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Raffaele La Capria indaga un aspetto dellesistenza umana oggi abbastanza trascurato: linteriorità. |
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D. Questo nuovo libro sembra nato dal desiderio di mettere a fuoco alcuni dettagli che già ne Lestro quotidiano, il suo libro precedente, si erano proposti alla sua riflessione. È così?
D. Lestro quotidiano e Lamorosa inchiesta diventano insomma come i due nuovi capitoli del Meridiano, che raccoglie anche i suoi saggi, sempre molto personali e quindi, con una definizione un po facile, «autobiografici». Anche qui il passo del saggista e quello del narratore si sovrappongono. Credo che la vita non si possa raccontare soltanto attraverso fatti, eventi, persone, ma vada indagata anche attraverso gli incontri che abbiamo fatto con i libri e i pensieri degli altri. In questo senso i miei saggi fanno parte di questa idea di autobiografia: una autobiografia che non finisce mai, riflessa nel tentativo (disperato, a volte ma necessario) di conoscere la realtà attraverso lio. Così anche le tre lettere di Lamorosa inchiesta rispondono a un approccio autobiografico inteso come commistione di generi diversi. D. Le esperienze raccontate nel suo libro non sembrano raffreddate dal tempo trascorso, anzi scottano ancora, come accade nel racconto del primo amore. Come è stato possibile recuperare questa «vicinanza»? Ma io sono ancora giovane, nonostante i miei ottantaquattro anni! Poi, come dicevo prima, con una lente di ingrandimento ho riavvicinato i fatti di una volta, e considerato che anche adesso, a questetà, io sono un po immaturo, non cè voluto molto a recuperare limmaturità della mia adolescenza. Sono rimasto in fondo un adolescente, capace di quelle percezioni e intuizioni che gli adulti non hanno. Per quanto riguarda la genesi di Lamorosa inchiesta, lidea mi è venuta sfogliando un album di fotografie. Riconsiderando tutti i momenti ridenti che le fotografie mi mostravano, mi sono detto: ma la tua vita non è stata soltanto la felicità che queste fotografie ti mostrano; cè pure una parte «nera», scandalosa, una parte che rifiuti. E uno scrittore ha il dovere di far vedere sia le ombre sia le luci; e forse io nelle mie opere ho insistito un po troppo con queste ultime, quasi dovessi scagionarmi. Così ne Lamorosa inchiesta, per fare i conti con lombra, sono ripartito dalladolescenza. D. Proprio nelle pagine dedicate alladolescenza, si scopre il senso di inadeguatezza o perfino di esclusione che le provocavano la sua vocazione e sensibilità letteraria. Ma lei non ha mai amato vestire i panni di «letterato»; perché? Ho sempre avuto una istintiva avversione per le persone che fanno mostra, in letteratura, della loro abilità e intelligenza: fanno credere che per loro la letteratura sia una scienza a parte di cui conoscono ogni meccanismo. Dentro di me li chiamo gli «eterni letterati italiani»: sono una genia che viene fuori da lontano e da cui ho sempre preso le distanze. Penso che lunica possibilità di riscatto per un «letterato» sia quella di diventare poeta: e infatti nella nostra storia abbiamo avuto letterati come Leopardi, o come Manzoni, in cui la vocazione di poeta in un caso, e quella di narratore nellaltro, erano tanto forti e incontenibili da avere la meglio sul letterato che era in loro. D. La sua saggezza sorridente dà oggi limpressione che lei sia riconciliato con le inquietudini e le ombre che emergono da Lamorosa inchiesta. Sbaglio? Riconciliato? Fino a un certo punto. Con le parole certamente sì. Ma appunto bisogna tenere presente lirriducibile differenza tra le parole e il mondo, che sono due sistemi di cognizione diversa. Se, quando scrivo, uso la parola «primavera», so che devo metterla attentamente in relazione con le altre, cominciando con lescludere quelle più convenzionali (per esempio fiori, azzurro, sole): devo insomma attivare un processo che rappresenti lo splendore della primavera seguendo il sistema delle parole. Un sistema che però non ha nessuna relazione con la primavera «vera», quella che splende fuori dalla finestra. Perché della primavera «vera», del rapporto che cè tra unape e il suo fiore, per esempio, non potrò mai sapere niente di niente. Ecco perché nel rapporto con il mondo vero, con la realtà, resta sempre aperta la ferita di Ferito a morte. Quella ferita di cui ogni scrittore dovrebbe sentire il dolore; e soltanto se sai che cosè il dolore di quella ferita, puoi sperare di mettere un po di vita in quello che scrivi. 22 luglio 2006 |
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