Il deserto dei tartari

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Il deserto dei tartari (1940)



Dino Buzzati, Il deserto dei tartari
Mondadori, Oscar classici moderni, 2001
18 ed. Euro 6,71

ino Buzzati pubblica Il deserto dei tartari, suo terzo romanzo, nel 1940, mentre l'Europa freme sotto i colpi di una guerra dentro la quale anche l'Italia inizia a muovere i primi passi. Lo stesso scrittore/giornalista (dal 1928 collabora con «Il Corriere della Sera») si imbarca, quell'anno, come corrispondente per il suo giornale.

È l'anno in cui Hemingway pubblica Per chi suona la campana, Alvaro, Incontri d'amore e Comisso Felicità dopo la noia. Dino Buzzati potrebbe essere definito, per comodità e convenzione, lo «scrittore dell' assurdo-reale», ovvero di quell'assurdo che diviene realtà sotto gli occhi di chi, vivendo, scruta ogni piega della propria esistenza e di ciò che lo circonda. È lo scrittore che non dà lezioni sullo scrivere, né postula teorie, che ama il suo lavoro di giornalista, al pari della Letteratura, attingendo dal reale per sognare e far sognare. Sogno che, tuttavia, non è alienazione dalla realtà.

Ed il suo è uno stile onirico, fatto di lucide visioni, di ombre, di sussulti e di misteri, di miti avulsi da qualsiasi condizionamento storico, universali perché fuori da ogni tempo e attuali sempre. Uno stile sapientemente sottratto alle mode, alle etichettature, che segue un filo interno, coerente, fatto di temi ricorrenti, talvolta ossessivi: l'attesa, il trascorrere del tempo, il senso della morte, l'illusione e la delusione, il vuoto e l'ansia di colmarlo, le infinite sfaccettature del vivere.

E ancora, la montagna che diviene spesso personaggio, la solitudine che accomuna e divide l'intera umanità… nelle opere di Buzzati tutto diviene tangibile, anche l'irreale. Le etichette che la critica gli affibbiava, sembravano lasciarlo impassibile, sia che lo si accomunasse a Kafka o a Bontempelli, sia che lo si accusasse di fuga dalla realtà, di surrealismo. L'attività del gruppo fiorentino «Solaria», cui collaborano critici quali Debenedetti e Solmi, aveva già delineato, negli anni trenta, due precisi filoni narrativi: quello di tipo saggistico/memorialistico e quello realistico: Buzzati non rientrava in nessuno dei due. Ne Il deserto dei tartari, attraverso metafore, più o meno velate , analogie, sottili processi allusivi ed evocativi, Buzzati segue la vita/non vita di Giovanni Drogo, dal suo arrivo, appena ventunenne, alla Fortezza Bastiani, fino alla sua morte.

La Fortezza è un avamposto al confine con un deserto, in passato teatro di rovinose incursioni da parte dei tartari: sperduta, sulla sommità di una montagna, retta da regole ferree, microcosmo minacciosamente affascinante che «strega» i suoi abitanti impedendo loro di abbandonarla. I zelanti militari che la abitano e le danno vita sono retti da un'unica speranza, che diviene ragione pura del loro esistere: vedere sopraggiungere i tartari da quei confini, per combatterli, acquisire gloria, onore, diventare, insomma, eroi. Le vite si consumano, dunque, in questa sterile attesa, cullate dalla pigra abitudine, scandite dall'ignaro trascorrere del tempo.

Giovanni Drogo, che arriva alla Fortezza convinto di ripartirne subito, si trova avvinto, immediatamente, dalla sua malia: è sicuro di sé, sa di avere tutta la vita davanti, di poterne disporre a suo piacimento, aspettando la grande occasione. Avverte subito, tuttavia, una contraddizione ragione/cuore: la prima gli fa desiderare di andar via, convincendolo che nulla di buono verrà da quel confine, il secondo continuerà a presentire, fino alla fine, «cose fatali». Così Giovanni si adatta alla vita della Fortezza, consegnando nelle mani della Disciplina militare, sempre uguale, sempre regolare, la propria esistenza. Trascorreranno quindici anni prima che egli inizi a rendersi conto che il tempo è fuggito, prima che riesca ad individuare, a ritroso, perfino l'attimo esatto in cui la giovinezza gli è sfuggita di mano: «la prima sera che fece le scale a un gradino per volta».

