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La ciociara (1957)



Alberto Moravia, La ciociara
Bompiani, Tascabili, 2001
pp. 322 Euro 8,52

detta di Moravia, La ciociara era già in gestazione al tempo de La romana, anzi appena poco prima, nel 1946. Venne interrotto dopo ottanta pagine e ripreso dieci anni più tardi, fino alla stesura definitiva in cui fu pubblicato nel 1957. L’interruzione è indicativa del fatto che l’esperienza di cui l’autore voleva rendere conto in questo romanzo – esperienza del suo rifugio a Fondi in casa Mosillo e Marrocco con Elsa Morante durante i nove mesi dell’occupazione tedesca, dal settembre 1943 al maggio 1944 – era troppo a ridosso dei fatti patiti e vissuti, per essere narrata con quel distacco necessario al giudizio degli avvenimenti e bisognosa dunque di una più consona celebrazione.

«Il Moravia del romanzo forse più riuscito della sua carriera dopo Gli indifferenti» – come afferma Giacinto Spagnoletti – «è prima di tutto lo scrittore che ha preso a cuore il problema della guerra non più solo come racconto di cocenti esperienze del recente passato, ma soprattutto come fatto ideologico da valutare nella sua violenza profanatrice, tanto più dura da affrontarsi quanto meno se ne possono prevedere le conseguenze» (1).

Ancora una volta è una donna del popolo a narrare ore rotundo la sua storia, facendolo con un linguaggio assai aderente al livello della sua esperienza. Mentre ne La romana alla voce della protagonista si sovrapponeva spesso quella dell’autore, ne La ciociara il modulo del discorso e l’intonazione del giudizio su ogni singolo fatto appartengono unicamente alla donna che parla. Cesira è una contadina originaria della Ciociaria trasferitasi a Roma, dopo il matrimonio, con un pizzicagnolo molto più anziano di lei, onesta nel fondo del cuore al modo sano dei contadini, anche se tenacemente attaccata alla roba. Ha allevato la figlia Rosetta – adolescente che nel suo riserbo e nella sua timidezza rispecchia ciò che la madre avrebbe voluto essere – ad una trepida confidenza.

La sopraggiunta vedovanza induce la giovane donna ad assumersi tutte le responsabilità nella gestione del negozio di alimentari lasciatole dal marito, e, poiché i beni scarseggiano, ella non disdegna un po’ di borsa nera, che le fa guadagnare una discreta somma di denaro.

La guerra che preme su Roma e poi l’occupazione tedesca nel settembre del ’43 costringono Cesira ad abbandonare la capitale e, con la figlia e due valigie di fibra, a cercare rifugio verso Fondi, nella casa paterna. Prima le rotaie del treno interrotte, poi i bombardamenti impediscono che il progetto sia portato a termine e, con sacrifici notevoli, dopo quasi un mese di soggiorno presso una famiglia di contadini resa avida dalle privazioni e dalla miseria, le due donne trascorrono circa un anno a Sant’Eufemia, di fronte alla valle di Fondi e, quando il cielo è limpido, all’isola di Ponza.

Il tempo passa attendendo gli inglesi, in quel frangente sinonimo di libertà; ma a causa delle cattive condizioni climatiche gli Alleati sono fermi al fiume Garigliano, mentre i tedeschi rastrellano la zona portando via tutto. La «ciociara» e la figlia prendono coscienza di una realtà in cui il giusto e l’ingiusto si confondono, emergono i vizi e le viltà degli uomini, fino a dare al mondo un assetto diverso e sconvolgente. La guerra distrugge alle radici ogni risorsa umana:

«La guerra sconvolge tutto e, insieme con le cose che si vedono, ne distrugge tante altre che non si vedono eppure ci sono».

Non è che una delle innumerevoli considerazioni che fa Cesira, perfettamente consapevole dell’immane flagello che incombe. E di un’altra cosa si accorge con orrore:

«Uno dei peggiori effetti delle guerre è di rendere insensibili, di indurire il cuore, di ammazzare la pietà».

Moravia ci descrive l’esilio delle due donne in modo unitario, «con uno stile che cerca di distanziarsi dalla sofisticazione intellettuale della didatticità ideologica e costruisce il paesaggio come un luogo dell’innocenza in cui Cesira e Rosetta “ritornano alla natura” ed in cui è possibile alimentare una speranza che si lega in modo conseguente e felice alla primordialità della terra». (G. Pandini).

