Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli
Edizioni Adelphi, Milano, 1994
Fabula, pp.176
Euro 13,43
ugenia, finalmente, un giorno si mise gli occhiali. Lo aveva sperato, desiderato, sognato a lungo, quel momento: «Mammà, oggi mi metto gli occhiali». Era troppo, troppo contenta. Una settimana prima, con la zia, era stata da un occhialaio di via Roma, e quando posò le lenti sul suo naso le sembrò di vedere per la prima volta, e pensò a quante belle cose ti offre il mondo: pullover colorati, vecchietti con la barba bianca, «negozi bellissimi, con le vetrine come specchi, piene di roba fina». Da quella volta il suo sogno di possedere un paio di occhiali si era fatto ancora più intenso: «aveva avuto una vera rivelazione: il mondo, fuori, era bello, bello assai» e lei fino ad allora era stata come avvolta in una nebbia. Intanto risuona la voce di zi Nunzia, martellante: «in casa nostra tutti occhi buoni teniamo, questa è una sventura che ci è capitata
insieme alle altre. Dio sopra la piaga mette il sale». Quegli occhiali, poi, costano la bellezza di «ottomila lire, vive vive!». Ma non temere, Eugenia, arriverà il tuo momento, arriverà il momento in cui potrai infilarti un paio di occhiali e tenerlo sul naso per sempre: e allora potrai vedere in tutti i particolari «il mondo fatto da Dio, col vento, il sole, e laggiù il mare pulito, grande» e rivedere Posillipo, se vorrai, piccola terra dal nome che tanto ti incanta.
«Mammà! Gli occhiali!», eccoli, finalmente, gli occhiali. «Eugenia, sempre tenendosi gli occhiali con le mani, andò fino al portone, per guardare fuori, nel vicolo della Cupa. Le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia». Unimpressione completamente diversa da quella provata qualche giorno prima davanti allocchialaio di via Roma, unimpressione terribile le fece il mondo, che poi era un cortile pieno di balconi e di carretti con la verdura e «gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno allAddolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione». Mariuccia si accorse che la bambina stava male e le strappò in fretta gli occhiali, «perché Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava».
Finisce così il racconto che apre Il mare non bagna Napoli (1953), opera tra le più celebri di Anna Maria Ortese: finisce con quella bambina mezzo cieca (per la quale gli occhiali rappresentavano lattesa rivelazione del mondo e, forse, la speranza di un mutamento) còlta da un inquietante smarrimento di fronte allo spettacolo miserabile offerto dalla vita dei vicoli di Napoli.
l mare non bagna Napoli (1953) è la raccolta di novelle che per prima diede notorietà ad Anna Maria Ortese e che al tempo stesso produsse lingiusto giudizio di anti-napoletanità che accompagnò in seguito lautrice.
Anna Maria Ortese nata il 13 giugno 1914 a Roma e scomparsa nel 1998 pubblicò nel 1953 presso Einaudi questa raccolta, insignita lanno successivo dal premio Viareggio. Essa venne accolta sì dal plauso della critica, ma dovette scontare pesanti accuse da parte di molti intellettuali, secondo i quali a fondamento dellopera vi fosse un disegno atto a denigrare la città di Napoli in ogni suo aspetto, dallistituzione familiare alle tradizioni, ai suoi intellettuali; tale accusa nei riguardi della Ortese persistette negli anni, tanto che nellultima edizione del testo, curata da Adelphi nel 1994, apparve una Guida alla lettura redatta dalla stessa Ortese, che sentiva la necessità di sciogliere questo per lei doloroso equivoco. Come ha fatto recentemente notare Battista Amodeo, tale polemica fu condotta dai poteri politici dellepoca e dagli intellettuali che li sostenevano: «[
] sono stati soprattutto i politici, in un periodo tra i più oscuri dellamministrazione della città, fatta di voti di scambio, di un uso corrotto e improprio del potere e del danaro».
La pubblicazione de Il mare non bagna Napoli in realtà ha segnato uno spartiacque con gli scrittori e le scrittrici delle generazioni precedenti, così legati alla «napoletanità: Eduardo De Filippo, Raffaele Viviani, Salvatore Di Giacomo, Matilde Serao, per citarne alcuni tra i più autorevoli. Nel descrivere lo stato della plebe, i vicoli della città, lindifferenza della classe borghese verso i problemi antichi di Napoli, la Ortese si è servita di una scrittura lucida e appassionata, ma anche di uno sguardo critico, non complice, non patetico, con quelleffetto di estraniamento frutto di un profondo bisogno di rinnovare il proprio lessico [
]».
