Luigi Pirandello, Enrico IV
a cura di Roberto Alonge
Oscar Mondadori, Milano 1993
235 pp., Lire 12.000, Euro 6,20
Luigi Pirandello, Enrico IV,
a cura di G. Davico Bonino
Einaudi, Torino 1993
XIV-70 pp., £ 12.000/euro 6,20
Enrico IV è la recita di una recita. Finzione di una finzione, forse per questo appare così autentica. Enrico, il personaggio della tragedia, mette in scena sul palco il perpetuarsi di una situazione storica imbarazzante: lumiliazione del ventiseienne imperatore di Baviera, costretto a unestenuante attesa, nellinverno del 1077, fuori dalle mura di Canossa, mentre Matilde di Toscana, nel ruolo inevitabilmente ambiguo del negoziatore, si adopera presso il Papa Gregorio VII, per ricucire lo strappo fra Chiesa e Impero. Questo dramma, che nella realtà storica si consumò in due giorni, nella tragedia pirandelliana dura ventanni. Potenza della nevrosi.
«Circa ventanni addietro, alcuni giovani signori e signore dellaristocrazia pensarono di fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una cavalcata in costume in una villa patrizia: ciascuno di quei signori sera scelto un personaggio storico, re o principe, da figurare con la sua dama accanto, regina o principessa, sul cavallo bardato secondo i costumi dellepoca. Uno di questi signori sera scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile, sera dato la pena e il tormento dun studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva per circa un mese ossessionato». Con queste parole Luigi Pirandello, in una lettera del 1921, presentava lantefatto della nuova tragedia che stava scrivendo al grande Ruggero Ruggeri, linterprete che desiderava, e che ottenne, nel ruolo principale.
Nel corso della cavalcata Enrico, che monta accanto alla bella ma frivola Matilde, di cui è innamorato, cade da cavallo, rimanendo intrappolato nel ruolo che sta impersonando.
Rinchiuso in un esilio dorato dalla sorella, insieme a quattro servitori che si prestano al giuoco nel ruolo di consiglieri segreti, luomo porta avanti la bizzarra rappresentazione che, con il tempo, assume i tratti di una normale quotidianità.
Passano ventanni e la sorella di Enrico, che non si è mai capacitata della pazzia del fratello, sul letto di morte richiede che gli amici rappresentino ancora una volta la scena, per mettere il malato, con uno stratagemma, di fronte al tempo trascorso, in un estremo tentativo di strapparlo alla follia.
Questo è il piano che i cinque personaggi hanno in mente quando si portano alla villa dove è rinchiuso Enrico: Matilde, ormai donna matura; sua figlia Frida, immagine vivente della Matilde di un tempo, Carlo Di Nolli, figlio della sorella di Enrico e fidanzato di Frida; Tito Belcredi, allora rivale di Enrico e oggi amante di Matilde; ultimo viene il medico «alienista», a cui spetta la supervision "scientifica" dell'operazione.
Nel primo atto, al cospetto di Enrico, Matilde, Belcredi e il medico, travestiti in abiti storici, subiscono la conversazione di Enrico che, pur discorrendo di vicende riguardanti un ambito di 850 anni addietro, li confonde con lattualità ambigua delle sue affermazioni.
Una parte del secondo atto è passata così dal gruppo a interpretare e cercare contraddizioni e conferme nelle tranquille parole del malato. Ma il fuoco cova sotto la cenere. Congedati temporaneamente i suoi ospiti, il furore di Enrico espode: «Buffoni! Buffoni! Buffoni!». Il principe svela ai servitori allibiti la verità. «Non capisci? non vedi come li paro, come li concio, come me li faccio comparire davanti? Buffoni spaventati». E con la verità, affiora la sua stramba filosofia: «Dovevate sapervelo fare da voi linganno; non per rappresentarlo davanti a me, davanti a chi viene qua in visita di tanto in tanto; ma così, per come siete naturalmente, tutti i giorni, davanti a nessuno, [...] Per quanto orrendi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: [...] il piacere, il piacere della storia, insomma, che è così grande!».
Nel terzo atto, la resa dei conti.
La grandezza di Pirandello è anche quella di aver messo in scena lalienazione in un tempo in cui (1922) la psicanalisi è ancora scienza in fasce, un po' come Italo Svevo di lì a poco farà con il suo Zeno (1923).
Enrico è unalienato, messo al margine della società dei suoi simili, di cui subisce la diversità. La sua colpa è quella di affrontare la vita con troppa serietà e pretendere di essere preso sul serio da chi serio non vuole essere, come testimoniano le parole di Matilde, che nel primo atto afferma: «Risi di lui. Con rimorso, anzi con vero dispetto contro me stessa, poi perchè vidi che il mio riso si confondeva con quello degli altri - sciocchi - che si facevano beffe di lui».
Lerrore è quello di credere veramente che la «società» consista in un giuoco cooperativo volto a edificare e a sviluppare opere e civiltà. Piuttosto essa appare più spesso un giuoco antagonista, in cui i mediocri, che sono i più, alleano le loro insufficienti forze per ostacolare chi, considerato capace, rispecchia la loro mediocrità. «Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare».
La tragedia pirandelliana è stata presa a simbolo della campagna che ha portato, in Italia, alla controversa legge 180 detta «Basaglia», dallo psichiatra che la patrocinò,: alla chiusura dei manicomi e alla reintegrazione forzata dei malati psichici nella società. Al contrario, la riforma ebbe nello scrittore e psichiatra Mario Tobino un deciso oppositore, come velatamente traspare anche dalle pagine del suo Per le antiche scale.
Il personaggio di Enrico è stato visto per lo più come un personaggio positivo, che scieglie di autoemarginarsi, piuttosto che integrarsi in una società conformista; ma non mancano i critici che vedono in Enrico «la dimensione di rinuncia, di autorepressione, di rifiuto della vita e del sesso, in una parola di pulsione di morte». Il curatore delledizione Mondadori del 1993, Roberto Alonge, sembra pensarla così, quando cita: «Enrico è impazzito non per aver perduto la donna, ma per non dover affrontare il rischio di conquistarla e di averla» (Gioanola).
Lamore di Enrico per Matilde è strumentale. Egli vede il matrimonio come il passaporto, se non per la normalità, almeno per la conformità. Matilde però esita, non perchè non lo ricambi o non lo stimi, ma perchè non è disposta ad affrontare il rischio di avvallare le «qualità» di lui contro tutti gli altri, che lo chiamavano pazzo anche prima che lo fosse, contro Belcredi, che punse il suo cavallo per farlo imbizzarrire e che nel finale catartico viene punto a sua volta, trafitto senza speranza (il grido finale di Matilde non lascia adito a dubbi), lui, «spadaccino temutissimo», dalla spada acuta e vendicativa della follia, nella quale Enrico si rifugia poi definitivamente.
04 Dicembre 2000
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