Fausta Cialente, Ballata levantina
Baldini Castoldi Dalai, 2003
383 pp., Euro 15,20
uesto è il commento a Clea, lultimo dei quattro libri, che compongono la cosiddetta tetralogìa alessandrina ovvero l Alexandria Quartet di Lawrence Durrel che Fausta Cialente ha tradotto dallinglese nel 1960, allorché venne pubblicato, più che per far valere le sue doti di traduttrice, per poter effettuare allindomani del suo ritorno in Italia, quasi un tuffo nel passato:
«Questa traduzione di Clea, lultimo volume del Quartetto dAlessandria è stata per me una ben curiosa esperienza. Lautore mi ha come presa per mano e riportato su luoghi, che mi sono infinitamente cari, in mezzo a figure e paesaggi che prediligo, ma che ho potuto rivedere in una luce completamente diversa: unAlessandria molto più immaginaria che reale, più colorita e torbida, più colorata e misteriosa di quanto lo sia mai stata».
Al di là delle motivazioni di natura psicologico-esistenziale concernenti la tematica di Durrel (1), sarebbe il caso di soffermarsi sul nome di questo autore anglosassone: egli è infatti, insieme a E.M. Forster, il «decano dei romanzieri inglesi» (2), colui che maggiormente nel corso del Novecento ha reso popolare nel mondo quel significativo crogiolo di civiltà e di etnìe che la metropoli del Delta del Nilo è stata nel corso di più di ventitré secoli di storia una storia poco meno ricca di quella di altre capitali del Mediterraneo come Roma o Istambul e che tra i suoi esponenti più autorevoli sul piano culturale vanta, fra gli altri, i nomi di Costantino Kavafis, di Giuseppe Ungaretti e di Enrico Pea.
Venutasi dunque a trovare al centro di una comunità numerosa quanto varia per le sue disparate origini etniche, nonché per il diverso contesto sociale, lallora giovanissima signora Terni Cialente, pur vivendo a stretto contatto con la cerchia raffinata e colta della borghesìa europea, non poteva certo fare a meno di porsi interrogativi e problemi per lei nuovi inerenti alla miseria spaventosa e alle condizioni di sfruttamento economico e sociale, in cui tale borghesìa teneva un intero popolo:
«Più che aggredire, il Paese in cui vivevo ormai da dieci anni mi aveva come incantata, ma soprattutto turbata, ponendomi di fronte a problemi che per me erano nuovi, inquietanti, e per i quali dovevo continuamente interrogarmi. Gli europei, levantini o no, non avevano o addirittura rifiutavano il contatto con la popolazione indigena, a parte naturalmente la servitù, i fornai, gli operai
» (3)
Già in alcuni passi de Le quattro ragazze Wieselberger, rievocando il suo vagabondare di bambina di città in città, nel corso dei numerosi trasferimenti paterni in certe località del sud dellItalia, la scrittrice non può fare a meno di annotare:
«Nelle scuole di quei tempi e di quelle regioni tirava unaria di grande miseria, ma della miseria, delle sue origini e del suo perché noi ne sapevamo ben poco.[
] Era la miseria, circondata da un grande mistero, non se ne parlava facilmente e a seconda delle circostanze sembrava averne colpa la fatalità o la cattiva volontà di chi ne era afflitto». (4)
Dunque, questa acquisizione precoce avrebbe radicato in lei una presa di coscienza, la stessa che molti anni dopo una volta sul suolo egiziano, le avrebbe consentito di affrontare tutto quelluniverso di tematiche, che in Ballata levantina prima e più tardi ne Il vento sulla sabbia avrebbe trovato la sua forma ideale.
Con Ballata levantina Fausta Cialente torna alla ribalta letteraria nel 1961, a venticinque anni di distanza dalla prima edizione di Cortile a Cleopatra (5), classificandosi al secondo posto ex aequo con Giovanni Arpino (6) e dietro a Raffaele La Capria (7) al Premio Strega di quellanno.
