lberto Moravia ci ha lasciato circa una pagina di
reportage ogni tre di narrativa. Le corrispodenze raccolte in
A quale tribù appartieni sono state pubblicate sul «Corriere della Sera» tra il 1963 e il 1972. Moravia vi descrive lAfrica post-coloniale e neo-capitalista e nel descriverla, si concentra su alcuni aspetti «di cui gli economisti di solito non parlano, [...] più irrazionali ma non per questo meno importanti».
Altre volte Moravia ritrae lAfrica come unopera darte astratta: «per accozzare quei colori così violenti [...] ci sono voluti il primitivismo e Gauguin, il cubismo e lart négre», commenta, nel descrivere leffetto prodotto dalle stoffe esposte al mercato. O ancora : «Certi quadri surrealisti con prospettive vertiginose di pianure sparse qua e là di oggetti brillanti e nitidi? così la spiaggia lacustre».
È unAfrica fuori dal tempo, sospesa tra la preistoria e il futuro. La storia è infatti una dimensione che non appartiene a questo paese, ma è subordinata a fatti ed equilibri che appartengono altrove: allEuropa e allAmerica, soprattutto. In Africa prevale la monotonia e literazione delle superfici sterminate che «dallaereo si contemplano mentre in automobile si soffrono». Spazi in cui regnano i giganti: la giraffa, lelefante. E la paura. «La magia è lespressione della paura della preistoria; essa è tanto laida, tetra e demenziale quanto il mal dAfrica è afrodisiaco anche se disgregante e annientatore. In realtà la magia è laltra faccia del mal dAfrica».
I poli di attrazione verso cui confluiscono a gruppi e a frotte gli africani sono mercati, dove portano le loro improbabili merci o pascoli, dove conducono gli armenti.In questo ambiente immenso, gli africani passano spostandosi a piedi, spesso danzando. Attraversano confini fittizi tra stati creati a tavolino. Confini che spartiscono i territori ma non riescono a dividere i popoli e ancor meno riescono a crearne.
Il confine davvero invalicabile è quello culturale che corre tra le tribù autoctone e le tribù dei bianchi, questi altri africani con cui i neri condividono lamore per lAfrica. Un masai è andato dal padre di Shirley e gli ha chiesto di comprarla. In questo atto appare, in tutto il suo dramma, il divario di incomprensione che separa le due culture. Un amore impossibile. Un confine che, a tratti, si interrompe, nellillusione di un istante: «sento una mano introdursi a forza nella mia. È la mano di un bambino di forse quattro anni [...] Mi dice sorridendo: Moi e toi, camarade».
Raramente Moravia, che non è mai solo, accenna ai suoi compagni di viaggio, percepiti quasi costantemente nella prima persona plurale: «voliamo... arriviamo». A tratti un cognome squarcia lanonimato e delinea i connotati di una presenza precisa: «... Naturalmente Pasolini punta lobiettivo».
Sono pagine preziose. Se, infatti, il nihilismo caratteristico dello scrittore tende a scremare, a selezionare la massa degli ammiratori dei suoi libri, nella letteratura di viaggio questa qualità imprime alle sue cronache il necessario distacco. Le sue cronache mancano di quellepos capace di appassionare ma anche di ingannare il lettore con facili mistificazioni. Invece, la distanza tra losservatore e loggetto osservato inchioda la realtà alla pagina.
Nellunico tavolo occupato, tre africani vestiti alloccidentale siedono intorno a un capretto arrosto da cui si servono con le mani. Uno di loro nota che Moravia taglia la sua carne con il coltello da caccia e «in buon inglese» glielo chiede in prestito. «Lo prende, mi guarda e quindi, cortesemente si informa: E tu, a quale tribù appartieni?».
19 Ottobre 2000
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