Da quel momento tutto diviene troppo veloce, perfino il ritmo della scrittura del libro accelera (basti pensare che in ventuno capitoli vengono descritti quattro anni, e negli ultimi nove, se ne avvicendano più di venticinque!), per giungere alla fine di tutto, all'amara constatazione che la vita stessa sia stata «una specie di scherzo»: mentre, infatti, i tartari, tanto attesi, attaccano davvero, Giovanni Drogo, minato da una grave malattia, è costretto a lasciare la Fortezza per andare a morire, da solo, in un'anonima stanza di locanda, in città. Ma non è nella disperazione che muore : superata, infatti, la rabbia, la delusione, la tentazione di rinnegare tutta la sua vita, egli si convincerà che la Missione Suprema è proprio quella che sta affrontando: la morte «esiliato fra ignota gente», solo ed abbandonato.

L'intero romanzo è caratterizzato, oltre che dai temi buzzatiani e da un ritmo alquanto variabile di narrazione, dal continuo mutare di prospettiva del narratore. Talvolta questi assume il punto di vista del protagonista, altre volte narra di lui in terza persona, allontanandosi; oppure interloquisce con i personaggi; in alcuni casi sembra seguire un proprio pensiero, un flusso di coscienza ininterrotto che prelude a quelle che saranno poi le riflessioni dello stesso Giovanni Drogo. Vale la pena di leggerlo, per riflettere, per guardarsi dentro.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 20 novembre 2000
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Anonimo, 18/09/'04

Ho appena letto Buzzati e condivido con l'altri l'idea che questo libro sia un bello schiaffo, e probabilmente necessario. condivido anche il fatto che Buzzati possa essere apprezzato pienamente solo da un pubblico adulto, almeno nella fattispecie. non credo tuttavia che Drogo insegua un sogno. per come ho interiorizzato il lavoro credo anzi che la Fortezza Bastiani sia piuttosto un rifugio, anziché una prigione, fatto di piccole abitudini e soprattutto di regole che in qualche modo semplificano la vita. forse questo non è inizialmente, ma sicuramente lo diventa ben presto, e prima di quanto lo stesso Drogo possa capire. l'idea dell'arrivo dei tartari costituisce a mio avviso la necessità di creare un motivo, una giustificazione ad un'esistenza povera ma tuttavia l'unica possibile. Drogo non riesce ad affrontare la vita, è un perdente perché rifiuta la vita, prima sotto la scusa di un orgoglio che coraggio non è, secondo perché non riesce a dare una svolta alla sua vita quando è ormai consapevole che la sua non è vita. il romanzo finisce genialmente e tragicamente in un effettivo arrivo dei tartari, senza la possibilità per Drogo di vivere quel sogno, l'unico che ha dato valore alla sua esistenza,e in cui si è trincerato per anni. lo sguardo di Drogo verso gli amici che invece la vita l'hanno vissuta è necessariamente di invidia, loro hanno creato qualcosa, una famiglia, dei figli, una carriera, ecc. Drogo non è stato capace, ha sbagliato quando era troppo giovane ma non ha avuto il coraggio di cambiare quando non era troppo vecchio. l'idea dell'attesa, della speranza, è presente in molti libri del periodo, basti pensare a Beckett, e questa idea viene coltivata da tutti noi, in attesa di rivincite, di un evento che trasformi la nostra vita insoddisfacente, ma essa è un'idea fin troppo comoda. la ricerca di indizi che ci possano far credere a questa possibilità è spesso un tentativo inconscio di dare un senso alla nostra immobilità, di giustificarla. questo probabilmente Drogo lo sa, ed è questo che probabilmente capisce quando sta per morire: capisce che non deve più aspettare nient'altro che la morte. la morte come l'arrivo dei tartari, con i suoi sintomi incipienti, come i puntini del deserto, costituirà l'ultima delle sue attese, e non delle sue battaglie. l'unica vera battaglia che Drogo combatte è quella contro la noia, giorno dopo giorno, ed è per questo che è necessaria l'attesa di qualcosa, essa costituisce un potenziale limite ed una virtuale fuga dalla piatta esistenza che è l'unica che un vile come Drogo può vivere. la ricerca di costanti indizi che ne diano veridicità è una fasulla ricerca di evadere dall'immobilità esistenziale in cui sono caduti questi uomini. a poco vale considerare il fatto che alla fine i tartari arrivano. questo non è il punto. il pianto di Drogo che lascia la fortezza è un pianto formale, estetico, la frustrazione di chi, almeno formalmente può dire di non avere aspettato invano per decenni qualcosa. ma pensate veramente che Drogo creda al suo dispiacere? non è l'arrivo dei tartari di per sé che costituisce elemento essenziale, quanto l'incertezza che essi possano arrivare, la necessità che ci siano per giustificare una troppo inutile esistenza.