Tale libro rappresenta però un ritorno in lizza soltanto in apparenza: in realtà è il frutto di una lenta gestazione, alternata a lunghi periodi di stasi, anche a causa dellirrompere del secondo conflitto mondiale. Inoltre, per la sua stesura, lautrice ha dovuto avvalersi di un materiale da lei raccolto in un arco di tempo piuttosto lungo.
Si tratta in effetti di un ampio squarcio della storia recente del Paese in cui lei aveva trascorso un così lungo periodo i cui tempi narrativi vengono scanditi in una forma quasi ritmica: il termine stesso di ballata(8) starebbe pertanto ad indicare, in questa chiave interpretativa, una sorta di successione di epoche, miranti a identificarsi con i diversi momenti delleducazione sentimentale e, non a caso, cè fra i critici chi ha 'scomodato' Gustav Flaubert a proposito di alcuni passi ! di Daniela, la giovane protagonista del libro, che lautrice sembra quasi volerle dedicare.
Riguardo poi allaccezione del termine levantina, questo non si esplicherebbe tanto nella sua valenza puramente geografica, quanto piuttosto nella connotazione di un milieu, che non è più quello cui lautrice aveva abituato fin qui il lettore: con la Ballata, la Cialente apre infatti il sipario sullaltro Egitto: quello dellaristocrazìa internazionale, sia europea sia per lappunto levantina, che proprio allora siamo ai primi decenni del secolo scorso iniziava la sua lenta ma inesorabile parabola discendente.
Il termine levantino in origine riferito agli abitanti di religione cristiana lungo le terre bagnate dal Mediterraneo Orientale, passato quindi a indicare un che di truffaldino nel pensare e nellagire, causa labilità allimbroglio tipica dei commercianti nativi di quei luoghi una volta passato in Egitto aveva annoverato tutto quellinsieme di trafficanti, di commercianti e di piccoli artigiani ivi stabilitisi e in massima parte composto da greci, turchi, ebrei, siriani e armeni.
Per analogìa, questo termine era stata successivamente esteso anche agli europei veri e propri per lo più inglesi, francesi e italiani che si erano stabiliti in Egitto allepoca della dominazione britannica e che, rispetto alla popolazione di fede musulmana da secoli stanziata sulle rive del Nilo, formavano una vera e propria isola non solo sul piano etnico ma e soprattutto su quello economico e sociale.
Con bravura la Cialente rievoca come a ricreare suggestive raffigurazioni depoca a metà tra il Liberty e certe sollecitazioni raffinate ed esotiche di stampo orientale (9) quellEgitto (di cui lei, al momento del suo arrivo riusciva a cogliere gli ultimi bagliori), in cui donne giovani e attraenti, che arrivavano dallEuropa e che appartenevano per lo più del mondo del teatro, servivano ad alleviare lozio in cui i ricchi signori levantini trascorrevano le loro giornate, divenendone poi nella maggior parte dei casi le loro mantenute, salvo poi rimanere al margine di quella società rispettabile della quale ostentavano, tuttavia, lo sfarzo ed il lusso.
Tra queste vi è Francesca, figura estremamente complessa e contraddittoria: di umili origini sua madre era una guardarobiera della Scala di Milano divenuta a circa ventanni la mantenuta di un ricco ebreo di Alessandria, che sembra racchiudere nella sua persona tutte le prerogative di quella società corrotta e ipocrita, ancora seducente allapparenza, ma in realtà già in estremo disfacimento.
Ormai sessantenne quindi quasi vecchia per quel tempo ma non per questo priva di attrattive e di fascino, Nonna Francesca rappresenta ancora una sorta di stella fissa per Daniela, la nipotina rimasta orfana di ambedue i genitori e che, allinizio della vicenda datata intorno al 1926, ha solo dodici anni.
