D. A questo punto, nella sua scrittura sono presenti dei percorsi che Lei stava già evolvendo. Ci può aiutare a individuarli?
uando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dellaprile, ero consapevole di cosa sarebbero stati gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo.
In quegli anni, negli anni in cui pubblicai il primo libro, era venuto alla ribalta il Gruppo avanguardistico «63», la cui prima riunione si era svolta a Palermo. Cerano nomi che sono poi diventati famosi: cera Umberto Eco, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, Angelo Guglielmi. Io andai a sentire questi avanguardisti nel momento in cui avevo finito di scrivere il mio libro e mi convinsi, ascoltandoli, che non avevo niente da spartire con loro, la mia scelta era diametralmente opposta alla loro. Pasolini ha fatto una chiarificazione molto netta tra sperimentalismo e avanguardia, due cose assolutamente diverse tra loro. La mia scelta stilistica si poneva sul versante, della sperimentazione. Quindi i temi che sono confluiti nel mio secondo libro, Il sorriso dellignoto marinaio.
Lo sfondo del libro è storico. Rievoca il 1860, larrivo di Garibaldi in Sicilia, che doveva sottrarre al giogo del regno borbonico le zone meridionali, il Regno delle Due Sicilie, le speranze che si erano accese al suo arrivo, come i contadini siciliani avevano inteso lUnità dItalia. Lavevano intesa come trasformazione sociale. Finalmente sarebbe stata restituita loro la giustizia che gli era sempre stata negata. Il protagonista del mio libro era uno scienziato che si chiamava Mandralisca, un personaggio storico che, seppure nel passato, da giovane, avesse vissuto una vicenda da rivoluzionario risorgimentale (aveva partecipato ai moti rivoluzionari del 48), poi invece si era rinchiuso nella sua casa di Cefalù e si era dato allo studio delle lumache. Era un collezionista darte perché la moglie era di Lipari, dove lui comprava o reperiva oggetti archeologici. La sua casa era diventata una sorta di museo. Ma soprattutto il barone possedeva un quadro: un ritratto di Antonello da Messina. Ho fatto convergere questi elementi per imbastire la mia narrazione, in cui il personaggio del mio romanzo, questo Barone di Mandralisca, si discosta dal Principe di Salina de Il Gattopardo, il quale guarda questi medesimi avvenimenti storici con estremo disincanto. Per il Gattopardo niente ha valore perché sempre cè questo appuntamento col momento della morte, perciò i cambiamenti storici sono assolutamente inutili. Cera una visione metastorica in Salina. Io ho voluto dire il contrario: al di qua della morte, mentre siamo in vita, il dovere dellintellettuale è quello di essere partecipe a quelli che sono i destini di infelicità delluomo, che risiedono nelle zone di marginalità della società, nelle classi meno privilegiate, meno abbienti, e quindi bisogna capire quali sono le condizioni di questi emarginati e perché questi emarginati in certi momenti tragici arrivano a dei gesti estremi. Cercare di capire quali sono i motivi che li spingono a tanto, loro che non hanno il potere della scrittura, perché la storia è una scrittura continua dei privilegiati, la storia la scrivono sempre quelli che vincono, e quindi era anche un meta-romanzo nel senso che la riflessione era anche sul potere della scrittura letteraria e quindi cera unimpostazione stilistica e strutturale del libro che metteva in luce queste domande che allora si agitavano nei dibattiti culturali e sulle riviste letterarie.
D. Abbiamo detto che la scrittura di questo libro ha preso più di 10 anni
Per la verità non è che tutta la stesura
la vicenda del Sorriso io avevo scritto i primi 3 capitoli e lì mi ero bloccato, non ero andato più avanti perché non volevo finire questo libro. Racconto questo episodio perché è interessante: mentre io ero giù in Sicilia e lavoravo al giornale «LOra», il giornale mi aveva mandato a seguire un processo in Corte dAssise a Trapani, io dovevo fare la cronaca, e spedire da Trapani, perché cera una redazione del giornale a Trapani, spedire due articoli. Spedire significava scrivere velocemente in albergo questi due articoli, uno di cronaca, del processo, e poi dirò di che processo si tratta, e uno di considerazioni, di riflessioni. Finiti gli articoli dovevo correre alla stazione per spedirli per treno, perché allora non si dettava al telefono, non cerano i fax, eravamo ancora in un mondo arcaico.