Morta la pietà e a liberazione avvenuta, quando Cesira e Rosetta con l’arrivo degli angloamericani lasciano quest’angolo di mondo che le ha viste spogliate di tutto, ma arricchite di una nuova e significativa esperienza, proprio allora la vicenda si scioglie nel dramma più cruento: in una chiesa abbandonata, davanti all’altare e ad un’immagine rovesciata della Madonna, un gruppo di soldati marocchini usa violenza alle due donne.

Questa violenza, unita alla violenza collettiva della guerra, muta radicalmente il carattere remissivo e conciliante di Rosetta, che sfugge al controllo della madre e si chiude in un mutismo che esaspera Cesira.

Rassegnata, la «ciociara» osserva nella figlia innocente le conseguenze della guerra, così com’è per i luoghi devastati e distrutti del paesaggio che fa da cornice al dramma umano. Nella sua dolente rassegnazione, nell’impotenza della sua sorte, Cesira vede la figlia cambiare sotto i propri occhi e darsi agli uomini con amara determinazione «come se nel rapporto fisico cercasse una vita che per essere completa dovesse essere riconquistata con la cancellazione di ogni residuo d’innocenza.» (2)

«Il vero dramma della guerra – ha scritto Ciro Raia – si consuma per questa famigliola nell’alterazione dei rapporti, nella consapevolezza di una madre che sa di aver perso una figlia, strappata all’innocenza e abbandonata alle lussurie e alle miserie umane» (3).

Ma prima di questo drammatico episodio, nell’ultimo atto di resistenza ai tedeschi tocca ad uno studente, Michele, il solo personaggio idealistico del romanzo, sacrificarsi per i suoi parenti, i contadini e gli altri sfollati, lasciandosi portar via da un gruppo tedeschi in ritirata. Da allora del giovane non resta che il ricordo. Alla fine del romanzo si saprà che egli è stato fucilato.

Michele è l’ «eroe positivo», l’opposto dell’omonimo amletico personaggio de Gli indifferenti, di cui rappresenta l’ideale prosecuzione e conclusione. È un Michele più maturo e consapevole, disposto a morire per un ideale in cui crede fino in fondo. Aspira ad un mondo più vero e più giusto e reagisce alla violenza della guerra con la sottomissione, immolando se stesso.

Ciò d’altronde era nelle intenzioni dell’autore, il quale, facendo riferimento al turbamento intellettuale e politico derivante dalla situazione mondiale, ha dichiarato:

«Con La ciociara si chiude idealmente la mia fase di apertura e di fede nel comunismo», «Si consumava in me l’identificazione tra comunista e intellettuale. In altri termini, il personaggio di Michele, il Michele de Gli indifferenti, si conclude là, ne La ciociara. Non a caso, il protagonista maschile del romanzo l’ho chiamato appunto Michele».

Giancarlo Pandini si dimostra alquanto scettico nei confronti di una tale affermazione, affermando che essa «se viene a rischiarare l’ideazione di un personaggio come il Michele de Gli indifferenti, non giustifica l’anonimo dramma tutto popolare de La ciociara se non nella trasparenza con la quale Moravia ha voluto indicare la spinta ideologica che determina nel popolo la ‘coscienza’ del dolore e dell’ingiustizia di fronte allo scontro duro e drammatico con la guerra. Si potrebbe pensare che Moravia in questo romanzo abbia voluto redimere Michele dalla sua «indifferenza» di fronte agli eventi politici, rendendolo consapevole e corresponsabile degli avvenimenti, fino a farne l’eroe di un altruismo e di un sacrificio, che hanno troppo il sapore di costruzione letteraria ed astratta per riscattarlo completamente. Il suo Vangelo letto in chiave marxista, se pur è sufficientemente positivo da far comprendere alla popolana Cesira qual è il senso della sua esistenza durante la guerra fino a infondere in lei un sentimento di giustizia e di comprensione della vita, non lo è altrettanto nell’artificiosa saggezza con cui si rivela. Perché Michele, più che da se stesso e dalla sua ideologia, trae incitamento alla sua apertura verso il mondo sconvolto e a gettarsi nell’azione proprio dal buon senso della popolana Cesira» (4).