«Ella compariva improvvisamente in alto, sul pianerottolo. Con impeto moderato sollevava un poco la gonna, ed ecco, da una mobile schiuma di merletti, vedevo spuntare le sue scarpette aguzze. Lampeggiava il gran pettine in filigrana dargento o in tartaruga bionda, lo scintillìo degli anelli e delle collane mi bucava gli occhi». (10)
Anche a questo proposito, non sono mancati paralleli e raffronti circa gli eventuali precedenti letterari sui quali Fausta Cialente potrebbe essersi ispirata nella creazione del personaggio di questa ex mantenuta, per la verità piuttosto insolito, specie se rapportato ala galleria di figure femminili fin qui esaminate. Piero Citati (11) fa al riguardo un preciso riferimento a Odette, la mantenuta parigina dalto bordo, che è uno dei protagonisti della Recherche proustiana.
Analogamente, allorché il De Benedetti ne Il romanzo del Novecento allude alla tecnica con cui il personaggio moderno viene esplicitato nei suoi tratti esteriori, facendo espresso riferimento a un certo modo rappresentativo tipico di Marcel Proust afferma:
«Quando Odette ci appare durante le sue passeggiate al Bois de Boulogne, vestita con quella sua eleganza che fa testo per tutta Parigi, è certamente una donna bellissima». (12)
... non si può fare a meno di riandare a certe descrizioni che la Cialente ci fa di quella sua Odette alessandrina:
«Tutte le volte che durante la passeggiata elegante sul canale Mahmudieh capitava alla nonna (il cappello irto di piume di struzzo e la redingote di panno scarlatto abbottonata sul petto da grandi alamari neri) di incrociare col suo tiro a due le carrozze di Linda, Fanny e Cèline, queste grandi signore dellepoca volgevano lo sguardo dallaltra parte». (13)
Per lintera durata del suo apprendistato di bambina, Daniela deve limitarsi ad ascoltare le confidenze di tutta quella schiera di parassiti, di mezzane e di adulatori di cui ama circondarsi la dissoluta Francesca: anche se quello può sembrare a tutta prima un vivere dolce, lieto e carezzevole, «simile ad una lunga passeggiata su unacqua primaverile» (14), a poco a poco questa comincia, quasi suo malgrado, a percepire la squallida realtà in cui si trova.
Linnamoramento per Gilbert, un ragazzino di origine francese ospite di alcuni zii che abitano la villa accanto, segna una svolta tragica nella vita della giovane, ormai adolescente: di lì a poco il giovanissimo ospite morirà annegato in unansa del Nilo, nel corso di una gita a cavallo:
«Il corpo di Gilbert, travolto dalla piena, era rimasto per tre giorni fra le canne, il viso nellacqua. Lavevano cercato anche di notte, con le lanterne, mentre le donne delle esbe ululavano alle porte della stalla». (15)
La sensazione di insicurezza, che aveva cominciato a farsi strada in lei quandera ancora bambina, quasi per il presentimento che la vita non avrebbe potuto essere sempre facile e dolce, sembra esplicitarsi nel motivo dellacqua, che dora in poi assume il ruolo di un vero e proprio filo conduttore di tutta la vicenda, quasi ad accompagnare le fasi più salienti della vita di Daniela.
Intesa secondo Elena Clementelli, l'acqua, piuttosto che come elemento portatore di vita e di morte volto a caratterizzare la tematica di vari autori, fra cui Eugenio Montale è simbolo delleterno rinnovarsi della natura, quasi come in un immer wieder di ascendenza rilkiana. Tale rappresentazione si materializza in Ballata levantina nellimmagine della sakkìa, la ruota verticale del deserto
«nella cui forma sono inseriti dei vasi che girando si riempiono dacqua in fondo al pozzo artificiale o al canale, e si vuota quando il movimento della ruota li porta alla sommità». (16)
Associata alla simbologìa di morte, che la visione del corpo di Gilbert annegato potrebbe suggerire, lacqua assume, tuttavia, una valenza contrapposta nellepisodio dei laghi salati, teatro alcuni anni più tardi dellavventura forse più squallida di Daniela, quella con un secondo Gilbert strane coincidenze sembrano a volte segnare il destino! aristocratico esponente dellalta borghesìa levantina, con cui la ragazza intesse le trame di uno pseudo-fidanzamento ufficiale, nellillusione di poter così vendicare sia Francesca dalle umiliazioni subite, a causa delle mancate nozze col suo protettore, sia lei stessa dallo schiaffo che da piccola aveva ricevuto da Angèle, alla quale ha portato via quel giovane uomo, di cui la donna era diventata nel frattempo la matura amante...