Il processo era il processo al cosiddetto «Mostro di Marsala» ed era un tipo, uno di Marsala, un alienato che aveva ucciso tre bambine, che non aveva violentato, non era un caso di pedofilia. Questo criminale deficiente aveva preso queste tre bambine e le aveva buttate in una cava, dove erano morte di inedia. Un delitto inspiegabile. Il pubblico ministero in quel processo era un giudice che si chiamava Ciaccio Montalto, che è stato poi ucciso dalla mafia. La sua tesi era che il padre di una bambina, che si chiamava Valente, era un corriere della droga. A un certo punto lui aveva voluto smettere con questi legami, con questi che avevano il monopolio della distribuzione della droga, che erano i mafiosi, e quindi era emigrato in Germania. I mafiosi per fare tornare in Sicilia questo Valente avevano detto a questo deficiente di rapire la bambina. E la bambina usciva di scuola ed era in compagnia di altre due amichette. Lui aveva preso tutte e tre e avevano fatto una fine tragica. Questa era la tesi di Montalto. Un giorno, alla fine di una delle sedute di questo processo, Ciaccio Montalto mi fa segno di avvicinarmi e mi dà una pianta, dicendomi: questa è la pianta di casa mia, dove abito abitava a Val dErice - stasera venga a cena che le voglio parlare. Venga da solo cera mia moglie con me. Mi sentivo già in unatmosfera da romanzo poliziesco alla Sciascia, mi sembrava di vivere dentro un film di Francesco Rosi. La sera, con la mia piccola Dyane, andai a Val dErice, a cena da Ciaccio Montalto e lui, dopo cena - abbiamo parlato di letteratura, politica - mi disse: io ricevo minacce, sia con lettere anonime sia per telefono, minacce di morte, se mi capita qualcosa lei lo scriva. Fatto è che il processo finì, io tornai a Milano e dopo non so quanti anni questo poveretto viene ucciso, proprio nel momento in cui decide di lasciare la Sicilia e doveva essere trasferito in Toscana. Lui stava indagando sui rapporti di «Cosa Nostra» trapanese con la mafia americana, sul traffico della droga. Ciaccio Montalto viene fatto fuori e io lo scrivo sul «Messaggero» di Roma e scrivo questa vicenda di lui che mi aveva detto così. Io a Ciaccio Montalto avevo detto: «ma scusi, perché lo dice a me e non ai suoi superiori, ai magistrati?» e lui candidamente mi dice: dei miei superiori non mi fido. Quindi la situazione della magistratura era quella che era. Io ho raccontato la vicenda sul Messaggero e Sciascia allora era deputato a Roma e fa uninterrogazione alla Camera su questa vicenda che avevo raccontato. Il Ministro degli Interni, Rognoni, disse che non gli risultava che Ciaccio Montalto avesse ricevuto delle minacce anonime. Giacomo Ciaccio Montalto era un giovane straordinario, intelligente, colto. Dicevo, che mentre ero lì, mi arrivano le bozze dei primi due capitoli del mio libro che io avevo dato a uno stampatore di Milano che era un bancarellaio, un libraio di origine siciliana, si chiamava Manusei e volevo finire questo libro, volevo spendere questi due capitoli con questi due racconti in unedizione numerata con unincisione di Guttuso. Mi arrivano le bozze di questo libro e capita in Sicilia, in quel frangente, un mio amico che era Corrado Stajano. Arriva a Palermo con la moglie, mi telefona e con mia moglie e con lui ci incontriamo a Palermo. Avevo corretto le bozze e le consegno a lui da portare su a Milano a questo stampatore, lui legge questi due capitoli del libro e rimane molto colpito e scrive un articolo su «Il Giorno». Dopodiché io ricevo parecchie lettere da editori, fra cui anche Einaudi, e allora io sono stato costretto, tornando a Milano, a finire questo romanzo nellarco di poco tempo e quindi dal terzo capitolo in poi la scrittura è stata molto più rapida, veloce.
D. Negli anni della neoavanguardia e della seconda rivoluzione industriale, sulle pagine di «Menabò», Calvino lanciava alla letteratura contemporanea la famosa «Sfida al labirinto», ossia al caos: invitava alla ricerca di soluzioni razionali di problemi delluomo o almeno di un «ordine mentale abbastanza solido per contenere il disordine», nella speranza di «saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo allinferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio», così come scriveva nelle Città invisibili. A quel tempo qual era la sua posizione al riguardo?
Gennaio, febbraio, marzo 2001
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