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La famosa invasione degli orsi in Sicilia (1945)



Dino Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia
Mondadori, 2001
pp.75, Euro 6,20

uzzati scrisse La famosa invasione degli orsi in Sicilia nel 1945, cinque anni dopo aver pubblicato Il deserto dei tartari. Le due opere, pur appartenendo a generi letterari totalmente differenti, non si sottraggono ad un reciproco parallelo contenutistico. La prima è una fiaba, che del racconto fantastico non sembra avere tutta l’ingenuità; il secondo è un romanzo, in cui Buzzati spesso e volentieri narra vicende tratte da un iperuranio fantastico. In entrambi i testi, tuttavia, è ripreso il tema del «fuggire del tempo» e dell’imprigionamento entro l’attesa di un evento spettacolare ed utopico. Nessuna netta cesura, dunque, tra i due volumi in cui altri sfondi comuni sono la morte in battaglia e la lotta spirituale e morale.

Sbagliarono, allora, quei critici che ricercarono la fonte della fervida immaginazione dell’autore esclusivamente in motivi esterni allo stesso e nell’attaccamento, per essere più precisi, alla nobile eredità di riferimento: Poe, Camus, e soprattutto Kafka. Le cause, infatti, erano da investigarsi nell’interiorità di Buzzati e nella sua fuga dalla realtà intesa sia come evasione dall’attuale (allora rappresentato dalla guerra mondiale e dal fascismo), che come diserzione dal reale in sé e per sé.

Il Buzzati scrittore fu assillato da varie preoccupazioni, prima fra tutte quella di «non rompere l’anima al lettore». Ma la sua inquietudine si riflesse in ulteriori smanie narrative: attraverso i suoi scritti desiderava “commuovere” e “divertire”, distrarre ed emozionare.

La copertina del libro che racchiude la fiaba fu illustrata dallo stesso Buzzati (giornalista e pittore, oltre che scrittore) e raffigura una sorta di “orsopoli” con tanto di navi, draghi e treni. Da qui, atteggiandosi a sommo demiurgo, Buzzati ci accompagna lentamente entro un mare di pura fantasia in cui nuotano maghi, gatti che parlano e cinghiali volanti. Non c’è da spaventarsi – anche se l’avvertimento andrebbe fatto più agli adulti, che ai bambini – della scelta di rendere protagonisti non gli uomini, ma gli animali. E’ necessario, tuttavia, a meno che non si sia, oltre che infanti, fantini in sella ad un sogno, mettere in atto quella che Coleridge definiva «sospensione dell’incredulità»: fingere «senza batter ciglia», che sia veramente accaduto ciò che non vedremo mai accadere nella realtà.

Il Re Leonzio, capostipite di un folto gruppo di orsi, dopo il rapimento del figlioletto Tonio, comincia le ricerche dello stesso ed entra in guerra con il Granduca di Sicilia. La vittoria finale insedia Leonzio sul trono di un regno stravagante e già estinto, mentre gli orsi degenerano nell’assimilazione dei vizi umani e nella loro messa in pratica. E così, prima di chiudere il sipario e gustare la dolcezza del lieto fine, Buzzati fa parlare il Re Leonzio che, dal suo capezzale, lancia un appello agli orsi, un monito ai lettori: «Lasciate questa città dove avete trovato la ricchezza, ma non la pace dell’animo. Toglietevi di dosso quei ridicoli vestiti. Buttate via l’oro. Gettate i cannoni, i fucili e tutte le altre diavolerie che gli uomini vi hanno insegnato. Tornate quelli che eravate prima. Come si viveva felici in quelle erme spelonche aperte ai venti, altro che in questi malinconici palazzi pieni di scarafaggi e di polvere!».

Uno spasso le incoraggianti pagine iniziali che fanno subito pensare alla messa in scena di una sorta di “teatrino delle marionette”. Da esperto burattinaio, l’autore propone con rapida precisione alcuni flash della vicenda, nella prospettiva sia dell’ambientazione della stessa, che dei personaggi che la animeranno. E lo fa in un modo che spinge ad annusare, senza assaggiare, a guardare, senza toccare, usando una tattica che è insieme innocente e accattivante.

Nell’esprimersi e nel raccontare Buzzati dà la preferenza ad uno stile linguistico semplice e di pratica fruizione. Una prosa che falcidia la polisemia del messaggio ultimo. Una scelta coraggiosa, soprattutto se riconnessa all’accusa spesso rivoltagli, di schematismo e ripetitività. E la favola, qui come in altri casi, ha la struttura del girotondo in cui, dopo peripezie e involuzioni esistenziali, il punto d’arrivo coincide con il punto di partenza. Dalla semplicità, al mito edonista del materialismo, alla semplicità ancora e ancora.

E dunque s’inganna chi crede che le favole siano letture destinate ad un pubblico bambino: esse sono piuttosto un sistema alternativo di comunicare la verità. Un rassicurante anticonformismo per saggiare la vita e spiegarla a tutti.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 15 dicembre 2001
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