«Quegli immensi laghi salati la appassionavano. Si stendono tra le saline del Mariùt e il deserto, tesi e tranquilli a perdita docchio, ogni tanto calandosi dentro un sipario di canne acquatiche, sparsi di cespugli galleggianti che sembrano nei, alla cui radice palpita unintensa vita subacquea». (17)
Dopo la montatura del fidanzamento con Gilbert e dopo avere conosciuto Enzo giovane militante comunista di origini italiane da lei incontrato a Parigi nel corso di una breve vacanza in Europa di fronte a ciò che avrebbe potuto finalmente rappresentare il grande amore della sua vita, Daniela rimane ancora una volta vittima dellinquietudine che caratterizza il suo personaggio e che sia pure in unottica opposta a quella della storia da lei precedentemente vissuta la porta ad unaltra drammatica rottura: questo a causa dellincapacità per lei, sempre vissuta in mezzo alle mollezze che malgrado tutto la vita con la nonna poteve offrirle di accettare la convivenza nel modesto appartamento che Enzo condivide in Alessandria con altri compagni di partito. Lamore fra i due trova tuttavia la forza di risorgere, allorché Enzo è in procinto di partire alla volta dellEuropa siamo nel 1940 ormai in piena guerra. Ma la fatalità (o forse il presagio di dover mettere fine alla propria vita nei suoi giorni più felici per non doverli poi rimpiangere troppo?) ha il sopravvento su di lei: disgrazia oppure, verosimilmente, suicidio? Lautrice vuole tenerne il segreto. Del tutto inattesa e prematura, cogliendo la protagonista nel fiore della sua esistenza, a soli venticinque anni, la morte di Daniela rappresenta forse il risvolto più coerente della sua travagliata vicenda terrena nonchè la conclusione più logica del romanzo. La simbologìa dellacqua, portatrice di vita come di morte permea così di sè anche lultima pagina del libro, attraverso
«
leterna voce e leterna ondata di un antico, solenne fiume». (18)
È stato proposto da Giovanni Grazzini (19), a questo riguardo, un parallelo tra il personaggio di Daniela e quello di Marco, il protagonista di Cortile a Cleopatra: lansia di non legarsi a niente e nessuno può rappresentare in effetti una sorta di denominatore comune per entrambi i giovani. Vivono inoltre nella proiezione di un mito che ambedue si trascinano dallinfanzia: il ricordo del padre per il secondo, il cui iter se ne prefigge unimitazione costante; quello della nonna per Daniela, che, per quanto ormai adolescente, comincia a rendersi conto di quanto sordida fosse la figura di Nonna Francesca, non avrebbe esitato alcuni anni dopo a ingannare uno degli esponenti di quella classe che aveva messo al bando lanziana donna.
