Febbraio-Marzo 2003

Immagini da un mondo rovesciato.
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Il regista Nanni Moretti (a sinistra) e l'"impiegato" Sergio Cofferati
Un'utopia dei nostri giorni
E' prerogativa dell'utopia incoraggiare a produrre immagini di un mondo diverso e migliore di quello in cui ci si trova.
Anche i regimi totalitari si servono delle utopie. Non lo fanno per incoraggiare la produzione di sogni di mondi diversi e migliori, ma per diffondere rappresentazioni di sé che coincidono con l'utopia; per escludere la possibilità che un mondo diverso e migliore si possa anche soltanto immaginare. Gli archivi storici del nazismo e del comunismo sovietico sono pieni di questi esempi.
Tommaso D'Aquino (1221-1274), era convinto che anche la democrazia corra il rischio di degenerare nella tirannide qualora non si basi su un principio di "Giustizia". A maggior ragione oggi questo dovrebbe essere un punto non negoziabile da qualsiasi prospettiva lo si osservi.
«Il mondo non può essere redento una volta per tutte e ogni generazione deve spingere, come Sisifo, il suo masso, per evitare che esso le rotoli addosso schiacciandolo.» (Claudio Magris, Utopia e disincanto,1999). A prescindere dagli orientamenti, è confortante perciò vedere in questi giorni, di fronte alla prospettiva di dover affrontare un negoziato sull'interpretazione di principi fondamentali e scontati, come "Giustizia" e "Eguaglianza", persone che esprimono tutta la loro indignazione e sono pronte a scendere in piazza, anche contro il proprio schieramento politico di riferimento per difendere questi valori.
Sconcertante è invece che qualcuno possa avanzare la promessa di un futuro radioso, che pone come condizione la revisione nel presente di valori e principî consolidati e condivisi. Ma ancora più sconcertante è che qualcuno possa crederci. Perché una tale promessa implica, secondo noi, conseguenze disastrose per la democrazia, per i cittadini e per la società, nel presente, ma soprattutto, perché compromette irrimediabilmente il nostro futuro.
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uale spazio rimane, nel XXI secolo allutopia? Nel mondo al tempo di George.W.Bush, Silvio Berlusconi, Ariel Sharon e Valerij Putin, ha ancora senso parlare di un Mondo Ideale, da costruire insieme e in cui insieme convivere in perfetta armonia?
La storia dellumanità è una infinita teoria di aberrazioni irrazionali che si alternano a stadi di agghiacciante razionalità. Come ha ben formulato Alberto Asor Rosa: « ...è la drammatica pulsione della storia umana, che, inevitabilmente, consiste nell'associazione indissolubile e vitale fra sistole del Bene e diastole del Male. C'è vita, cioè, soltanto dove ci sono, insieme, Bene e Male. Però, e questo è tragico, su quel piano è veramente difficile distinguere tra gli effetti perniciosi del Male e quelli, altrettanto distruttivi, perversi e catastrofici del Bene» (vedi oltre).
In questo eterno altalenare, i periodi migliori si registrano nei fugaci stadi intermedi, che il pendolo attraversa, sembra, alla sua massima velocità.
La letteratura rileva gli attimi effimeri della nostra storia quotidiana, e li proietta nel cinematografo dellimmaginario dove, collocati in una sequenza, da noi arbitrariamente ordinata, ci restituiscono lillusione di poter percepire il senso, la velocità e la posizione relativa, sulla traiettoria del nostro oscillare.
Ma la letteratura svolge anche unaltra funzione fondamentale, quella di sottoporci le immagini di un mondo rovesciato, un mondo in cui ingiustizia, miseria, disuguaglianza, sperequazione, intolleranza, sono sostituite dai loro opposti. Questo immaginario utopico risalta in particolar modo nel corpus di opere letterarie che costituisce il punto di partenza dellutopia.
Spesso è accaduto che il totalitarismo, incubo ispiratore di tutti i sognatori utopici, si sia servito dellutopia, che ha inserito nellinventario di argomenti del proprio apparato propagandistico, per legittimare comportamenti repressivi perpetrati in funzione della promessa di un benessere da raggiungere in un ipotetico futuro.
A sua volta anche la letteratura ha preso spunto dalle situazioni totalitarie più aberranti per anticipare il possibile disastroso esito di politiche o di ideologie basate su principi sociali giudicati non condivisibili.
A queste situazioni si sono ispirate le anti-utopie che, come tutte le opere che ci dipingono un mondo imperfetto e irragionevole, ci suggeriscono anche che l'uomo non si ridurrà mai a vivere costretto da vincoli che gli impediscano di esprimersi secondo la propria coscienza. «Lutopia da un senso alla vita perché esige, contro ogni verosimiglianza, che la vita abbia un senso» (Claudio Magris, Utopia e disincanto, Garzanti 1999). Se la Società Perfetta non è realisticamente realizzabile, non è neppure realistico pensare che si possa smettere di perseguirla.
Di fronte a un argomento, che si presenta vasto e complesso, ci limiteremo in questa sede a mettere in evidenza un pugno di opere del Novecento letterario italiano che hanno contribuito a tenere viva questa tradizione utopica su cui ci piace pensare che la cultura europea abbia fondato la propria diversità.
