Italo Calvino, I nostri antenati
Mondadori, Oscar Grandi Classici, Milano 1996
422 pp., Euro 10,33
a trilogia di Italo Calvino I Nostri Antenati è una lettura degli anni di gioventù il cui ricordo si era perso nel passar del tempo insieme alla massa enorme delle nostre dimenticanze. Oggi si dice in Italia che Calvino sia se non il maggiore almeno uno fra i maggiori letterati italiani della seconda metà del ventesimo secolo. Una rilettura delle sue opere, a cominciare da questi tre smilzi romanzi, può o non può dirci se il giudizio dei posteri è meritatamente giusto o ancora affrettato?
Non è facile giudicare uno scrittore complesso e mutevole come Italo Calvino. Ci fu chi sin dallinizio della sua carriera di scrittore gridò al miracolo, al fenomeno letterario. Altri, forse meno attrezzati intellettualmente, rimasero freddi e lo dimenticarono subito, appena terminata la lettura di libri che erano stati portati alla ribalta dalla moda del momento. Altri ancora, in genere appartenenti alla generazione che alla fine degli anni sessanta aveva ventanni, si appassionarono alla scoperta delle sue varie opere, anche se ad un certo momento alcuni non riuscirono a valicare lostacolo maggiore della lettura di Le Cosmocomiche, libro impervio e intellettualizzante di non facile assimilazione.
Diceva Italo Calvino di essere approdato allinverosimiglianza ed alla fantasia di cui sono tessuti i tre romanzi de I Nostri Antenati dopo aver scritto racconti neorealisti, storie successe ad altri o che immaginava fossero successe o potessero succedere ad altri.
«Questi altri - dice Calvino stesso - erano gente come si dice del popolo, ma sempre un po degli irregolari, comunque persone curiose, che fosse possibile rappresentare solo dalla parole che dicono e dai gesti che fanno senza perdersi oltre dietro ai pensieri e ai sentimenti. Scrivevo svelto, a frasette brevi. Quello che mi interessava era rendere un certo slancio, un certo piglio»
Scritti nel corso di un decennio e pubblicati separatamente, i tre romanzi brevi, Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959), sono stati riuniti nel 1960 nel volume I nostri antenati. Questa trilogia vuole essere un allegorico ritratto in divenire delluomo, o meglio dellintellettuale, contemporaneo: unironica fiabesca divertente e divertita metafora dei limiti, dei condizionamenti e delle possibilità della ragione umana di conoscere e commisurarsi alla realtà storica e sociale.
In tutti e tre i romanzi la narrazione è affidata ad un narratore interno, diretto testimone o protagonista secondario della vicenda: il nipote del visconte ne Il visconte dimezzato, il fratello del barone ne Il barone rampante e la monaca Teodora, che alla fine sidentifica con il personaggio di Bradamante, ne Il cavaliere inesistente. Celandosi dietro la mediazione di narratori fittizi, così da poter osservare dallesterno le vicende dei personaggi, Calvino proietta in un lontano e fantastico passato (rispettivamente la fine del Seicento, il Settecento e lepoca di Carlo Magno) i modelli di comportamento umano e intellettuale che agiscono nella società contemporanea. Per lappunto, nelle figure dei tre protagonisti - nel visconte Medardo di Terralba, diviso letteralmente a metà in seguito ad uno scontro con i Turchi, nel barone ligure Cosimo Piovasco di Rondò, vissuto tutta la vita sugli alberi, ed infine nel cavaliere Agilulfo di cui esiste solo larmatura - si possono riconoscere «i nostri antenati».
Nella favola allegorica, Il visconte dimezzato, il dimezzato visconte Medardo di Terralba capisce e conosce cose che «da intero uno non osa credere», per poi ritornare «in questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui» nuovamente intero, con «lesperienza delluna e dellaltra metà rifuse insieme», «né cattivo né buono». Sia per il Gramo sia per il Buono il dimezzamento diviene una possibilità di conoscere più lucidamente il mondo, per poter poi giungere alla fine ad una riunificazione, ossia ad una superiore consapevolezza basata sulla somma della duplice esperienza.
Il barone rampante, libro che sfugge ad ogni definizione precisa (propriamente né conte philosophique né romanzo storico), è una bellissima, ironica e per nulla moralistica «parabola» della ragione utopica, ossia di un modello di ragione che, pur non riuscendo a modificare la realtà, rimane strumento rigoroso per conoscere il mondo.
La vicenda del barone Cosimo Piovasco di Rondò che trascorre tutta la sua esistenza sugli alberi, vivendo un rapporto distante e separato dalla realtà storica e sociale, si fa metafora ed immagine dellilluminista e dellintellettuale in genere che partecipa, sì, alla storia e alla vita associata, ma conservando fino in fondo nei loro confronti un ironico distacco.