Sorge a questo punto il problema se Fausta Cialente non abbia voluto identificare, nel fronteggiarsi di queste due generazioni quella di Francesca e quella di Daniela i due mondi, così vicini ma anche così distanti fra loro, che a quel tempo coesistevano allinterno dello stesso Paese: quello della borghesìa e dellaristocrazìa levantina, ormai al tramonto, ma non per questo meno rapaci ed oltremodo incuranti dei problemi che il colonialismo aveva arrecato; e quello della massa indigena degli sfruttati, di cui il fellah rappresenta la protesta accorata:
«Ma lEgitto, Daniela, è il fellah! È lui, col suo somarello e il fascio di trifoglio, lo stesso di duemila anni fa. Per lui nessuno ha fatto niente, da duemila anni [
] E quando sincontrano per strada, lautomobile del Pascià e il fellah sul somarello, non si vedono. Pare incredibile, no? Due mondi che si sfiorano e non si incontrano mai». (20)
La trasposizione di tutto ciò si esprime in chiave letteraria nella disinvoltura con cui Francesca fronteggia in maniera indiscussa il milieu in cui si muove, campeggiando nelle circa cento pagine a lei dedicate nel ruolo di unautentica mattatrice; resta viceversa da vedere fino a che punto la giovane nipote si riconosca nel ruolo affidatole dallautrice: il motivo dellinsicurezza, che fin dalla prima adolescenza notiamo come una costante della persona di Daniela si stempera di contro solo in alcune felici notazioni paesaggistiche, quasi a ribadire la situazione esistenziale della giovane protagonista, che cerca di allontanare da sé i fantasmi del passato:
«Il facchino che trasportava le valigie mi accompagnò giù per lacciottolato di una stradina incassata tra due alti muri pitturati a calce, che avevano in cima un orlo di tegole rosse. Vi si affacciava la copiosa vegetazione dei laghi, cascate di roselline già sfiorite, ciuffi di oleandri, le grosse teste delle ortensie; e dentro, si vedevano sorgere folti gruppi di cedri, di pini, di magnolie». (21)
Se Ballata levantina si fosse risolta in una contrapposizione di caratteri, che tendesse a evidenziare essenzialmente lo scontro fra due mentalità e due epoche fra loro differenti, il suo messaggio di ordine socio-morale e perché no anche di contenuti politici ci sarebbe pervenuto senza alcuna ombra di dubbio, anche senza il frapporsi continuo (quando non superfluo) di date e riferimenti a fatti di sicura portata mondiale, ma che specie nella seconda parte, resa dallautrice in forma di cronaca, per una maggiore esigenza di obiettività storica finiscono col nuocere al tessuto narrativo, anziché avvantaggiarlo, come del resto più di un critico ha avuto occasione di notare (22). Peccato, perché Fausta Cialente riesce comunque a padroneggiare una materia vasta e composita, sia per la varietà degli schemi narrativi sia per la proprietà del suo linguaggio espressivo, dando alle stampe ancora una volta unopera altamente significativa.
Soltanto dieci anni più tardi, larticolazione delle istanze ideologiche a quelle di carattere puramente narrativo trova il suo sbocco più congeniale nel romanzo che sarebbe forse più corretto definire lungo racconto intitolato Il vento sulla sabbia.
Se a buon diritto questo nuova fatica della Cialente può venire considerata un prosieguo tematico ed ambientale di Ballata levantina, non fosse altro che per la pluralità dei vari filoni di memoria che vi si intersecano in una sorta di rappresentazione a più piani, cè da ribadire tuttavia che, se nella Ballata scaturisce dai vari filoni quella coralità narrativa atta a renderlo un vero e proprio romanzo depopea sulla crisi del levantinismo coloniale, rivisitato nel lento trascorrere di tre generazioni, ne Il vento sulla sabbia questi rivivono soltanto attraverso le testimonianze ed i ricordi di Lisa un po lio narrante dellintera vicenda che di quei fatti era stata spettatrice alletà di diciottanni ed è adulta ora che li rievoca, per cui può valutare spassionatamente
«la verità sulla storia di Frida, di Lottie, di Stefan». (23)
Dietro i cancelli del Sans Souci la bella villa, in cui vivono due anziani e facoltosi coniugi tedeschi si cela forse un segreto? È ciò che da ventanni si chiede la colonia europea di una cittadina del Levante, in cui è approdata da Udine, povera e sola, la giovane Lisa, una volta rimasta orfana curiose analogìe sembrano legare il personaggio di Lisa a quello di Daniela e, perché no, anche a quello di Marco, il protagonista di Cortile a Cleopatra (!) che dopo la morte della vecchia Zia Albina è ospite di Malvina e di Filippo, una giovane coppia di lontani cugini, legata da rapporti damicizia agli attempati padroni del Sans Souci.
