi male, ad esempio, lei trova una lingua «più concentrata, essenziale». Dove nasce la passione per il racconto?
Ci sono dei classici inarrivabili che testimoniano come il racconto in letteratura sia una vera vocazione. Si pensi a Maupassant, a Cechov, alla Mansfield, e per citare un autore più vicino a noi lo stesso Moravia, che proprio nei racconti degli anni Trenta da Cortigiana stanca a Inverno di malato ha raggiunto alcuni tra i suoi risultati più alti. Forse il 900 letterario italiano ha dato il suo meglio proprio nel racconto. Alcuni tra i testi più belli e significativi di autori come Pirandello, Bontempelli, Bassani, Calvino sono proprio racconti. E splendidi autori di racconti sono anche Gadda e Landolfi.
Una delle figure più importanti nella sua infanzia è quella del poeta Giorgio Caproni. Che ricordo conserva di lui?
A Caproni debbo lavere imparato a pensare. Veniva a casa nostra negli anni in cui traduceva la Recherche. Caproni era un traduttore molto raffinato ed esigente. Fu Bigiaretti, di cui era molto amico, a consigliargli di chiedere suggerimenti a mio padre, che era il maggiore studioso italiano di Proust. Quasi per sdebitarsi cominciò a darmi delle lezioni. Per due mesi ero stato assente da scuola a causa di una febbre linfatica, e lui si offrì di aiutarmi a recuperare. Diventammo molto amici. Ricordo i suoi regali, tra cui un lapis tutto argentato, le sue lettere e la poesia che mi dedicò. Caproni mi ha insegnato la dissacrazione, leresia. Oggi, ad esempio, credo che De Amicis sia uno scrittore notevole, ma da bambino Caproni mi spinse a disprezzarlo, a metterlo in caricatura. Giorgio aveva una vocazione didattica straordinaria, tantè vero che ha insegnato per anni nella scuola elementare.
Perché, a suo giudizio, soltanto in anni recenti, alla poesia di Caproni è stato attribuito il valore che le spetta?
A differenza di quanto possa sembrare, in realtà Caproni è un poeta difficile. Guadagnarsi la gloria per lui è stato faticoso come per Saba e Penna, poeti al di fuori degli schemi e delle scuole letterarie. La sua poesia ha lorecchiabilità duna canzone di Gino Paoli e la profondità dolorosa dun grido di solitudine e anarchia.
Nella sua vita ci sono due città: da una parte Torino e dallaltra Roma, descritta stupendamente in tante sue pagine, con i cieli che si tingono «degli accesi presagi del mare» o le giornate malinconiche in cui raffiche di scirocco «sabbattono rabbiose sulle cupole barocche»
Sono nato a Torino e con Torino ho forti legami sentimentali. Ma Roma è la mia città, la città dei miei studi, la città dove ho lavorato, lavoro e vivo, dove è nato mio figlio. A Torino vivevano i miei nonni materni, Torino era la città delle vacanze di settembre tornati dal mare. Ma la mia città è Roma, che per Mario Soldati, torinese, era una città esotica, la città delle fantasie letterarie. A me accade il contrario: Torino è una città che mi ispira molto, con quelle atmosfere così suggestive, ma Roma è la città della vita.
Spesso, dalle pagine del «Corriere della Sera», lei polemizza con la sua città. Si può parlare di un legame di odio-amore?
Soffro per il degrado di Roma perché la amo. Oggi per queste strade non si circola più, cè una baraonda tremenda. E nellaria cè una dilagante maleducazione, forse derivata dalla mancanza di riflessione e dal consumismo. Dovè il rispetto dellaltro? Giorni fa ascoltavo un prete nella chiesa di S. Eustachio. Parlava della necessità di ricostruire una sorta di galateo dei cristiani. Mi sembra un pensiero molto giusto. La città e forse il Paese mi sembrano oppressi da unauto-intossicazione di volgarità.
Roma, come lItalia, ha il vizio di dimenticare. Di recente lei ha scritto per ricordare Giulio Carlo Argan e proponendo, insieme a Paolo Conti, di dedicargli una via
Ci sono molti personaggi romani completamente, e assurdamente, dimenticati. Pensiamo sì ad Argan, che è stato addirittura sindaco, ma anche a Giorgio Vigolo, che ha restituito alla modernità Belli, un poeta fondamentale per Roma. E nessuno fa niente per ricordare maestri come Bigiaretti, De Libero, Petroni, Pratolini, Cardarelli. In questa assoluta dimenticanza delle nostre radici, non possiamo certo lamentarci se poi le pubblicità sono quasi tutte in inglese e litaliano rischia di diventare lultima lingua europea.
