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LE REAZIONI ALLA VITTORIA DEL PREMIO NOBEL, LA RICERCA E LA FASCINAZIONE DELA LINGUA, LE RIFLESSIONI SUL DIFFICILE PERIODO IN ITALIA NELLE PAROLE DI DARIO FO

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Interviste
Intervista con Dario Fo
«Un respiro, uno sghignazzo, un’esclamazione, un pianto possono emozionare anche l’analfabeta»
(a cura di Paolo Di Paolo)


Fo & Rame
Dario Fo
uando, nell'ottobre 1997, il mondo ebbe notizia della scelta – inattesa, stupefacente – presa dall’Accademia di Svezia, un giornale titolò: “Mistero buffo; il Nobel a Fo". Il serissimo segretario, nell’annunciare il nome del geniale giullare italiano, si lasciò persino scappare un sorriso. Applausi e polemiche a non finire. Qualcuno disse che era un’offesa, una vergogna. Tra gli studiosi più autorevoli, Maria Corti riconobbe invece «la felicità inventiva di Fo». E Franco Cordelli esclamò: «La trovo una cosa grandiosa, un gesto poetico. Faccio il critico teatrale da quasi trent’anni, conosco Fo, a volte mi è piaciuto altre no, ma mi ha commosso. La commozione nasce dalla vitalità, una gioia di vivere tutta italiana. Il suo teatro è ciò che accade sulla scena; parte dalla scrittura, la nega e la supera. Se l’Accademia lo ha capito è più moderna della letteratura».

Dario Fo, in questi giorni, porta in scena con Franca Rame, in lungo e in largo per l’Italia, il suo ultimo, discusso testo teatrale: L’anomalo bicefalo. «Ricordo ancora con estrema emozione – mi racconta Fo – il giorno del Nobel. Ai benpensanti dette un certo fastidio. Ma è stato un risarcimento per tutti i saltimbanchi, i guitti, i cantastorie di ogni tempo, da Ruzzante a Molière, sbeffeggiati in vita dai sommi letterati. Un risarcimento a chi ha portato in scena le ingiustizie, la disperazione della gente comune e ha denunciato le prepotenze, la spocchia, l’ipocrisia dei potenti».

Fo, un po’ come Ruzzante, per raccontare tutto questo ha inventato una lingua, esplosiva, anticonvenzionale, dal «fiato carnevalesco», liberato – come scrive Paolo Puppa – «dai tanti orifizi del suo gran corpo alla Tati con tale grinta che ad agire in scena pare sia una tumultuosa e gioiosa piazza polifonica».

D. La lingua e il gesto. Il suo teatro è fatto di parola e di corporeità. E la lingua ha, è un corpo. Come e quando è nata in lei la passione per la lingua?

È nata nel momento in cui ho scoperto che cosa significa raccontare. Il paese in cui sono nato e cresciuto, sul Lago Maggiore, era noto per essere un paese di fabulatori. Frequentando questa gente dalla memoria portentosa, i maestri soffiatori di vetro, ho imparato il senso più vero della lingua, che è essenzialmente gestualità. L’incanto delle forme onomatopeiche, lo stupore che sempre si rinnova giocando con le parole, mi ha insegnato a scartare i termini banali, ad andare più in fondo possibile, per cercare e portare alla luce la ricchezza del linguaggio, che dà colore alla narrazione. Anche le parole che non sono nuove, anche le parole più vecchie, se adoperate con estro, con fantasia, possono illuminare, dare forma alla realtà, fare i fuochi d’artificio. Ho sempre privilegiato la dimensione orale-aurale della letteratura: un respiro, uno sghignazzo, un’esclamazione, un pianto possono coinvolgere, emozionare anche l’analfabeta. La voce scalda le cose; le parole vanno masticate.

D. Di recente, sul Corriere della Sera, Cesare Segre ha sottolineato quanto il dialetto rappresenti l’individualità storica anche del più piccolo pezzo di terra. Oggi in Italia a parlare in dialetto è una percentuale modesta di persone. Per quanto il dialetto sia una traccia preziosa dell’identità popolare, appare però risibile, a detta dello stesso Segre, «l’azione, anche militante, della Lega per rinvigorire i dialetti». Lei cosa ne pensa?

Ho avuto la fortuna di nascere in una terra che era un crogiolo di dialetti, di idiomi provenienti anche dal Nord Europa, dalla Spagna: lingue arcaiche e pulite che si mischiavano dando vita a forme nuove di espressione, musicali, bizzarre, folli come il mio grammelot. La Lega vorrebbe ripristinare il dialetto come semplice mezzo di comunicazione e nell’intento balordo di separare, di fare a pezzi l’Italia. Quello dei leghisti è un discorso gretto e banale. Non sanno nulla del dialetto come mezzo di poesia, come espressione delle verità umane più profonde, dei sentimenti più sinceri. Nei canti popolari vivono e si incrociano sofferenze, rabbie, amori, religiosità, sensualità. L’attaccamento alla terra, il dolore, il sesso: i canti popolari raccontano tutto questo in un linguaggio aspro e assoluto a cui la musica dà vigore e sostanza. Ma dietro le istanze leghiste non c’è un briciolo di cultura: soltanto canzonette da osteria, da festicciola.

D. Il titolo del suo discorso per la consegna del Premio Nobel faceva riferimento a una legge emessa da Federico II nel 1221. “Jogulatores obloquentes”, cioè “giullari che diffamano e insultano”: «La legge in questione permetteva a tutti i cittadini di insultare i giullari, di bastonarli e, se si era un po’ nervosi, anche di ammazzarli senza rischiare alcun processo con relativa condanna». Hanno vita facile, oggi, i giullari?

Direi di no. Ma io continuerò a parlare, a ridere, a puntare il dito sulle cose che non vanno. Proprio nel discorso per il Nobel ricordavo il titolo di un’opera di Alberto Savinio: Narrate, uomini, la vostra storia. Ecco, io racconterò sempre e comunque storie, le porterò in scena. Ripeto spesso che un teatro, una letteratura, una forma d’arte che non parla del proprio tempo è inesistente. Anche se filtrata dall’ironia, dal sorriso, dallo sghignazzo, o magari ambientata in un’altra epoca, ogni storia che ho raccontato parlava del presente, di quello che mi succedeva attorno. Anche davanti all’Accademia di Svezia ho ricordato quanto spesso, ascoltando le nostre storie in giro per il mondo, la gente dicesse di me e di Franca: “Come sono simpatici, si inventano cose incredibili”. Peccato che non si rendessero conto che stavamo raccontando fatti veri, crimini, assurdità realmente accadute.

R. Una situazione politica confusa e preoccupante, imperi industriali e bancari che crollano su sé stessi, il denaro che sembra davvero l’unica divinità rimasta. Si può parlare di una crisi morale di questo Paese?

Si può parlare di disastro. Un disastro che nasce dalla pochezza spirituale – e uso questo termine naturalmente al di fuori di ogni contesto religioso. Il rimedio? Allevare le persone non alla ricerca ossessiva del godimento, ma alla semplicità, a una rinnovata vicinanza con la natura, al gioco, allo stare insieme come continua scoperta, nello spirito antico di un incerto ma meraviglioso cammino, alla solidarietà tra tutti e non solo all’interno di un gruppo. Tra le ragioni di questa crisi morale, la più grave è l’elogio, la santificazione della furbastreria, malanno e vizio antico di questo Paese. Ed ecco l’assurdo: chi non ruba, paga le tasse, cerca di vivere onestamente dentro la società senza evaderne le regole, viene ritenuto oggi il più grande cretino.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 26 gennaio 2004
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