Invitata da questi ultimi a lavorare e vivere lì come segretaria, la ragazza riesce suo malgrado a ricostruire quasi come in un mosaico lo strano rapporto esistente fra Stefan, Frida e Lottie, uneccentrica quanto patetica pittice, anche lei di origine tedesca, che vive nel contempo con loro e al di fuori di loro.
Ed è proprio questo che affascina e incuriosisce non soltanto la giovane ospite, ma anche tutto quel consesso di «borghesi dalto rango, tra neghittosi e snob, che frequentano le serate musicali di Stefan» (24): la lotta sotterranea fra le due donne, amiche in apparenza, in realtà sempre tese alla conquista definitiva di Stefan, uomo nevrotico e debole, per tutto quel tempo indeciso tra lamore, protettivo e solido, che gli offre la moglie e gli incantamenti artificiosi di Lottie.
Più che una vera e propria vicenda, questa è in definitiva una situazione, uno stato dinamico di attriti e di frizioni, di rivalità e di ambigui sentimenti che Lisa rievoca e analizza: Frida è una donna dal carattere energico e tetragono, lesatto contrapposto della natura apatica del marito; mentre Lottie è un temperamento irrequieto e anticonformista, che, tuttavia, si sente a suo agio in quellambiente conservatore e borghese, solamente perché ne ricava i proventi delle proprie vendite.
In origine, se unautentica amicizia poteve esserci stata, fra le due donne come sostiene Malvina nel tempo questa doveva essere stata distrutta «da un lungo, lungo veleno». (25)
La Cialente si avvale di una sperimentata abilità architettonica nello strutturare le varie commessure del racconto di Lisa, con corrispondenze e anticipazioni che conferiscono a questa sua rappresentazione a più piani una perfetta fusione di equilibri tematici e rappresentativi, che come si è già ribadito non era stata forse raggiunta del tutto in Ballata levantina.
È così che a fare da contrappunto alla pània senile che coinvolge i protagonisti della torbida vicenda è il limpido rapporto tra la giovane e Amadeus, il figlio trentenne della coppia, che sembra parimenti farsi il portavoce delle inquietudini ideologiche ed esistenziali che lautrice ama esplicitare per il tramite dei suoi personaggi:
«Il fatto di vivere da straniero in un paese che non sarebbe mai stato la sua vera patria, lavrebbe reso quel che non voleva essere a nessun costo, uno sradicato, non un orientale, né un occidentale. La fratellanza con un popolo tanto diverso era impossibile, diceva, troppo romantica per essere reale, e del resto sarebbe venuto il momento in cui tutti gli europei avrebbero dovuto sgomberare». (26)
Alcuni critici, fra questi in particolare Giuliano Manacorda (27), tendono ad accostare lopera narrativa di Fausta Cialente a quella di Enrico Emanuelli (28) la cui componente più significativa, che ritorna nei suoi romanzi e reportages sui Paesi visitati, è unattenta critica di costume evidenziando, negli elementi di natura esotica contenuti nellopera dello scrittore e giornalista scomparso, un mezzo di intenzione etica piuttosto che di mera folkloristica evasione: in questo modo se ne capolgerebbero quindi i canoni consueti, rappresentando di contro il vizio delluomo bianco, oltre allimplicita denuncia di un sistema politico e morale messo in crisi dallautore stesso.