Nel libro di ricordi Giacomino (di prossima ristampa per Marsilio), una delle figure più affettuosamente delineate è sicuramente quella di Umberto Saba.
Non ho conosciuto il mio nonno paterno e sono sempre stato portato ad immaginare Saba come un antenato di mio padre, come un parente, quasi un nonno. Mi ha legato a lui un rapporto di affetto sincero più che di vicinanza letteraria. Credo che, al di là della poesia, le cose più belle di Saba siano le Scorciatoie e le lettere, bellissime e piene di dolcezza. Mio padre ha parlato della «musica dei padri». Ecco, la musica dei padri, per me, è Saba.
Lultimo suo libro, Un giovedì, dopo le cinque, molto apprezzato dalla critica e molto premiato, è stato definito da Alfonso Berardinelli «il più amaro romanzo di fine secolo». Come è nato e che posto occupa nel suo cuore di scrittore?
È stato un romanzo molto laborioso. Ne ho composte tre stesure che sembrano tre libri diversi. Ho faticato molto nel dare forma alla struttura. Ma ora non potrei dare un giudizio spassionato su questo mio lavoro. Lultimo libro scritto per un po lo si ama, ma poi si fatica ad uscirne, se ne rimane prigionieri. Ecco, credo di essere quasi uscito da Un giovedì, dopo le cinque. Ma posso soltanto dire, per ora, che mi riconosco nelle parole di Berardinelli, un critico molto intelligente e penetrante.
Per concludere, una domanda che molti si sono posti e continuano a porsi. Si può fare, oggi, un bilancio del 900 letterario italiano? E qual è il suo 900?
Uno splendido 900, un secolo ricchissimo che va da DAnnunzio a Calvino a Parise. Dagli esordi agli ultimi anni cè alta e grande letteratura. Anzitutto, va detto che il 900 italiano ha una tradizione saggistica straordinaria, e non lo dico solo per amore di figlio: pensiamo a Croce, a Gramsci, a Cecchi e Borgese, a Contini, a Bo, che spesso si dimentica. E poi è un secolo di grandi poeti, da DAnnunzio alla luminosa triade Saba-Ungaretti-Montale, a Cardarelli, a Palazzeschi, una figura maiuscola, a Caproni e a quellimmenso letterato che era Bertolucci. E ancora potrei citare Pasolini, che a volte mi irrita ma è una figura importantissima, Pirandello, Moravia, Calvino, Bassani e Cassola, Savinio. E le donne, dalla Morante alla Bellonci. E quei due mostri di Landolfi e Gadda. Un grande 900, davvero, e di peso europeo. Gli scrittori italiani di oggi dovrebbero essere fieri e sicuri della ricca tradizione che hanno alle spalle, illuminata comè da figure grandissime.
ANTONIO DEBENEDETTI è nato a Torino nel 1937. Ha esordito nel 1972 con i tre racconti di Monsieur Kitsch. Con la prefazione di Alberto Moravia, nel 1976 è uscito In assenza del signor Plot. I successivi romanzi, La fine di un addio (1985) e Se la vita non è vita (1991) «offrono più dense immagini di chiusura, di grigia e torva assenza dalla vita» (Ferroni). Alcuni tra i suoi risultati migliori, Debenedetti li ha raggiunti nelle raccolte di racconti, da Spavaldi e strambi ad Amarsi male (1998), «passioni ardenti su uno sfondo di glaciazione» (La Porta). Molto importante, e molto bello, è Giacomino (1994), il libro di ricordi sul padre Giacomo, uno dei maggiori critici letterari del 900, nelle cui pagine «si incontrano le presenze e le voci più essenziali del secolo scorso». Lultimo libro, Un giovedì, dopo le cinque (2000, finalista Premio Strega, vincitore Premio Pavese) è, secondo Alfonso Berardinelli, «il nostro romanzo di fine Novecento, il più amaro sigillo del secolo». Antonio Debenedetti collabora da anni con il «Corriere della Sera».