Detto questo, vale la pena di farsi accompagnare per mano dalla Ortese e visitare la Napoli da lei descritta: in buona parte infatti, lopera si configura come un viaggio nelle viscere della città, durante il quale è la scrittrice che ci porta a conoscere ambienti e situazioni poco noti, e soprattutto ci dona una lettura scevra da pregiudizi e libera da quella facile retorica che ancora oggi caratterizza la maggioranza degli interventi, artistici e no, su Napoli e i suoi abitanti. La narratrice ci conduce, come un moderno Virgilio, attraverso realtà infernali.
La città involontaria è un eccellente esempio di letteratura di denuncia, ma anche un omaggio, non involontario, a Dante, un'esposizione della miseria umana più assoluta. Anche novelle come Un paio di occhiali, nella loro apparente semplicità di affresco neorealista, narrano la meschinità non solo economica, ma sempre e soprattutto morale della plebe urbana. Il confronto con il Neorealismo, allepoca trionfante, è inevitabile; ma la prosa della Ortese, così come il giudizio morale, sottile e persistente, si allontanano da ogni schematismo e da ogni tentativo di rappresentazione pedissequa delloggetto osservato. La ricerca stilistica della scrittrice ha prodotto in questo caso una prosa innovativa e stimolante, ricca di immagini inconsuete e talora ardite, senza mai rinchiudersi nel facile trucco dellermetismo. La Ortese riesce a far convivere un genere prossimo alla letteratura di denuncia con uno stile decisamente sperimentale e interessante, risultato tuttaltro che scontato in casi del genere. (M.R.)
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È un racconto bellissimo ed emblematico in cui emergono in maniera evidente la difficoltà e il dolore della scrittrice nel dover fare i conti con la realtà. Mettersi gli occhiali significa conoscerne il volto vero, anche orroroso, e abbandonare quel velo che una miopia onirica svolge davanti alle cose del mondo, rendendole desiderabili e perfino belle. Allora può capitare di sentirsi estranei a quellorrore, o di non volere confondersi con esso, e avvertire forte il desiderio di fuggirlo, di abbandonare per sempre quel paio di occhiali rivelatori e rifugiarsi in un altrove favoloso e fantastico, al di là della realtà, pur tenendo sempre vivo nella memoria il ricordo, limmagine dolorosa di ciò che è reale.
Allintollerabilità del reale, la Ortese risponde sì con la finzione, il simbolo, la menzogna, ma non in una esibizione di fantasia fine a se stessa, bensì in una «perpetua polemica nei confronti della realtà», come scrive Giulio Ferroni. Dietro a questa scelta cè un profondo dolore, la percezione del male che agisce sulle creature, sullo spazio, sul tempo, e insieme «laspirazione impossibile (ostinatamente adolescenziale) a una felicità libera e sicura, a una bellezza assoluta, a unarmonia segreta in cui si riscatti il senso pieno del mondo».
È laspirazione segreta e inconfessata di Anastasia Finizio, una donna non più giovane rassegnata a una vita di solitudine e costretta a mantenere la famiglia con il proprio lavoro. Il giorno di Natale, per caso, venne a sapere che era tornato a Napoli un suo antico spasimante, Antonio Laurano, e le si aprì davanti uno spiraglio di speranza: «Questa vita sarebbe stata un sogno
come un viottolo che sembra morire in un campo sterrato, e invece, a un tratto, si apre in una piazza piena di gente, con la musica che suona». E così sogna, Anastasia: una casetta tutta sua, e si immagina a stendere i panni e cantare in una mattina assolata, o a mangiare, con lui, in terrazza, una sera destate, «al lume di una lampadina elettrica nascosta nella pergola, che avrebbe illuminato sulla tavola le sue mani dure di lavoratrice, e fatto luccicare nelloscurità i bei denti di Antonio. Ed ecco, pensando a quei denti, vide meravigliata che tutta la sua esaltazione veniva di là, da quella bocca più giovane della sua, anzi giovane, da quella salute e giovinezza che lei non aveva mai posseduto». Ma le sembrava assistere alla felicità di unaltra, perché lei si sentiva invece terribilmente infelice e non in grado di vivere, ma soltanto di ricordare, e «di quando in quando, vedere, e poi subito quel lume, quel paesaggio era spento».