Michele Lastella, Corato (Ba), 15/09/'04

Un liBro meraviglioso....... sin dall'inizio è facile l'identificazione nel protagonista,uomo comune,che nel fior degli anni,finiti gli studi accademici sogna avventure e glorie in posti degni di tali aspettative... Peccato che nulla di questo avvenga,ma è questo il Bello del liBro....l'autore riesce a coinvolgere il lettore parlando di cio che non avviene,insieme a Giovanni il lettore spera di poter vivere una gloria , una Battaglia che non avvera mai...o meglio non avvera mai alla presenza di Drogo. Meraviglioso come il destino rida crudo e veritiero in faccia al protagonista e come l'autore descriva i pochi momenti antecedenti la morte....sinceramente ho chiuso la copertina con un nodo in gola e una canzone in testa...."slush" dei Bonzo dog doo dah Band Ho riletto 2 volte la parte in cui si narra il sogno e la morte successiva di Angustina,la parte finale ed il dialogo con il suo amore giovanile. Le parti secondo me piu avvinceti,senza nulla togliere a tutto il resto Un liBro meraviglioso.... P.S letto il commento della studentessa americana.... Naturale che un testo sulle guerre non fatte non piaccia agli americani!!!!!!!


Beverly, Santa Barbara - Los Angeles (U.S.A.), 30/08/'04

Mi chiamo beverly ho 19 anni e sono americana (di santa barbara, california) studio letteratura italiana alla università e ho letto di recente "il deserto dei tartari". l'ho trovato molto lento, con troppe descrizioni e capitoli morti. non mi è piaciuto anche perché non capisco ancora molto bene l'italiano!


Andrea Marziali (andrea_marziali@virgilio.it), Ascoli Piceno, 04/04/'04

La bellezza del romanzo è che nella sua crudezza ci racconta la vita, senza sconti:

- il tempo che passa, in modo impercettibile prima, rapido poi, ma sempre e inesorabilmente.

- l'attesa dellíevento che dia un senso all'esistenza; la ricerca passiva e, insieme, spasmodica dello scopo ultimo del vivere.

- l'egoismo e la prevaricazione. Rubare il tempo allíaltro, ingannarlo per arrivare prima. Ma dove? Perchè?

- il distacco e la lontananza spazio-temporale che conduce alla solitudine. La separazione da una persona familiare e cara, il vivere lontani senza rivedersi per lungo tempo: tutto ciòfrantuma e dissolve i rapporti, estranea líindividuo, polverizza l'umanità in una miriade di persone sole.


Anonimo, 28/02/'04

Ho 15 anni e sono stata obbligata a leggere questo libro dal mio professore, all'inizio lo trovavo noioso e ripetitivo ma andando avanti sono riuscita a capirne il vero signifidato...un libro veramente meraviglioso, capace di far riflettere anche gli animi più freddi...


