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CENERE, DI GRAZIA DELEDDA, PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA NEL 1926 |
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Cenere (1904) |
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La ritroverà disperata, ridotta alla fame e, soprattutto, macchiata da una vita disonesta di cui egli aveva implicita coscienza, ma si era sempre intimamente rifiutato di accettare. La condannerà e le imporrà di legarsi a lui per unespiazione comune, autodistruttiva e cieca, in nome di un dovere e di un amore filiale che egli stesso vorrebbe disconoscere. Olì, suicidandosi, porrà fine alla disperata follia del figlio, che ricongiungendosi a lei aveva deciso la propria condanna a morte di fronte al mondo, allamore, alla felicità. La figura di Olì, reale eppure celata protagonista del romanzo, fino alla tragica conclusione che la riporta alla ribalta della storia con tutta la caparbietà di una suprema vocazione al martirio, è lombra che oscura la fanciullezza e i sogni adolescenziali di Anania; ma nel darsi la morte, la donna non cerca un riscatto personale, bensì la liberazione del figlio, cui regalerà ancora una volta la vita. Non a caso, nel discorso pronunciato durante la cerimonia di consegna del Nobel per la letteratura a Grazia Deledda, nel dicembre del 1926, il Prof. Henrik Schuck dellAccademia Svedese, per sottolineare la malinconica severità, ma non il pessimismo deleddiano, cita proprio un passaggio tratto dal romanzo Cenere: «Sì, tutto era cenere: la vita, la morte, luomo; il destino stesso che la produceva. Eppure, in quellora suprema, davanti alla spoglia della più misera delle creature umane, che dopo aver fatto e sofferto il male in tutte le sue manifestazioni era morta per il bene altrui, egli ricordò che fra la cenere cova spesso una scintilla, seme della fiamma luminosa e purificatrice, e sperò, e amò ancora la vita». E, sottolineando ancora la motivazione del premio, il prof. Schuck, conclude: «Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano». Cenere fa parte dei romanzi della maturità artistica e umana dellAutrice, e in esso sono presenti tutti gli elementi che lhanno resa famosa e meritevole del Nobel. Primo fra tutti, il perfetto compenetrarsi tra i personaggi con i loro caratteri peculiari e la natura: quel paesaggio sardo che minuziosamente e magistralmente descrive, nel superamento di ogni incertezza linguistica di cui fu più volte accusata, è riempito di sfumature e palpiti vitali che ne rendono lasprezza e laridità, musicali e vivifiche. La terra sarda, daltra parte, così scabra e avara, si attaglia perfettamente ai personaggi che lautrice descrive, e si rivela uno sfondo perfetto per lo svolgimento di una tragedia classica. La primitiva e cruda terra di Sardegna diventa così il teatro universale per la rappresentazione di tragedie e drammi che si ripetono, sotto forme diverse, lungo tutto il percorso della storia umana. E la gente che la Deledda disegna, qui come in tutte le sue opere migliori, costruisce un quadro mirabile di passioni, stoltezze, ingenuità e crudeltà senza colpe: inevitabile risultato di un incoercibile e preordinato allontanamento dalloscura legge superiore. E tale imprecisa cognizione genera, infatti, soltanto rimorso informe, e mai autentica consapevolezza del male. Illuminato e modernissimo, a questo proposito, il brano in cui si parla del banditismo: «Anticamente gli uomini andavano alla guerra: ora non si fanno più guerre, ma gli uomini hanno ancora bisogno di combattere, e commettono le grassazioni, le rapine, le bardanas, non per fare del male, ma per spiegare in qualche modo la loro forza e la loro abilità». I personaggi del romanzo, simbolici protagonisti di un mondo arcaico che ancora non lascia spazio al moderno, si muovono portando con sé feroci passioni e brevi fantasie, ma soprattutto la spietata povertà degli uomini e delle cose: quella povertà che accomuna tutto e tutti, anche coloro che possiedono qualcosa: «In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, labbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone il lamento delle pietre che cadevano a una ad una dai muri neri delle casette preistoriche della gente che non mangiava degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino ». LAutrice tende, nel progredire della sua arte, a «scavare sempre più nelle anime», come sostiene Petronio, e a «schematizzare la vita in un conflitto tra bene e male» anche se, pur nellebbrezza del peccato, la coscienza non si abbandona interamente al male. Questo perché del male non ha intima cognizione. Approfondimento della coscienza morale, dunque, più che psicologica. Nulla in comune tra i suoi personaggi femminili e quelli di Sibilla Aleramo, sua contemporanea ma, a differenza della Deledda «che si è sempre tenuta lontana dalle lotte della sua epoca» (Schuck), così impegnata socialmente e politicamente. «Io sono del passato», amava dire di sé Grazia Deledda, e ad un passato antichissimo legava i suoi personaggi, « pur veri e reali. Non burattini da teatro» (Schuck), implacabilmente trascinati dallineluttabilità del destino e da sentimenti ancestrali, frutto di una civiltà cruda e ancora primitiva. La lingua, che non ripiega troppo su residui romantici, né ammicca al modernismo dannunziano, spesso risulta ruvida e scarna, quasi come la natura cara allAutrice che talvolta indugia a descrivere con appassionata pignoleria. E si può dire che proprio la terra natìa, con il suo paesaggio selvaggio, comune denominatore di quasi tutte le opere, risulti protagonista silenziosa e onnipresente e, infine, governatrice di ogni umana determinazione. A cura della Redazione Virtuale Milano, 21 settembre 2001 |
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