Infine, nel racconto epico-cavalleresco, Il cavaliere inesistente, la vicenda di Agilulfo, cavaliere privo di corpo che nella sua vuota armatura con la sola forza di volontà combatte nellesercito di Carlo Magno, è la chiara immagine della razionalità pura e astratta che fallisce non riuscendo a commisurarsi e ad adeguarsi alla realtà.
In questultimo romanzo la riflessione critica di Calvino sul ruolo dellintellettuale nella società si fa senza dubbio più pessimista, ma al tempo stesso si sposta verso la funzione dello scrittore nellambito della finzione narrativa. La voce narrante, Suor Teodora, svelando progressivamente la sua identità, dedica via via sempre più spazio alla riflessione sui rapporti tra scrittura e vita. E il finale del racconto (la fuga a cavallo di Suor Teodora-Bradamante con Rambaldo) sembra voler esprimere unironica fiducia sulle possibilità e potenzialità della letteratura di dar vita a passioni e desideri, di ricostruire il senso dellesperienza umana.
01 novembre 2000
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Questi gli inizi di Calvino, con Il sentiero dei nidi di ragno - ed altri romanzi che però rimasero manoscritti perché nellautore, anche se portato alle stelle dalla critica, incominciava a farsi strada un sordo scontento di sé. Egli si rendeva conto probabilmente che il neorealismo del dopoguerra non bastava più ad esprimere i mutamenti e gli sviluppi della situazione sociale italiana e non trovava ancora il bandolo che gli avrebbe permesso di dipanare la matassa della nuova realtà.
Così, quasi per scherzo, quasi per gioco, Calvino comincia a scrivere Il visconte dimezzato (1952) che racconta le fantastiche avventure di Medardo di Terralba, che una cannonata turca divise a metà.
«Dimidiato, mutilato, nemico a se stesso è luomo contemporaneo - scrive Calvino raccontando la genesi di questo romanzo - Marx lo disse alienato, Freud represso, uno stato di antica armonia è perduto, si aspira ad una nuova completezza. Il nocciolo ideologico-morale che volevo dare alla storia era questo. Ma più che lavorare ad approfondirlo sul piano filosofico, ho badato a dare al racconto uno scheletro che funzionasse come un ben connesso meccanismo e carne e sangue di libere associazioni dimmaginazione lirica».
Importante nel romanzo è il personaggio di Mastro Pietrochiodo carpentiere, perché forse meglio di Medardo stesso, il dimezzato visconte, è l'esempio fatto uomo delle ottime disposizioni che danno pessimi risultati. Pietrochiodo fabbrica forche e strumenti di tortura per ordine del visconte. A lui dispiace, certo, poiché è uomo di bene, che gli oggetti da lui fabbricati servano poi a fare soffrire la gente, ma la passione che ha per il suo lavoro è tale che non sa smettere di progettare e costruire attrezzi sempre più feroci, dolorosi, complicati e tecnicamente perfetti. Il suo entusiasmo è lo stesso di coloro che si rallegrarono quando seppero di aver finalmente realizzato la bomba atomica, persone per cui gli effetti devastanti della loro invenzione, anche se perfettamente certi e chiari, erano solo un dato sulla carta.
Qualche anno più tardi, verso il 1956, Calvino si accinge a scrivere unaltra storia della stessa vena, Il barone rampante (1957), il più poetico e ricco dei romanzi della trilogia.
«Anche qui, dice Calvino, la data di composizione illumina sullo stato danimo. È unepoca di ripensamento del ruolo che possiamo avere nel movimento storico, mentre nuove speranze e nuove amarezze si alternano. Nonostante tutto i tempi portano verso il meglio; si tratta di trovare il giusto rapporto tra la coscienza individuale e il corso della storia».
Il barone rampante è luomo nel suo compimento, luomo che rifiuta larbitrario e la tirannia, che si separa dal mondo ma che paradossalmente continua a vivere in contatto con gli uomini, attento alle loro opere e ai loro dolori. Nella trilogia il romanzo conclude il gruppo dei tre, ma nella cronologia storica della composizione fu scritto dopo Il visconte dimezzato.
Il cavaliere inesistente (1959), ultimo romanzo, cronologicamente parlando, della trilogia di Calvino, è il più elaborato, il più strutturato, il più cerebrale dei tre. Se scrivendo i primi due Calvino si era lasciato trasportare spesso dalla sua vena poetica - come possiamo constatare dalla descrizione lirica della bellezza di un albero visto dallinterno - nel Cavaliere inesistente egli pensa, dispone personaggi comparse e situazioni come in una sceneggiatura che tenda a darci uno spettacolo a tema.