Alla luce di tali considerazioni, assumerebbe un certo spicco, nellultima parte de Il vento sulla sabbia la figura in un certo qual modo sibillina di Abdu: questo anziano servo indigeno, il cui morboso attaccamento alla padrona può ricordare in qualche modola figura di Soad, la schiava sudanese di Nonna Francesca in Ballata levantina, diviene lelemento chiave nel verificarsi del diabolico thrilling, che alla fine del del libro vedrà divampare un tragico rogo allinterno del garage-atelier di Lottie, in cui trovano la morte le due amiche-rivali; la fatalità ha voluto infatti che Frida trascorresse la notte al capezzale di Lottie, in quei giorni affetta da una fastidiosa e prolungata malattìa.
Risorge pertanto, in queste ultime pagine de Il vento sulla sabbia, il dilemma che già aveva caratterizzato il finale della Ballata: il duplice olocausto, qui verosimilmente intenzionale nei confronti di Lottie, ma del tutto causale per Frida, viene pertanto a connotarsi a tutti gli effetti come un omicidio.
Al di là di quel certo gusto volutamente teatrale, scandito peraltro dalle note di un concerto, che fa da sinistro contraltare al crepitìo delle fiamme in cui brucia il retaggio di tutto un mondo artificioso e destinato prima o poi ad estinguersi, Fausta Cialente ha voluto dimostrare con una finezza di tocco decisamente incisiva quanto di effimero vi fosse in quelle costruzioni di sabbia in balìa del vento, cui il titolo stesso si riferisce, che il colonialismo europeo aveva eretto in quella parte di Mediterraneo, in cui per tanto tempo lei stessa aveva vissuto e che anche dopo il suo ritorno in patria le era stata molto a cuore.
Può sembrare automatico, a questo punto, notare un dato che oserei definire peculiare dellimpianto ideativo della Cialente, vale a dire la scelta del motivo conduttore: se in Ballata levantina questo elemento era rappresentato dal motivo dellacqua, ne Il vento sulla sabbia il medesimo si esplicita attraverso la musica. È la musica infatti il filo ideale, che lega i rapporti fra i due gruppi di figure, finendo quasi per scandire quasi come in un crescendo rossiniano questa storia di rivalità e di malcelate passioni; è lamore per la musica ad accomunare i due protagonisti della vicenda: Filippo, il giovane cugino della protagonista, e Stefan, lanziano signore tedesco conteso tra la moglie e laltra sempre strisciante, come si può evidenziare in questo scambio di dialoghi nel corso di una delle serate musicali, che periodicamente i due coniugi organizzavano al Sans Souci.
«Mein Liebling! lei mormorava con dolcezza. Caro, è stata una buona idea di mettervi insieme per fare questo clavier-quartett. È così bello
così nobile
Ma non sei stanco, adesso?. Gli toccava certamente le mani, la fronte, perché la voce si faceva più bassa, quasi amorosa. [
] Ma cè qualcuno che non abbiamo invitato stasera, Mein Liebling (29) (Comera fuori luogo, adesso, quel tenero appellativo). Ti sarò molto grata se, in pubblico, non ti avvicinerai a chiedere lopinione di chi non abbiamo invitato.
Ma Frida
Ti prego, non in pubblico. Ci sono altre ore per lei. Lo sa. Lo sa da molto tempo
e sa anche che deve rispettare i patti. [
] La voce esitante e infelice di Stefan ora diceva: Ma tu lo sai bene che anche lei ama la musica
e non è giusto che non possa mai ascoltarne! Eppoi, forse è venuta perché ha saputo che lui è arrivato improvvisamente. (30)
No, sei tu che dovresti ammettere, dopo tanti anni!, che di musica non capisce niente e non gliene importa niente di ascoltarne. È venuta perché credeva che io non mi sarei alzata, questa sera, nonostante sia arrivato lui
Così avrebbe avuto il campo libero per pavoneggiarsi vestita di velo
mentre io mi presento tutta infagottata! E per questo che la biasimo, perché non è mai un sentimento che la spinge a far qualcosa. La biasimo perché adopera sempre gli stessi mezzi, che sono quelli di una commediante oppure quelli di una cortigiana.
