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VITALIANO TREVISAN, AUTORE DE I QUINDICIMILA PASSI, RACCONTA IL SUO AMORE-ODIO PER LA PROVINCIA, LA SUA VISIONE DELL'UOMO E DELLA NATURA E IL RAPPORTO CON LA SCRITTURA
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D. A proposito del tuo amore-odio per la provincia e per il mitico Nord-Est: qual è il rapporto tra Trevisan e liperproduttiva Vicenza? Come lhai vista cambiare? Cè una Vicenza che resiste?Il mio rapporto è stato quello di un lavoratore dipendente che ha cambiato, in 25 anni, almeno una quarantina di padroni diversi, più o meno grandi. Ho resistito. D. Nei racconti di Shorts mi ha colpito il ricorrere anche di un altro tema, quello della violenza delluomo sul mondo animale e vegetale, una violenza gratuita come nei racconti Piccioni, Una famiglia di ghiri, Magnolie Che cosa significa? Questa violenza è necessaria? Non credo che si tratti di violenza gratuita. Il padre di Tojo ragiona e si comporta da contadino (mi ricorda il mio); Kim vorrebbe finire i ghiri per pietà, ma è maldestro; il tipo taglia la magnolia perché è diventata ingombrante. Ovvero l'uomo occupa uno spazio, lo tiene più o meno in ordine e questo ha una ricaduta "esterna"; che uno se ne accorga o meno. D. Al contrario di quanto avviene in Shorts, dove dopo la disperazione qualche personaggio vede unalba, nei Quindicimila passi, il tuo libro precedente, faccio fatica a vedere uno scampo, una qualsiasi illusione umanistica. Invece mi sembra ci sia una grande apertura: se l'essere umano si estinguesse, la natura si riapproprierebbe senza problemi dello spazio lasciato libero. Questo pensiero è per me di assoluta consolazione. D. Il protagonista ha la mania di contare i passi che compie per andare da un luogo allaltro della città, sembra quasi che non possa riappropriarsi, se non in modo matematico, di luoghi in cui non si riconosce, perché spersonalizzati e de-storicizzati dallo sviluppo. In questa trovata sento leco del non luogo teorizzato da Marc Augé (1), può essere? Rovescerei la questione: quanto c'è in questi luoghi che, in quanto scrittore, indago, nell'idea di Augé, e altri come lui. Non-luogo per me non significa niente, anzi: significa teorizzare qualcosa che, evidentemente, non si conosce a fondo. Questi luoghi esistono e sono tutt'altro che vuoti, tutt'altro che senza carattere, tutt'altro che non. Ecco: Augé è profondamente "occidentale", il suo è un pensiero antropocentrico. D. Comè nata lidea di concludere il libro con una bibliografia? Sembra che in fin dei conti la letteratura sia per te un universo chiuso, che non rimanda ad altri che a se stessa, è così? Al contrario: la letteratura o è aperta o non è. Nel caso dei Quindicimila passi la bibliografia è parte del testo, nel senso che entra nella storia sotto forma di libri che si spostano fisicamente, ovvero libri intesi come oggetto; ovviamente, i libri citati entrano anche intellettualmente, ma entrano in me come autore e in Thomas come personaggio; in definitiva quello che tu hai chiamato bibliografia non è affatto una bibliografia, come la prefazione non è una prefazione; entrambe sono narrazione. D. La tua scrittura segue un ritmo ossessivo fatto di frasi che ritornano su se stesse, forse una specie di coazione a ripetere che si manifesta a livello espressivo. La mia impressione è che questo ritmo voglia parodiare le magnifiche sorti progressive, rappresentando un mondo immobile senza novità, che ripete funerariamente se stesso... Può essere? Non è certo attraverso il ritmo che voglio parodiare qualcosa. Se un testo non "scorre" non mi interessa. La cosa, peraltro, è cosciente solo a posteriori. Il senso del ritmo è un dono che si può affinare, ma non imparare. Aggiungo che ho sempre odiato la scrittura fatta di pensierini; per i pensierini c'è la televisione. D. E andando oltre i "pensierini" e rappresentando i mali della società contemporanea attraverso la scrittura, è possibile secondo te provocare una qualche forma di cambiamento o perlomeno di liberazione? Da "orientale", penso che no, la natura dell'uomo non è cambiata e non cambierà certo grazie alla letteratura, indipendentemente dalla qualità della letteratura. Essa però, intendo la letteratura, può essere un grande conforto. D. A proposito di produzione letteraria: qual è la tua collocazione all'interno della cosiddetta industria culturale? E come funziona il meccanismo di questa industria? C'è spazio per l'artigianato nel mondo dell'editoria? L'industria culturale è un'industria di trasformazione, che possiamo benissimo paragonare all'industria alimentare: essa si comporta allo stesso modo. Gli scrittori sono i produttori di materia prima; dunque non parlerei di artigianato ma di agricoltura (per inciso: i libri per me non sono mai macchine, o meccanismi, ma organismi, ovvero io, in quanto scrittore, sono un contadino, o un allevatore, mai un artigiano). Il prodotto finito, ovvero il libro, è il risultato finale di un processo di raffinazione o macellazione (editing), e distribuzione (immagine, confezione eccetera). D. Nel panorama letterario italiano ci sono gruppi o movimenti che ti sembrano interessanti? Parliamo dunque dei produttori di materia prima. No, non vedo né gruppi né movimenti interessanti. Vedo che, più o meno spontaneamente, e con carattere provinciale o regionale, si formano dei consorzi che, esattamente come i consorzi agrari, sfruttano la forza dell'unione per ottenere dei vantaggi in rapporto all'industria (case editrici e distribuzione). Non bisogna poi dimenticare che gli scrittori, esattamente come gli agricoltori, usano additivi di vario genere (steroidi e pesticidi letterari), in modo da offrire alle case editrici un prodotto appetibile. Dunque ribadisco: no, non ci sono né movimenti né gruppi; solo qualche coltivatore solitario (io mi considero uno di questi). D. E tra i "coltivatori" contemporanei, quali solo quelli letti da Vitaliano Trevisan? Pochi; in questo momento, per esempio, Tagliapietra, Augé, Norèn. D. Come funziona il tuo rapporto con lo scrivere? Sei metodico, discontinuo, scrivi di notte, di mattina Scrivo sempre; nella testa. Non è una metafora: i miei pensieri sono per la maggior parte scritti, nel senso che vedo parole che scorrono, o sento voci che parlano; ogni tanto ho delle visioni d'insieme. Per quanto riguarda la scrittura intesa come atto di scrivere, ebbene è un'attività che non mi piace, e che svolgo in modo frammentato e discontinuo. In definitiva faccio come ho sempre fatto: scrivo quando non mi è possibile farne a meno. A cura della Redazione Virtuale
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