Ci imbattiamo quindi nel guerriero Agilulfo, nobile paladino senza paura e senza macchia, vestito di una candida armatura, un eroe che però non cè. Aprendo la visiera del suo elmo non si vede che una scura cavità metallica perfettamente vuota. Il personaggio così creato da Calvino è un prototipo comune, il simbolo di una verità umana: ci imbattiamo in lui ad ogni passo, e forse addirittura anche quando ci guardiamo allo specchio.
Dice Calvino: «Agilulfo, il guerriero che non cè, prese i lineamenti psicologici dun tipo umano molto diffuso in tutti gli ambienti della nostra società. Il mio lavoro con questo personaggio si presentò subito facile.»
Si tratta ovviamente di quel tipo di individuo che non esiste perché ormai non ha più né rapporti né contatti con levoluzione del mondo, e si accontenta semplicemente di funzionare secondo schemi e precetti predefiniti. Lidea si sviluppò lungamente nello spirito dello scrittore: unarmatura che cammina, combatte e adempie scrupolosamente ai compiti che gli vengono assegnati dalle regole e dagli ordini, ma che dentro è assolutamente vuota, un uomo automatico, insomma, una specie di robot che nel romanzo vive ai tempi di Carlomagno e dei suoi prodi paladini. Senza sentimenti, pareri o rivolte, il Cavaliere inesistente è il più complesso dei personaggi della trilogia, e certamente il meno facile da presentare in modo adeguato ad un lettore occasionale. Per palliare a questa sua immensa inesistenza, accanto ad Agilulfo che non esiste Calvino fa muoversi altri cavalieri di carne e di sangue, che con il loro carattere e la loro vitalità mettono in risalto il non-carattere del protagonista, da un lato, e il loro desiderio di affermarsi in quanto esseri umani dallaltro. Questi sono Rambaldo e Torrismondo, due cavalieri dei tempi andati che assomigliano come due gocce dacqua a certi giovani di oggi, sia nei loro dubbi che nelle loro certezze.
«Dalla formula Agilulfo (inesistenza munita di volontà e coscienza) - dice lo scrittore - ricavai con un procedimento di contrapposizione logica, (cioè partendo dallidea per arrivare allimmagine e non viceversa come faccio di solito) la formula esistenza priva di coscienza, ossia identificazione generale col mondo oggettivo: e feci lo scudiero Gurdulù. Questo personaggio non riuscì ad avere lautonomia psicologica del primo. E ciò è comprensibile, perché di prototipi di Agilulfo se ne incontrano dappertutto mentre i prototipi di Gurdulù si incontrano solo nei libri degli etnologi.
Questi personaggi, uno privo di individualità fisica, laltro dindividualità di coscienza, non potevano sviluppare una storia; erano semplicemente lenunciazione del tema che doveva essere svolto da altri personaggi, in cui lesserci e il non esserci lottassero allinterno della stessa persona.»
È evidente nello scrittore reduce dalla composizione dei primi due romanzi la volontà di scrivere una specie di corollario delle idee già esposte. Luomo in cui il bene e il male si fondono per creare la mediocrità, e che non esiste veramente che quando, diviso in due, è solo buono o solo perfido, nonché luomo che ha superato le contingenze e la sua dualità e sa quello che vuole, dovevano essere completati e definiti per contrasto dalluomo che non cè, dalluomo che non possiede neppure una sua mediocrità che gli permetterebbe di esistere. Però, nato come corollario, in realtà poi Il cavaliere inesistente assunse a poco a poco un suo carattere di prologo, non tanto per ragioni cronologiche - come diceva lautore stesso (essendo il cavaliere paladino di Carlomagno e gli altri due situati in epoche successive) - ma soprattutto perché la logica delle idee esigeva che dal nulla si arrivasse a "qualche cosa", ad uno spiraglio di ottimismo e di speranza.
«Siete padroni di interpretare come volete queste tre storie e non dovete sentirvi vincolati dalla deposizione che ora ho reso della loro genesi, scrive l'autore. Ho voluto farne una trilogia di esperienze sul come realizzarsi come esseri umani: ne Il Cavaliere inesistente la conquista dellessere, ne Il Visconte dimezzato laspirazione a una completezza al di la delle mutilazioni imposte dalla società, ne Il Barone rampante una via verso una completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà ad unautodeterminazione individuale: tre gradi dapprocio alla libertà. E nello stesso tempo ho voluto che fossero tre storie , come si dice, aperte, che innanzitutto stiano in piedi come storie, per la logica del succedersi delle loro immagini, ma che comincino la loro vera vita nellimprevedibile gioco dinterrogazioni e risposte suscitate nel lettore. Vorrei che potessero essere guardate come un albero genealogico degli antenati delluomo contemporaneo, in cui ogni volto cela qualche tratto delle persone intorno, di voi, di me stesso»
È appunto nella logica delle idee, che nella trilogia colloca i tre romanzi in una successione diversa da quella cronologica della creazione e li trasforma in parabola, non dico morale (il che non era mai stato nelle intenzioni di Calvino), ma certamente dagli indubbi connotati etici, che deve essere cercato il pensiero profondo dello scrittore. Seguendola giungiamo giustamente alla conclusione che il male nasce quando lessere umano diventa incapace di distinguere queste due forze ( il bene e il male) che coesistono il lui. Ma il "male" non è solo nellanimo delluomo: il "male" esiste anche nella società che lo circonda e secondo Calvino esso consiste nel rapporto negativo tra lindividuo e la società, o addirittura la fuga, la resa dellindividuo, il suo ritirarsi dinanzi alle responsabilità del vivere civile.