Un silenzio angoscioso calò su questultima frase. [
] Lassù, intanto, un singhiozzo aveva preceduto la voce improvvisamente stanca e rotta di Frida».
Intimamente funzionale alla musica è in effetti la stessa natura ambigua dei ruoli di Frida e di Lottie per Stefan: la prima infatti ne coltiva i valori, intendendo e apprezzandone limpegno nel marito; laltra però, anche solo per il suo modo di essere, estroso ed eccitante quando non addirittura morboso, la personifica (!) (31) Ed è proprio questo, in definitiva, il vero nucleo ideale del romanzo.
Quasi un omaggio possiamo aggiungere di Fausta Cialente al suo stesso ruolo accanto al marito, Enrico Terni, appassionato cultore di musica; nonché uneredità da lei assunta nella sua famiglia dorigine e precisamente dal nonno materno, come lei stessa ha potuto ampiamente raccontare nel suo libro autobiografico Le quattro ragazze Wieselberger.
NOTE
(1) Lawrence George Durrel (1912-1990) nella serie di romanzi Justine (1957), Balthazar (1958), Mountolive (1959), Clea (1960) ambientati in Egitto e raccolti nel Quartetto di Alessandria racconta la stessa storia da quattro punti di vista diversi, per dimostrare che non solo la verità è relativa, ma la stessa personalità umana è inafferrabile ed esiste soltanto in funzione dellosservatore.
(2) Paolo Milano, Il delta di unesistenza, in «LEspresso», 09.07.1961, p.17.
(3) F. Cialente, Prefazione a Interno con figure.
(4) F. Cialente, Le quattro ragazze Wieselberger, p.80.
(5) Così intitolato dal nome di un sobborgo di Alessandria dEgitto.
(6) Giovanni Arpino, Un delitto donore, Mondadori, Milano, 1961.
(7) Raffaele La Capria, Ferito a morte, Bompiani, Milano, 1961.
(8) Che non presenta alcun riscontro nella traduzione in inglese del libro, The levantines, translated by Isabel Quigly, Boston.
(9) Luigi Baldacci, Le stampe egiziane della Cialente, in «Il Popolo», 07.07.1961, p.5.
(10) Fausta Cialente, Ballata levantina, Feltrinelli, Milano, 1961, pp.13/14.
(11) Piero Citati, Una Odette levantina tramonta ad Alessandria, in «Il Giorno», 09.05.1961, p.6.
(12) Giacomo De Benedetti, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano, 1971, p.442.
(13) Fausta Cialente, op.cit., p.30.
(14) Fausta Cialente, op.cit., pp. 26/27.
(15) Fausta Cialente, op.cit., p.93.
(16) Fausta Cialente, op.cit., in 'Glossario.
(17) Fausta Cialente, op.cit., p.225.
(18) Fausta Cialente, op.cit., p.393.
(19) Giovanni Grazzini, Ballata levantina, in «Il Giorno», 21.06.1961, p.3.
(20) Fausta Cialente, op.cit., p.143.
(21) Fausta Cialente, op.cit., pp. 152/153.
(22) Paolo Milano, v. nota n.2.
(23) Fausta Cialente, Il vento sulla sabbia, Mondadori, Milano, 1972, p.7.
(24) A. Bocelli, Decadenza nel Levante, ne «La Stampa», 04.08.1972, p.12.
(25) Fausta Cialente, op.cit., p.136.
(26) Fausta Cialente, op.cit., p.122.
(27) Giuliano Manacorda, Antologia della Letteratura italiana contemporanea (1940/1975), Editori Riuniti, Roma, 1977, pp.299/300.
(28) Nato a Novara nel 1909 e morto nel 1967.
(29) (ted.) Mio caro.
(30) Amadeus, il figlio di Stefan e Frida.
(31) Il vento sulla sabbia, p.148.
Milano, 15 gennaio 2004
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