Carola Succi, Torino, 17/01/2004

E' un libro da leggere perché fa riflettere riguardo al tempo che passa senza che "noi" ce ne accorgiamo e, nel mentre tutto cambia intorno a noi.


miguel gonzalez, (migueldelucas_330@msn.com), Leon (Spagna), 23/12/03

magnÌfica imagen total de la inutilidad y de la banalidad de la vida encastillada por la burocratica sociedad contemporanea.La unica resoluciòn que resta es la acciòn consciente de la propia y fìsica muerte.La ùnica batalla que debemos todos librar algùn dìa. Potente texto bien taducido al espanol por Esther Benìtez (Barcelona,1987).


ELEONORA SANNA, (e.sanna@rai.it), Roma, 11/12/03

Inevitabilmente, Buzzati, ci fa riflettere sulla precarieta' della vita, sulla solitudine, sull'impossibilita' di realizzazione e soprattutto sull'ironia della sorte, che non rispecchia mai i disegni dell'uomo... Una realta', questa, comune a tutti noi esseri umani, che desideriamo un ruolo da protagonisti, ma quasi sempre, con amarezza e delusione, ci accorgiamo di essere solo comparse della nostra esistenza... E' per questo che il deserto dei tartari rimarra' sempre un'opera universale ed attuale. Eleonora


Teresa Avoli (teravoli@total.net), Montreal (Canada), 23/09/'03

Ho riletto recentemente il caplavoro di Buzzati e per giorni mi sono portata dietro il polverone delle impressioni/riflessioni che ha suscitato in me senza darmi tregua. Forse perche` ho l'eta` giusta per cominciare a sentir vacillare sotto i piedi la sicurezza di una vita ancora piena di promesse, l'ho ricevuto in faccia come uno schiaffo. Vorrei solo aggiungere ai tanti estesi commenti molto accurati la mia riflessione personale sulla vena ironica della conclusione. La vita sembra quasi prendersi gioco di tutta la vana attesa riposta in vuoti eroismi da propaganda militare e il messaggio che ne riceviamo e` che forse il vero eroismo sta nell` accettare i limiti di un'esistenza oscura e modesta ma non per questo meno degna.


Ivan Radeljkovic (sumingelender@hotmail.com), Sarajevo, 16/09/'03

Il 1940. L'epoca nella quale tanti autori europei e americani trattano l'assurdo, e non posso impedirmi di pensare che "Il Deserto dei Tartari" c'entra in qualche modo, sebbene non come "Lo Straniero", "La Nausea" o "Il vecchio e il mare", perche l'assurdo fa solo una parte del problema trattato nel "Deserto". Apunto, questi ultimi giorni, anche se non pensavo a Buzzatti, pensavo che, in qualche modo, il compito di un'autore (se uno c'e) sarebbe d'esprimere l'ineffabile. L'ineffabile e lo sforzo inutile che facciamo, cercando di avverare le nostre ambizioni attraverso le nostre istituzioni sociali o del lavoro, come Drogo perde il gusto della vita, rendendo si conto che la speranza che qualcosa accada, questa attesa, sia lo stesso nemico che lo coglie alla fine: il tempo. Comunque, se potessi dire esattamente e in totale quello che c'e con Drogo, l'ineffabile non sarebbe tale. E per via dell'ineffabile che questo romanzo rimane grande, perche rifiuta ogni cattegorizzazione e spiegazione scientifica. Altrimenti, a che serve la scrittura?


