UN FULMINE SUL 220, NELLA RICOSTRUZIONE DI DANTE ISELLA SU CARTE E QUADERNI AUTOGRAFI DI CARLO EMILIO GADDA

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Un fulmine sul 220 (1931)

(ROMAN)

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Carlo Emilio Gadda, Un fulmine sul 220
A cura di Dante Isella
Garzanti Libri, 2000
Narratori moderni, 330 p.
Euro 16,53

e tutto è ragione a 'sto mondo, e se ogni fatto deve avere la sua causa, dove cercarla, dove cercarla per un fatto simile? Sono cose, che fanno dubitare della Divina Provvidenza! Ma no, no, Vergine Santa, è impossibile, bisogna proprio diventar matti.

Già Paul Valéry aveva pensato con acume al fatto che ogni artista cristallizza forme sempre suscettibili di correzioni, di morti e rinascite per altri avventurosi inveramenti: ogni opera, dunque, come “variazione” su un tema mai del tutto esauribile. E Picasso, drastico e lucido come sempre, diceva che mai un quadro è “finito” ma sempre solo “interrotto”.

La vita è tenuta a essere il disegno, per quanto arabescato, d’una sola linea, e la latenza delle cose non vissute resta un enigma pulsante ma poco o niente percorribile: ferita nella memoria chissà poi se svanente, o fedele come un rimorso. L’arte permette invece eterni ritorni sul già fatto per riplasmare le forme raggiunte, le quali — fosse anche la Gioconda o l’Orlando furioso — sono per l’autore sempre crocevia di altri percorsi, alvei gravidi di migliorìe potenzialmente non meno che infinite.

Così, quasi mai siamo rassicurati da opere che abbiano la costanza perfetta che vorremmo anche per amori e giovinezza, e la loro forma finale è spesso poco più d’una una convenzione: ci turbiamo per Didone sapendo che Virgilio morente avrebbe bruciato esametri per lui tanto incorreggibili quanto per noi perfetti, o leggiamo Petrarca coscienti che lavorò fino alla fine al Canzoniere come fosse un caleidoscopio infinito. — Né si va sempre verso il meglio: gli scrupoli di Tasso e di Manzoni arrivarono fino allo scempio o al ripudio dei loro capolavori: eppure leggiamo anche quelli.

Il caso di Michelangelo è, rispetto a Gadda, forse il più adatto per capire qualcosa, poiché Buonarroti causò tali sconcerti con i suoi geniali non finiti, che questi sarebbero stati levigati da un “finitore” catastroficamente coscienzioso, se il Fato non avesse provvidenzialmente risucchiato quest’ultimo nell’inoffensivo regno dei più.

Anche il non finito di Gadda è stato infatti spesso una scelta deliberata e inequivocabile: così, il meraviglioso Pasticciaccio è un giallo — come accade quasi sempre nella realtà — senza soluzione, e la Cognizione del dolore fu assemblata dall’editore in forma di romanzo, nella quasi avulsa condiscendenza dell’autore al lavoro di un filologo fedele.

Un fulmine sul 220 è invece lo splendido resto d’un romanzo abbandonato, da cui, 12 anni dopo, sarebbero stati ricavati i “quadri milanesi” dell’Adalgisa. — In una delle pagine finali si vedrà che Gadda aveva ridotto la storia di morte e di adulterio che aveva in mente alla linea semplice d’una parabola: come fosse un Balzac. Ma «è come quando una donna si mette a partorire e le nascono tre figlie invece di uno.» Così il personaggio, all’inizio secondario, di Adalgisa — invenzione tra le sublimi del ‘900 — esplode in tutta la sua carnosa irruenza, scompaginando i piani, sbilanciando la storia verso il centro del suo risentimento sanguigno, popolare, scrupoloso e iracondo.

Il prezzo, nel momento in cui Gadda abbandonò per Adalgisa la sua balzachiana “parabola”, fu il sacrificio di Elsa — che qui recuperiamo! —, resa viva e palpitante con una tale finezza, con una tale pietosa erotica complicità, da lasciare senza fiato: lo stesso sguardo che verrà soffuso sulla Liliana Balducci del Pasticciaccio — da far pensare al Tolstoj della Karenina…

Rispetto al palpito dubbioso della vita che cerca se stessa, la letteratura non gioca, ma è (Gadda lo scrisse di Shakespeare) conoscenza. Non meno che a questo convergono i doni d’uno scrittore che come nessuno fu il precipitato perfetto e sorprendente d’una tradizione letteraria tra le supreme (Dante, Compagni, Villani, Leonardo, Machiavelli, Guicciardini, Cellini, Ariosto, Manzoni, Porta, Belli …).

Niente di più “attuale” di tanta ricchezza, che Gadda manipola al contrario dello scrittore-dio che olimpico e ottocentesco “plana” dall’alto in ogni anfratto d’un mondo sovrastato. — Quella di chi scrive è l’anima più ferita e sfrangiata dalla catastrofe perenne del tempo e del caso: perché altrimenti ostinarsi a descrivere? — ma poi per quale impossibile riparazione?, dato che non si potrà dare che il resoconto umorale e tendenzioso di quest’ingorgo tra un mondo e un “io” a sua volta del tutto instabile, umorale, sfuggente, sarcastico, sorpreso — Gadda avrebbe detto “spastico”?…

Le parole stesse e le frasi, come per il suo Leibniz letto e riletto, sono «définitios nominales provisionnelles» che azzardano disegni incompibili della sempre in corsa «connexion universelle des choses» … Ma se tutto è connesso a tutto — tornando a Un fulmine sul 220 — l’amore di Elsa ha i suoi fili invisibili a legarlo al resto del cosmo: dai cieli stellati alle cacche dei cani, dai nasi laboriosamente smoccolati dei bimbi al vento leopardiano che passa tra gli alberi nella sera: e non c’è più “ideologia” o “poetica” che possa scindere il sublime della tragedia dall’umile del resto delle cose.

Il pathos è ovunque. E il celebre irresistibile registro comico, che dunque non è mai solo, traveste da Secchie Rapite i drammi essenziali dell’esistere e del conoscere.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 18 marzo 2003
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