Ben più convincenti e suggestive sono invece le argomentazioni portate da Giacinto Spagnoletti a sostegno della maturazione umana e politica di Michele, quando definisce il sacrificio del giovane studente «l’unica limpida opposizione alla crudeltà degli avvenimenti e al male portato dalla guerra che Moravia ha messo in evidenza quasi a lasciar intravedere uno spiraglio di altruismo e di fede nei valori dell’esistenza di fronte alla cecità e all’aberrazione generali. […] [Michele] è un personaggio nuovo emerso da una diversa situazione storica, come un avvertimento, un segno di quanto è stato e non si ripeterà più» (5).

Di ciò e della carica ideale che Michele rappresenta, al termine delle sue traversie prende coscienza l’umile Cesira. Ricordando la situazione a cui erano giunte lei e la figlia, «morte alla pietà che si deve agli altri e a se stessi», la ciociara sente di non potersi più staccare da quel momento della sua vita in cui Michele, prima di morire, aveva letto il passo del Vangelo su Lazzaro. Allora egli si era adirato con i contadini che non lo avevano compreso, gridando che «erano tutti morti in attesa della risurrezione come Lazzaro».

Mettere in bocca ad una donna del popolo questa cocente e straordinaria rivelazione, e lasciare che sia lei semplicemente a condannare gli orrori trascorsi e a far sentire come gli uomini possano trasformarsi a contatto con un flagello come la guerra, ha indubbiamente rappresentato per Moravia un’esperienza di grande importanza: ma quel che più conta è che questa «lezione morale» nasca da un libro di straordinaria presa narrativa, uno dei romanzi migliori del tempo.

Il ritorno a Roma segna molti cambiamenti per Cesira e Rosetta, che dall’esperienza della guerra, dal pericolo di morte sempre incombente hanno appreso, attraverso il sacrificio personale e la spietata violenza subita, tutta la brutalità del mondo scosso da una sorta di apocalittico sconvolgimento. Nonostante tutto, viva è la speranza di riprendere la vecchia vita nella normalità del quotidiano, mentre la guerra continua in tutta la sua empietà e follia.

Così è ancora vero quanto la ciociara ha sempre pensato: «Tedeschi, inglesi, americani, russi, per me – come dice il proverbio – ‘ammazza ammazza è tutta una razza’».


NOTE
(1) Cfr. G. Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, Roma 1994, p. 424.
(2) Cfr. G. Pandini, Invito alla lettura di Moravia, Milano 1985, p. 90.
(3) Cfr. C. Raia, Dal Novecento ad oggi, Milano 1988, p. 142.
(4) G. Pandini, Invito alla lettura di Moravia, Milano 1985, p. 92.
(5) Cfr. G. Spagnoletti, op. cit., ibidem.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 18 aprile 2001
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Arianna, Napoli, 23/10/'04

Mi hanno"costretto"a leggere questo libro(a scuola) ed io non amo tanto leggere… ma sinceramnte ho trovato molto piacevole questo libro e non mi è pesato affatto.......anzi!!


Angus Young, Corridonia (Macerata), 13/06/'04

Di recente ho riletto questo libro e debbo dire che sono sempre più sorpreso dallo stile molto lineare di Moravia e dalle riflessioni che egli esprime tramite il personaggio di Cesira. Un'altra colonna portante del romanzo secondo me è Michele e credo anche che egli rispecchi molto la personalità dello stesso Moravia.


NIKOLETTA COBAIN, 29/04/03

SONO GIOVANE,CONOSCO MOLTO POCO O FORSE NIENTE DELLA LETTERATURA ITALIANA ED INTERNAZIONALE.LA CIOCIARA E' STATO UNO DEI PRIMI LIBRI CHE HO LETTO E MI HA COLPITO PROFONDAMENTE.CREDO SIA OTTIMO,ACCATTIVANTE E ANCHE UN PO' TRISTE.RINGRAZIO IL SIGNOR MORAVIA,OVUNQUE EGLI SIA,PER AVERMI REGALATO TANTE EMOZIONI,DESCRIVENDO COSI' BENE LA REALTA' DELLA GUERRA...




http://www.italialibri.net - email: - Ultima revisione Gio, 27 lug 2006

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