ALESSANDRA TELO' (gioiataura@libero.it), Cremona, 11/08/'03

SONO UNA RAGAZZA DI 17 ANNI ED HO LETTO IL DESERTO DEI TARTARI "OBBLIGATA" DALLA MIA PROFESSORESSA DI ITALIANO COME LETTURA PER LE VACANZE... E NONOSTANTE ANCH'IO SIA INIZIALMENTE RIMASTA UN PO' ANNOIATA PER IL RITMO VOLONTARIAMENTE LENTO DI ALCUNI PASSI DEL RACCONTO, POSSO DIRE CHE QUESTO E' UN LIBRO DAVVERO COME POCHI PERCHE'ARRICCHISCE E COLPISCE NELLA PARTE PIU PROFONDA DELL'ANIMA DI UNA PERSONA, TANTO CHE IO MI SONO ADDIRITTURA COMMOSSA! COMMOSSA PER COME SONO DESCRITTI DETERMINATI RICORDI ED EMOZIONI DEL PROTAGONISTA, PER COME VENGANO PERFETTAMENTE ILLUSTRATE CERTE SENSAZIONI A PELLE, PER COME DROGO VENGA COSI AFFASCINATO DA QUESTO SOGNO...SEMBRA QUASI DI TROVARSI LI VICINO A LUI A CONTEMPLARE LE MONTAGNE E DI SPERARE CON LUI.FORSE MI HA PRESA COSI BENE PER IL SOGNO CHE HO IO E CHE VOGLIO RAGGIUNGERE CON TUTTA ME STESSA E HO ASPETTATO PER ME UN'ETERNITA PRIMA DI AVERE L'OPPORTUNITA DI RAGGIUNGERLO DAVVERO...BELLISSIMO!!!


Melinda De Gaetani (melindadegaetani@tin.it), Catania, 30/06/03

Ho 33 anni. Da due anni a questa parte ho letto diversi racconti di Dino Buzzati e proprio oggi ho finito di leggere "il deserto dei tartari". Devo dire che nella prima parte sono stata scarsamente coinvolta dal racconto e avevo persino deciso di non proseguire; per la prima volta Dino Buzzati mi aveva lasciato delusa, ciò è successo nei primi 8 capitoli, ma la mia grande attrazione per le sue opere e la lusinghiera critica fatta per il "deserto dei tartari" ha fatto sì che mi ostinassi a continuare ad andare oltre, per fortuna la scelta è stata giusta poiché dal IX al XXX cap. è stato tutto un crescente abbandono. Intanto ritengo che Buzzati possa essere compreso solo da un pubblico adulto o comunque da chi abbia già vissuto gli aspetti più duri dell'esistenza, come la solitudine, l'attesa di una meritata ricompensa alle proprie fatiche, l'auspicio del concretizzarsi dei propri ideali giovanili, la fede la speranza di poter ottenere ciò che si desidera, il sospirato desiderio di affermazione sociale e professionale. Questi i temi che a mio parere sono predominanti nel racconto. Il protagonista si accorge che il mondo va per la sua strada senza prendersi cura di lui, il tempo scorre ineluttabile, la solitudine è proprio questo suo senso di inutilità per sé stesso e per gli altri, arriva a pensare che se lui esiste o non esiste è la stessa cosa, perché il mondo può fare a meno di lui. In questo, come in altri racconti, mi ha colpito l'onestà del protagonista, il suo essere corretto con gli altri, il suo non voler fare un torto agli altri, lui anziché pensare unicamente al suo interesse pensa anche ai suoi compagni, si aspetta che gli altri facciano altrettanto con lui ma per contro gli altri agiscono per se stessi e anzi fanno in modo di muoversi all'insaputa dei compagni in modo da scavalcare gli altri e così avverte attorno a sé un senso di tradimento e totale mancanza di amicizia. Per molti versi il romanzo racchiude un forte senso di angoscia, comprende che la sua è la peggiore sorte che si possa avere, per il sentirsi escluso dalle gioie della vita, mentre gli altri trascorrono "ore liete". Per tutti questi versi il personaggio è relegato al di fuori del mondo sociale, a mio parere: un po' perché non lotta abbastanza per uscire dall'isolamento, illudendosi che "qualche evento" o "qualcuno" prima o poi lo aiutino ad affermare il suo ruolo importante nella Fortezza (è la società standardizzata nei suoi ruoli e nelle sue gerarchie). Un po' perché c'è tutto l'interesse degli altri affinché lui non emerga ma faccia solo numero. Nei commenti ho letto che qualcuno ritiene che lui sia sereno nell'affrontare la morte, ma io invece trovo sia solo la sua caparbietà, fino alla fine, di non volersi considerare uno sconfitto , un "vinto" ma ahimè probabilmente per le sue doti caratteriali, non certo machiavelliche, la sua sorte è stata ineluttabile.


