A quale tribù appartieni? è una raccolta di corrispondenze dall’Africa, in cui Alberto Moravia riporta le sue impressioni di turista disincantato

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A quale tribù appartieni? (1972)



Alberto Moravia, A quale tribù appartieni?
Bompiani - Saggi tascabili 1972,
193 pp., Lire 12.000, Euro 6,20

lberto Moravia ci ha lasciato circa una pagina di reportage ogni tre di narrativa. Le corrispodenze raccolte in A quale tribù appartieni sono state pubblicate sul «Corriere della Sera» tra il 1963 e il 1972. Moravia vi descrive l’Africa post-coloniale e neo-capitalista e nel descriverla, si concentra su alcuni aspetti «di cui gli economisti di solito non parlano, [...] più irrazionali ma non per questo meno importanti».

Un’Africa multicolore ma non variopinta, spesso ritratta come una natura morta. La città di Accra, Ghana, è «una zuppa di cavoli neri in cui stanno a bollire dei pezzi di pasta bianca», mentre la foresta è sempre un pezzo di carne nera, che la strada di terra rossa solca come una ferita «ancora aperta e viva».

Altre volte Moravia ritrae l’Africa come un’opera d’arte astratta: «per accozzare quei colori così violenti [...] ci sono voluti il primitivismo e Gauguin, il cubismo e l’art négre», commenta, nel descrivere l’effetto prodotto dalle stoffe esposte al mercato. O ancora : «Certi quadri surrealisti con prospettive vertiginose di pianure sparse qua e là di oggetti brillanti e nitidi? così la spiaggia lacustre».

È un’Africa fuori dal tempo, sospesa tra la preistoria e il futuro. La storia è infatti una dimensione che non appartiene a questo paese, ma è subordinata a fatti ed equilibri che appartengono altrove: all’Europa e all’America, soprattutto. In Africa prevale la monotonia e l’iterazione delle superfici sterminate che «dall’aereo si contemplano mentre in automobile si soffrono». Spazi in cui regnano i giganti: la giraffa, l’elefante. E la paura. «La magia è l’espressione della paura della preistoria; essa è tanto laida, tetra e demenziale quanto il mal d’Africa è afrodisiaco anche se disgregante e annientatore. In realtà la magia è l’altra faccia del mal d’Africa».

I poli di attrazione verso cui confluiscono a gruppi e a frotte gli africani sono mercati, dove portano le loro improbabili merci o pascoli, dove conducono gli armenti.In questo ambiente immenso, gli africani passano spostandosi a piedi, spesso danzando. Attraversano confini fittizi tra stati creati a tavolino. Confini che spartiscono i territori ma non riescono a dividere i popoli e ancor meno riescono a crearne.

Il confine davvero invalicabile è quello culturale che corre tra le tribù autoctone e le tribù dei bianchi, questi altri africani con cui i neri condividono l’amore per l’Africa. Un masai è andato dal padre di Shirley e gli ha chiesto di comprarla. In questo atto appare, in tutto il suo dramma, il divario di incomprensione che separa le due culture. Un amore impossibile. Un confine che, a tratti, si interrompe, nell’illusione di un istante: «sento una mano introdursi a forza nella mia. È la mano di un bambino di forse quattro anni [...] Mi dice sorridendo: “Moi e toi, camarade”».

Raramente Moravia, che non è mai solo, accenna ai suoi compagni di viaggio, percepiti quasi costantemente nella prima persona plurale: «voliamo... arriviamo». A tratti un cognome squarcia l’anonimato e delinea i connotati di una presenza precisa: «... Naturalmente Pasolini punta l’obiettivo».

Sono pagine preziose. Se, infatti, il nihilismo caratteristico dello scrittore tende a scremare, a selezionare la massa degli ammiratori dei suoi libri, nella letteratura di viaggio questa qualità imprime alle sue cronache il necessario distacco. Le sue cronache mancano di quell’epos capace di appassionare ma anche di ingannare il lettore con facili mistificazioni. Invece, la distanza tra l’osservatore e l’oggetto osservato inchioda la realtà alla pagina.

Nell’unico tavolo occupato, tre africani vestiti all’occidentale siedono intorno a un capretto arrosto da cui si servono con le mani. Uno di loro nota che Moravia taglia la sua carne con il coltello da caccia e «in buon inglese» glielo chiede in prestito. «Lo prende, mi guarda e quindi, cortesemente si informa: “E tu, a quale tribù appartieni?”».

19 Ottobre 2000
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