Cè qualcosa, in Anastasia, che ricorda nellamarezza, nel sogno di una vita altra, i dublinesi di Joyce, e in particolare, forse, Eveline, che «sedeva alla finestra guardando la sera prender possesso del viale», e che vagheggiava, anche lei, una vita diversa, senza Miss Gavan a urlarle di continuo di muoversi, di darsi da fare, e senza la polvere di quella casa piena di oggetti che la tenevano avvinghiata al passato come ventose. Frank viene dal mare e forse può salvarla dallinfelicità; anche Antonio viene dal mare, e Anastasia, come Eveline, vede in un uomo, misterioso e un poco evanescente, la speranza di un mutamento. Ma la notizia che Antonio si è fidanzato con unaltra la riporta alla realtà: «Un sogno, era stato, non cera più nulla. Non per questo la vita poteva dirsi peggiore. La vita
era una cosa strana, la vita. Ogni tanto sembrava di capire che fosse, e poi, tac, si dimenticava, tornava il sonno».
A riportare bruscamente Anastasia alla realtà, a rimetterle sul naso il paio di occhiali che per un attimo aveva voluto abbandonare, dimenticare, non cè solo quella amara notizia, ma anche la morte: la morte che passa il giorno di Natale e si porta via una vicina di casa, donnAmelia. «Di questo giorno!», sospira qualcuno. «Chi se laspettava!». Anastasia allora piange, e «non tanto di pietà per la defunta, quanto di dolcezza di fronte a questa vita» e «perché in questa vita cerano tante cose, cerano la vita e la morte, i sospiri della carne e le disperazioni, le tavole imbandite e loscuro lavoro, le campane di Natale e le colline tranquille di Poggioreale. Perché, mentre giù si accendevano le candele, a un chilometro di distanza, cera il porto, con la nave di Antonio allancora
».
Il racconto si chiude con una malinconica rassegnazione, e di qui il libro procede muovendosi nei territori del reportage. La Ortese scruta e testimonia minuziosamente le condizioni disumane in cui è costretta a vivere la plebe di Napoli nei primi anni del secondo dopoguerra; descrive i volti, il rumore, il dolore di una tragedia, di una città che non sembrava neppure bagnata dal mare, a riempirsi gli occhi di quella vita pietrificata da una miseria senza speranza. E accusa, nel capitolo che più suscitò scalpore, Il silenzio della ragione, gli intellettuali napoletani, facendo nomi e cognomi, di avere spento ogni passione, di vivere in un gretto individualismo e in un apatico disinteresse per tutto quello che accadeva intorno a loro.
Il mare non bagna Napoli è un libro affascinante e doloroso in cui si sente palpitare, in ogni pagina, la sofferenza e lindignazione della scrittrice, e le sue paure, la sua nevrosi, come lei stessa la definì qualche anno prima di morire: «Da molto, da moltissimo tempo, io detestavo con tutte le mie forze, senza quasi saperlo, la cosiddetta realtà: il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte. Questa realtà era per me incomprensibile e allucinante». E così poteva pure essere vero, come qualcuno scrisse, che questa Napoli riflettesse «una lacera condizione universale», «ma non ero daccordo aggiunge la Ortese sullaccettazione (implicita) di questo male».
Questo libro va dunque immaginato come uno schermo suggerisce lautrice non proprio inventato, «su cui si proiettava il doloroso spaesamento, il male oscuro di vivere, come poi venne chiamato, della persona che aveva scritto il libro». E nelle immagini di grazia e bellezza che appaiono disseminate qua e là nel libro, come lampi fugaci, cè tutto il sogno dellarmonia perduta e il mondo su cui Anna Maria Ortese poggerà le pagine dei suoi romanzi successivi: unirrealtà che non è mai completo rifugio o torre davorio, ma alternativa e reazione che può «rivendicare le esigenze elementari, ma sempre conculcate, della natura e della ragione», anche semplicemente attraverso le immagini di una stanza in cui entra il sole, di una donna che pensa al suo primo amore, come fosse maggio, di un ragazzo che corre «tenendo il sesso tra le dita, come un fiore», o di «un viso delicato, bianchissimo, illuminato da due occhi dove brillava lazzurro della sera». (P.D.P.)
Milano, 7 gennaio 2000, 18 marzo 2003, 21 luglio 2003
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