«Utopia è per Alberto Savinio un atteggiamento mentale profondo, che richiede l'adesione ad un modello insieme greco (ma presocratico, poiché, con la scoperta socratica della coscienza, l'uomo perde la sua originaria libertà) e umanistico, nel senso di una condizione umana liberata dalla teocrazia. Ma liberata, insieme, da quel "residuo divinismo" che è la "meta della vita", vale a dire la volontà di sostituirsi a Dio stesso quanto a volontà di creazione e di potenza.» (Stefano Zampieri, Utopia, conversazione infinita, «L'Indice», a.VII, n.3, marzo 1990)
In Candido. Ovvero, un sogno fatto in Sicilia, (1977) il riferimento a Voltaire è palese fin dal titolo, il personaggio di Leonardo Sciascia, non accetta il doloroso e difficile confronto con la storia. Il suo lucido spirito critico illuministico lo porta prima a smascherare le incongruenze e le assurdità del Partito, la sua struttura gerarchica e colludente con il mondo della reazione, poi a scegliere di esserne fuori. E alla fine Candido Munafò sceglierà la strada del ritorno alla natura, la strada dellutopia, del sogno verso lanarchia: la strada che lo porterà a Parigi, patria della ragione e della speranza.
Le città invisibili (1972) è il resoconto di viaggi compiuti attraverso città che non trovano posto nell'atlante geografico. «Penso daver scritto qualcosa come un ultimo poema damore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili.» (Italo Calvino, 29 marzo 1983).
Dino Buzzati utopista? La risposta alla domanda forse inusuale per gli studiosi e i lettori di questo autore, a prima vista, dovrebbe essere un no, senza alcun dubbio. Semmai, la sua narrativa appare più vicina al concetto di mito, in quanto simbolista e fantastica. Ma se per un momento superiamo il valore tradizionale di utopia socio-politica e ci avviciniamo ad unaccezione più individualistica del significato di non luogo, allora ci appare credibile una visione utopica di tutta lopera buzzatiana (es. Il deserto dei Tartari, I racconti, in particolare I sette messaggeri). Il qui e ora di R. Barthes cioè il ruolo consolatorio del desiderio dellimpossibile trova piena realizzazione nellintera produzione letteraria di Buzzati, pur sempre smentito dal risultato finale che conclude ineluttabilmente la parabola: desiderio-falsa convinzione-disillusione. Buzzati quindi, utopista disilluso, eppure mai rassegnato al pessimismo della ragione; e soprattutto: Buzzati come emblema di unutopia individuale ed intimistica che prescinde da qualsiasi soluzione politica o teologica (nella rubrica «Ex-libris», Utopia come non-città, un intervento di Margaret Collina).
E' il caso quindi di due libri che affrontano la realtà e la Storia da prospettive diametralmente opposte, ma intrinsecamente simili.
Nel mondo, sopra il magma melassoso e incollaticcio della burocrazia (amministrativa, militare e intellettuale), più in alto della macchina ben lubrificata ed efficientissima dei più forti interessi economici, si libra lestro risolutivo di pochi individui determinati (ma potenzialmente di tutti gli individui), "in rotta di collisione" proprio come i neutroni con imprevedibili e del tutto casuali opportunità.
Se l'utopia di Guido Morselli si esercita nel dirottamento della Storia dai suoi binari, partendo da un tempo passato, anche se prossimo, Contro-passato prossimo, appunto (1975, Adelphi), Alberto Asor-Rosa applica alla realtà un filtro anti-utopico e la sottomette a un confronto con la lettura dell'Apocalisse di Giovanni (La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana, Einaudi, 2002). Su questo impianto si innesta l'utopia dell'autore, che, come quella di Morselli, conta sull'iniziativa e sulla immaginazione dell'individuo per esercitare un dirottamento, non più questa volta della Storia, ma del destino.
Parlando di immaginazione e di iniziativa individuale, introduciamo Lutopia letteraria di Richard Rorty. Il filosofo pragmatista americano asserisce che romanzo poesia e dramma hanno preso il posto dei trattati filosofici e religiosi su cui i lettori in passato costruivano le loro coscienze. Rorty propone unutopia basata sul pensiero di Friedrich Shiller e di Oscar Wilde e preconizza lavvento di una cultura letteraria su cui fondare una società più aperta, più tollerante e più rispettosa della diversità.
Uno sguardo all'Arte, che si è recentemente occupata di utopia con una mostra al PAC di Milano, Utopie quotidiane, e che si appresta ad occuparsene nuovamente in una delle sezioni della 50. Biennalle d'Arte di Venezia (15 giugno-2 novembre 2003), dal titolo Stazione Utopia/Utopia Station. «La fotografia non solo può dare testimonianza del passato, ma anche evidenza del futuro e del possibile, mostrandoci luoghi senza altrove e presenti senza più un passato. Sostanzialmente può rappresentare ciò che vuole come vuole , creando il proprio dominio in un territorio di completa autoreferenzialità». In Reale Possibile: l'Utopia della Luce e del Tempo, l'artista Silvio Wolf indica due linee di tendenza nella fotografia contemporanea che rappresentano in modi sottilmente inquietanti, «immagini indifferenti, potenzialmente in grado di confermare o di smentire, vere e false assieme».
Milano, 12 febbraio 2003
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