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Per Nadia Fusini la vita di Virginia Woolf vive nell'opera, necessario nutrimento di quella libertà umana fondamentale, che è appunto la capacità di pensare... |
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Fra le sue pubblicazioni ricordiamo, la traduzione e la cura delle opere di Virginia Woolf: Al Faro, Feltrinelli, Milano 1992; La signora Dalloway, Feltrinelli, Milano 1993; Le onde, Einaudi, Torino 1995; i due volumi del Meridiano Mondadori dedicato alla scrittrice(1998). Oggetto della sua attività di traduzione e di edizione, dal '79 ai nostri giornio, sono inoltre gli scrittori: Shelley, Keats, Shakespeare, Ford, Stevens, Kafka, Beckett (tra gli altri).
D. Lei ha dedicato molti anni di studio e di lavoro a Virginia Woolf: traduzioni, commenti e adesso un lungo racconto biografico. Ricorda ancora il primo «incontro» con questa autrice? Il nostro primo incontro si perde nell'aurora dell'adolescenza; fu Flush il galeotto. Una zia, la mia preferita delle sette sorelle che componevano la famiglia materna, me lo regalò per il compleanno. Avevo, credo, undici anni.
Sono stata a lungo indecisa su quale pronome personale usare: se «io», o «lei»; se la prima, o la terza persona singolare. Allinizio, avevo pensato di lasciare alla protagonista la parola, di farle dire «io, Virginia». In altri termini, se mi permette il paradosso, avrei voluto scrivere io la sua «autobiografia». Ma poi ho capito che non era un caso che lei non l'avesse scritta. Che si fosse fermata ai frammenti, che poi sono stai raccolti col titolo postumo di Momenti di essere. Io credo (lo dico nel libro) che Virginia non abbia scritto la sua autobiografia perché la sua vita vive nell'opera. Di fatto, rimane che tutto quello che è nel libro, anche ora, è stato detto, scritto, pensato da lei. D. «Tra Nadia e Virginia - ha scritto Elisabetta Rasy - c'è una certa simbiosi nel testo». Dove ha origine questa simbiosi, se è effettiva? E lei, da autrice di romanzi, raccontando la Woolf, l'ha sentita un po' anche come un personaggio? Elisabetta Rasy ha assolutamente ragione. Le sue osservazioni sul libro sono così intelligenti e penetranti, che se non lavessi scritto, lo leggerei... Scherzi a parte, sì, credo che ci sia «una certa simbiosi». Devo dire che mi accade spesso quando scrivo. Mi è accaduto scrivendo il libro su Kafka, o il libro su Fedra. È credo un certo modo di operare con il pensiero, o con le parole che mi porta a una identificazione profonda con laltro. Forse sono anch'io un camaleonte, e se lo sono è nel senso in cui diceva Keats, che la riteneva una facoltà creativa. È in questo, più che nella costruzione del personaggio, l'aspetto narrativo del libro. D. Le vecchie obiezioni di Sainte-Beuve su biografia e opera di uno scrittore si sono in qualche modo presentate alla sua immaginazione, nel corso della stesura? Se sì, come le ha risolte? A dire il vero, non è Sainte-Beuve che ho avuto in mente, ma piuttosto i poeti romantici e soprattutto Keats, che Virginia amava; il quale Keats pensa alla vita del poeta come una «allegoria»: un'esistenza che interessa tutti, perché il poeta, lo scrittore, sono creature dotate di una forza speciale in questo - che fanno della vita un'esperienza di conoscenza. Vivono come noi, conoscono le gioie e i dolori dell'esistenza comune, però in più li sanno trasformare in mito, in racconto. E in questo ci aiutano, ci comunicano l'idea di un'esistenza che ha senso e valore. Per me gli scrittori non sono eroi di un Pantheon che sacralizza il successo: sono creature che hanno conosciuto spesso in vita il fallimento, patito dolori e sventure, e che testimoniano dell'unica immortalità in cui credo. Quella dell'opera. D. L'esperienza di traduttrice e quella di docente universitaria che peso hanno avuto in questo lavoro? Pensando all'«amico lettore» cui si rivolge nel libro, ha avuto in mente anche i suoi studenti? A me piace insegnare, mi piacciono le domande, chi se le fa, chi prova a rispondere. Così penso la relazione coi miei studenti; siamo gli attori di una conversazione che spero non finisca mai, e in cui le parti si possano sempre invertire. Ho scritto il libro pensando al lettore appunto come a un amico, anzi, a un'amica, che volesse conversare con me di cose che Virginia Woolf ci aiutava a mettere a fuoco. Quanto alla traduzione, sì, credo che mi abbia dato un'intimità speciale con la lingua woolfiana, che è un'invenzione tutta sua. N. Che cos'è che ancora, tuttora la sorprende, più di tutto, nell'opera e nella vita di Virginia Woolf? La sua libertà. Io amo in Virginia la capacità di pensiero. Credo, anzi, di aver imparato da lei che in questo consiste la libertà vera, profonda: nella capacità umana di pensiero. Per vivere è necessaria la libertà religiosa, politica, civile, ma nel senso che tutte queste servono a nutrire quella libertà umana fondamentale, che è appunto la capacità di pensare. Oggi da molte parti tentano di sottrarci questa facoltà, di interdire in noi questo potere. Virginia ci aiuta a difenderci. O almeno, aiuta me. A cura della Redazione Virtuale Milano, 18 settembre 2006 |
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