Inoltre, secondo Calvino, è "male" anche latteggiamento acritico dellindividuo dinanzi ai mali del mondo, è "male" il conformismo, che fa dellessere umano un semplice meccanismo passivo della società. Critica e anticonformismo quindi vanno al di là della nozione del "bene" quale è comunemente intesa, e coinvolgono sia la Famiglia (ne Il Barone rampante), che il Potere (nei tre romanzi) e la Società stessa.
Il "bene" è quindi laccordo tra lindividuo e la società che lo circonda, ma un accordo sottoposto a vaglio, una visione libera della realtà, non priva di ribellione, se necessario, e di innovazioni anticonformiste - quali quelle suggerite dal ritiro definitivo del Barone sugli alberi.
Il "bene" insomma non deve essere individuato nelle sdolcinature della parte "buona" del Visconte dimezzato, perché la bontà acritica raggiunge i limiti della dabbenaggine e della passività. Il bene deve essere accompagnato dalla coerenza e dal giudizio, dall"esserci". E questo ci porta al "male maggiore", denunciato allegoricamente da Calvino nella trilogia, lalienazione dellindividuo "nemico di sé stesso" e quindi di tutto. Per reagire allalienazione, allindifferenza, non resta alluomo moderno che la ricerca del "solo bene" che conti (secondo Calvino) e cioè dellinterezza e della libertà, uno stato dantica armonia perduta tra individuo e società, tra uomo e mondo.
Per riconoscere quali furono gli strumenti letterari usati da Calvino per staccarsi dal neorealismo degli inizi della sua carriera e trovare un linguaggio e delle forme stilistiche che fossero più consone al nuovo discorso che intendeva fare dobbiamo esaminare con attenzione la genesi psicologica dei romanzi. Siamo d'accordo con Elisabetta Mondello sul fatto che allora per Calvino non ci fosse già più «separatezza tra istanze letterarie e istanze politiche». La storia diventava quindi protagonista a tempo pieno, anche se egli scriveva di storia antica, poiché le vicende degli "antenati" erano di fatto una parabola per luomo moderno. Calvino, con le sue favole - o allegorie, o parabole - concedeva libertà assoluta alla fantasia, pur non tralasciando una amara visione delle cose e una grande volontà di comprensione. Nelle sue favole, nel fuoco dartificio della fantasia, Calvino introduceva continuamente motivi realistici, sociali, ideologici ed etici. Nello stesso tempo, per denunciare senza drammatizzare le varie forme del mal di vivere delluomo contemporaneo, inesistenza, dimezzamento e così via, egli ricorreva ampiamente allironia come a un'arma di difesa. Dobbiamo notare che gli orrori della guerra, i soprusi e le torture della pace, gli eccidi e i massacri, o semplicemente le beffe atroci di una sorella squilibrata (ne Il Barone rampante) sono sempre raccontati con tocco leggero e come indifferente, in un intento costante di alleviare la tensione per permettere al lettore di non soffermarsi sui fatti contingenti e di giungere, al di là dei medesimi, al senso profondo della parabola. Ma non fraintendiamo: leggerezza e ironia sono spesso la voce della disperazione .
Nella galleria dei personaggi della letteratura italiana le figure create da Calvino sono quindi più simboli e situazioni che personaggi veri, dotati di connotati fisici o psichici. Inesistenti, dimezzati, o ribelli e rampanti, i principali protagonisti della trilogia sono frutto del postulato stesso dei romanzi e svolgono il loro compito emblematico e allegorico senza diventare mai veramente delle persone. Non si può dire altrettanto per i personaggi accessori che - alleccezione di Gurdulù, simbolo anchesso - sono di carne e di sangue, si muovono ed agiscono in un contesto più vicino alla realtà. In realtà essi sono un unico ritratto, il nostro ritratto. Ritratto nel "male", come frattura fra luomo ed il mondo, e ritratto nel "bene", come interezza, integrazione e autodeterminazione.
11 marzo 2003
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