Italo Calvino, Fiabe italiane
Oscar Mondadori, Milano 1993
263 pp., £ 14.000 /euro 7,23
talo Calvino curò questa raccolta di fiabe, provenienti dalle diverse tradizioni regionali dItalia, nella metà degli anni Cinquanta. Un paziente e rigoroso lavoro di collezione e classificazione, che tenne impegnato lo scrittore per ben due anni. Il suo interesse per la fiaba è infatti alieno da qualsiasi atteggiamento nostalgico; possiamo forse avvertire una sfumatura di intima soddisfazione quando Calvino, nellintroduzione allopera, afferma che il genere fiaba «tra gli scrittori e i poeti non conobbe da noi la voga romantica che percorse lEuropa da Tieck a Puskin».
Rimase invece appannaggio completo della cosiddetta letteratura per linfanzia, risvegliando lattenzione di letterati e studiosi quasi esclusivamente per motivi di carattere sociologico o etnografico, come nel caso delle raccolte di Pitrè, dellImbriani o del Comparetti, collettori e testimoni di un patrimonio ricchissimo, per quanto segnato da stilemi comuni e motivi ricorrenti, come è tipico di tutte le tradizioni orali.
E Calvino, cultore dellordine e dellesattezza anche in letteratura, non esita a dichiarare il proprio disagio nellaffrontare una materia così magmatica e, per così dire, istintiva, apparentemente priva di schemi e regole compositive: «io mimmergevo in questo mondo sottomarino disarmato dogni fiocina specialistica, sprovvisto docchiali dottrinari, neanche munito di quella bombola dossigeno che è lentusiasmo che oggi molto si respira per ogni cosa spontanea e primitiva, per ogni rivelazione di quello che con unespressione gramsciana fin troppo fortunata si chiama oggi mondo subalterno; bensì esposto a tutti i malesseri che comunica un elemento quasi informe, mai fino in fondo dominato coscientemente come quello della pigra e passiva tradizione orale».
La reazione a queste peculiari difficoltà è la prima che ci si potrebbe aspettare dallautore de Le città invisibili e di Se una notte dinverno un viaggiatore: quanto più confuso e ingarbugliato è loggetto del proprio lavoro, tanto più cristallino e tagliente si fa lo sguardo critico dello scrittore, che si pone come obiettivo quello di far affiorare dal caos eterogeneo di racconti, episodi, personaggi, temi e motivi, un libro con una sua coerenza, con una sua ragione di esistere che vada al di là della pura e semplice nota di colore folcloristico; e, nello stesso tempo, consapevole della «infinita varietà ed infinita ripetizione» delle storie riportate, il rispetto e la conservazione delle differenze, quelle variazioni di tono che fanno di un semplice canovaccio narrativo lespressione di una certa realtà storica e sociale, «il diverso che proviene dal modo di raccontare del luogo e dallaccento personale del narratore orale».
Una duplice finalità, dunque, come del resto duplice può essere considerata lintera vocazione letteraria di Calvino, sempre sospesa tra complessità irrisolta e tensione allesatto, alla semplificazione geometrica; e se da un lato Calvino, memore degli studi di Propp sulla fiaba popolare russa, si fa prendere da «una smania, una fame, uninsaziabilità di versioni e di varianti, una febbre comparatistica e classificatoria», per cui motivi, episodi e personaggi diventano le componenti asettiche di un certo meccanismo narrativo che si ripete in luoghi e tempi diversi, dallaltro cresce e si rafforza in lui la convinzione che «le fiabe sono vere», perché costituiscono una «spiegazione generale della vita» e «sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna».
Esse rappresentano la voce, forse impersonale, ma proprio per questo tanto più autentica, di unesistenza primaria, immediata, totale nei suoi entusiasmi così come nelle sue paure, nei suoi illogici innamoramenti così come negli odii più profondi ed inspiegabili; unesistenza, a ben guardare, assai simile a quella di ciascuno di noi negli anni, più o meno lontani, più o meno rimpianti, della nostra infanzia.
A cura della Redazione Virtuale
12 luglio 2001
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