Giuliano Antonelli (gjqxan@tin.it), Roma, 16/06/03

Ho letto questo libro diversi anni fa per preparare la tesina per la maturità classica e da allora ne sono rimasto affascinato sì da doverlo rileggere quasi annualmente.cosa c'è nel "Deserto" che affascina e strega il lettore? forse c'è l'esistenza umana, con le sue fragilità,con le sue vanità, con le sue illusioni; forse ci sei Tu, che prigioniero delle tue ambizioni sprechi il tuo tempo in un'attesa perenne ma non te ne accorgi e non hai più neanche un vecchio specchio che faccia due Te.


Andrea Pietrobon (andrea.pietrobon@libero.it), Trebaseleghe (Pd), 31/05/03

La lettura del " deserto" mi ha veramente colpito: Il senso dello scorrere del tempo, il significato della vita,l'immensa pianura a nord oltre le montagne a cui guardano i soldati,lo stile asciutto funzionale alle immagini allegoriche e surreali. Particolarmente coinvolgenti le ultime pagine, con Drogo che aspetta la morte finalmente rasserenato, e lei che entra nella stanza come un ombra facendo scricchiolare la porta mentre fuori si stemperano le luci del tramonto.


Carolina Bifolchi, Montepulciano (Si), 07/05/03

Sono una ragazza di soli 14 anni ed ho letto il libro "il deserto dei Tartari" sono rimasta davvero molto colpita !!!!!!!!! é un racconto che fa riflettere e mi ha fatto capire che quando un giorno guarderò il mio passato, da vero spettatore spero di non ritrovarmi come Giovanni Drogo, ma spero con tutta me stessa aver creato un film da Oscar 


Anonimo, 17/03/03

Ho letto questo libro mentre, studente di ingegneria, passavo il mio tempo chiuso a studiare nella mia cameretta a Bologna, la mia Fortezza Bastiani, perso dietro i miei Tartari, la laurea e un "futuro" interessante. Ho quindi per questo libro un affetto particolare. Oggi, a più di 15 anni di distanza, non ho ancora capito quale sia il messaggio più vero che questo libro porta con sé, anche al di là delle intenzioni dell'autore. "Non sprecare la vita dietro un obiettivo che ti richiede di tralasciare tutto il resto", oppure "Nessun sogno merita un sacrificio e una dedizione totali", oppure ancora "Non si può stare senza un sogno che dura una vita". Forse nessuno di questi o forse tutti insieme. E' questa ineffabilità che oggi, a distanza di anni, ancora mi appassiona e mi fa rileggere il "Deserto dei Tartari" alla speranza di coglierne il significato


Massimo Zanardi, Firenze, 13/01/03

Ho letto il libro a 16 anni su ordine di una professoressa durante le vacanze.Lo mollai dopo un po',mi annoiava.A quell'età non poteva dirmi nulla,c'era troppo tempo,c'era troppo davanti a me e quasi niente dietro per poter capire di cosa stava parlando Buzzati.Ho riletto il deserto dei Tartari a trentanni e l'ho trovato un libro bellissimo,uno dei più belli della letteratura italiana del dopoguerra.Al di là della grandezza di Buzzati come scrittore,della perfezione della sua prosa e della sapiente organizazzione narrativa,in quest'opera emerge tutta la sua ironia e la sua amarezza sulla vita e sul tempo in particolare.Il trascorrere degli anni,lo sciupare dei giorni in attesa di qualcosa,spesso qualsiasi cosa sia.Com'è facile ritrovarsi a un certo punto e voltarsi indietro trovando solo un cumolo di cifre,di tempo passato,di azioni fatte.Siamo invecchiati,é tutto qui,ma non é tutto qui.


Marco Pini, Italia, 14/01/03

Metafora della vita, della continua attesa di qualcosa. Illusione di poter riscattare tutto con qualche minuto da eroe; E' la trasposizione reale di quello in cui gli uomini spesso si sentono prigionieri,la fortezza Bastiani Ë la metafora della prigione che ci costruiamo all'interno di noi stessi. Libro unico,reale,vero,in cui l'autore cerca di scavare nel profondo della coscenza. Forse pochi sanno che l'idea di questo libro nacque nelle notti passate da Buzzati al corriere della sera, ore uguali e ripetitive in cui la vita sembrava essere in continua attesa di un evento. Attraverso il dramma interiore di Giovanni Drogo si intuisce la fragilità delle situazioni,si entra in un mondo reale, in cui ognuno di noi spesso senza accorgersene può finire.Il mondo delle attese, delle paura di uscire dalle abitudini per provare a vivere ogni attimo. E il tempo é l'elemento più vivo nel romanzo di Buzzati,corre lento ripetendo gli stessi eventi, portando alla noia e alla malinconia evocata dal ripetersi senza scossoni delle vite. E l'attesa é la contrapposizione surreale al tempo,l'ago della bilancia di questo romanzo. E' un romanzo dove ognuno di noi può imparare molto, e forse riuscire a non entrare mai in nessuna fortezza. Forse Ë questa la segreta speranza che Buzzati aveva quando scrisse il romanzo.


Matteo Salvi (salvis.house@tin.it), Brescia, 15 gennaio 2003

Dopo aver letto l'opera redatta da Dino Buzzati,"Il deserto dei Tartari",non posso far altro che affermare quanto questo libro mi abbia colpito e quanto mi abbia fatto riflettere.Credo che durante la lettura di quest'affascinante scritto non si possa non guardarsi dentro e non capire quanto ognuno di noi sia schiavo delle proprie abitudini quotidiane tanto da non poter vivere senza di esse.A mio parere la figura del tenente Drogo é simbolica ed éun monito a non sprecare la propria vita aspettando qualcosa che non verrà.


Tommaso Venturelli, Verona, 04.07.2001

Bel libro quello di Buzzati, anche se penso che parli molto, fin troppo spesso della morte: cosa assai importante, ma non del tutto fondamentale.Anche in "Barnabo delle montagne" e "60 racconti" la costituente principale è la visione della morte rispetto alla vita e ai piaceri di questa, è insomma una visione del tutto filosofica.


Gabriele S. (cqgjs@tin.it) Treviso, 16.03.2001

Parlare di Dino Buzzati non è cosa facile. Prima di tutto perchè non solo è uno scrittore profondo e sincero, ma anche un abile pittore, poeta, sceneggiatore di teatro, giornalista, compositore di musica. Si dice che a Milano, nella casa di Buzzati in viale Vittorio Veneto, ci sia una cassapanca piena di quaderni e diari ricchi di appunti, riflessioni, disegni. Chi ha avuto la fortuna di conoscere il Buzzati giornalista, scrittore o critico d'arte aveva davanti a sè un uomo disponibile, umile e perfino timido, all'apparenza un po' infantile. C'era quindi da meravigliarsi quando poi si scopriva che non solo Buzzati era considerato all'estero uno dei più grandi interpreti della coscienza dell'uomo contemporaneo, ma veniva reputato un maestro del racconto italiano.«Chi ha fatto il nome di Kafka a proposito del Deserto dei Tartari, merita di essere perdonato se non conosceva il precedente romanzo Bàrnabo delle montagne che svolge press'a poco lo stesso tema (la grandezza e la dignità della vita in solitudine), e che presenta il primo personaggio veramente originale di Buzzati: una cornacchia...». Parola di Montale.




http://www.italialibri.net - email: - Ultima revisione Mer, 26 lug 2006

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