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La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990) |
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Lei però non invecchia precocemente, anzi: «strano come regga bene letà neanche un filo di grasso, nessuna deformazione, snella come quando aveva ventanni, la carnagione chiara, fresca, i capelli ancora ricci e biondi, solo una ciocca bianca sulla tempia sinistra ». Sposa a tredici anni, partorisce i suoi figli e li alleva, ma non fisicamente, perchè nelle nobili famiglie ci sono i subalterni a pensare a tutto. Le sue rimangono mani: «che non hanno mai percepito il peso di una pentola, di una brocca, di un catino, di uno straccio. [ ] Hanno accarezzato, quelle mani, qualche testa di neonato, ma non si sono mai intrise della loro lordura. [ ] Certamente si sono posate, inerti, sul grembo, non sapendo dove rintanarsi, che cosa fare; poiché ogni gesto, ogni azione, era considerata pericolosa e inopportuna per una ragazza di famiglia nobile». Marianna alleva i suoi figli e le sue figlie con amorosa dedizione, attenta alla loro crescita mentale e psicologica, dipingendoli sulla tela e dipingendo nella sua mente la meravigliosa capacità di «essere» che ciascuno di noi ha e che ci fa individualità irripetibili e uniche. Manina, la paciera, Felice con la sua vocazione alla medicina, Giuseppa che rincorre la passione, Mariano che rifiuta di crescere e di autodeterminarsi e Signoretto il più piccolo il prediletto, tutti insieme a giocare, a vivere, a comunicare, sia pure per iscritto. Quella comunicazione che a lei era mancata lei, figlia della sua «signora madre» inetta, infelice e affogata nel laudano, lontana, persa nel suo torpore di frustrazione, capace solo di ricordare alla figlioletta la sua situazione di «povera mutola». «Chissà che aveva in quella testa sempre languidamente reclinata su una spalla la dolcissima signora madre! [ ] Con quella tendenza a impigrirsi dentro un letto sfatto, dentro una poltrona, perfino dentro un vestito in cui si assestava appoggiandosi con le carni molli alle stecche di balena, ai ganci, financo alle asole. Una pigrizia più fonda di un pozzo nel tufo, un torpore che la conteneva come un baccello di carruba contiene il seme duro, morbido color della notte» .Lei, figlia prediletta del signor padre, che incapace di risolversi, la regala al cognato come si regalerebbe un gattino cieco a qualcuno che ha bisogno di un oggetto con cui riempire il vuoto dellinettitudine, quel padre che adora, che troneggia nella sua mente, che laccompagna per tutta la vita, anche dopo la sua morte, che ricorre nei suoi pensieri, quel signor padre: «che ha un modo tutto suo di montare sul baio acchiappandosi alla criniera corvina parlando al cavallo con fare persuasivo. [ ] Quando il vapore umido del mare prende a salire alle narici fresco e salato, il baio solleva le zampe anteriori e in pochi attimi, con una spinta poderosa dei fianchi, si solleva da terra. Laria si fa più leggera, pulita; dei gabbiani vengono loro incontro stupefatti. Il signor padre incita il cavallo [ ], certamente questa volta la sta conducendo con sé in paradiso ». Ma in paradiso volerà il piccolo Signoretto, quel piccolo figlio tanto amato, nato anzitempo, allegro e intelligente, che voleva stare solo in braccio a lei, che la mordeva, la stringeva, le parlava, noncurante della sua sordità, sedeva a tavola accanto a lei, contro le abitudini del casato. Finché un giorno si era ammalato. E la mamma bambina, chiusa in una disperazione sorda come le sue orecchie e muta come le sue labbra, tenta disperatamente di salvarlo. E desidera di vederlo morire subito. Marianna: «appoggia la testa sul petto del figlio ascoltando i battiti di un cuore fievole appena percettibile. Lodore del latte rigurgitato e dellolio di canfora le entra con prepotenza nelle narici. [ ]. Lo rivede aggrappato al suo seno nei primi mesi di vita [ ] Quando lo vede succhiare laria in quel modo straziante, le labbra livide, le manine aggrappate ai bordi della culla, pensa che il miglior modo di aiutarlo sarebbe di farlo morire». Figura splendida, affascinante, coinvolgente questa Marianna senza infanzia, senza amore, senza udito, senza futuro. Sullo sfondo di una terra orgogliosamente ancorata alla sua inettitudine, profumata, arsa, sfavillante di limoni, di odori, di pietanze succulente, di estati torride, di brevi inverni ventosi che giungono allimprovviso, di cavalli, di monacazioni, di proverbi, di arroganza nobiliare, di immobilismo e di sfavillio, di località dai nomi accattivanti, musicali, di boschi di sugheri, di «distese di terreni coperti da una lanugine gialla piumata appena scossa dal vento» e di miseria, di squallida miseria senza requie. «Ovunque giri lo sguardo è la stessa cosa: case basse addossate le une alle altre, spesso munite della sola entrata che fa da finestra e da porta. Dentro si intravedono stanze scure abitate da persone e animali in tranquilla promiscuità. E fuori, rivoli di acqua sudicia, qualche bottega di granaglie esposta in grandi cesti, un fabbro ferraio che lavora sulla soglia sprizzando scintille, un sarto che alla luce della porta taglia, cuce e stira ». Marianna Ucrìa: capace di usare la penna in un momento storico in cui le donne sono tutte analfabete o quasi, sono donne «dallintelligenza lasciata a impigrire nei cortili delle delicate teste acconciate con arte parigina. Di madre in figlia, di figlia in nipote, sempre intente e girare intorno ai guai che portano i figli, i mariti, gli amanti, i servi, gli amici, e a inventare nuove astuzie per non farsene schiacciare». Una femminista senza coscienza di esserlo,che prende in mano le redini delle sue proprietà quando, vedova e cosciente di due fratelli che non sanno risolversi, si determina a gestire e a capire. «Ormai sono a Torre Scannatura da venti giorni. Marianna ha imparato a distinguere i campi di grano da quelli di avena, i campi di sulla da quelli lasciati a pascolo. Conosce il costo di una forma di cacio sul mercato e quanto va al pastore e quanto agli Ucrìa. Le si sono chiariti i meccanismi degli affitti e delle mezzadrie. Ha compreso chi sono i campirei e a cosa servono: a fare da tramite fra proprietari distratti e contadini riottosi ». Solo lamore non sa accettare, quellamore che non conosce, perché lei ha conosciuto solo gli amplessi a cui era necessario sottostare per dovere, quelle continue violazioni fisiche e psicologiche del «signor marito zio» che la prendeva e penetrava nel suo ventre senza il dolce della tenerezza, senza il gusto della complicità, senza parole, muto come muta è la sua sposa, sordo ai richiami della sua anima, come sordo è il suo rapporto con la società, con la storia, con il progresso. «Marianna ripensa ai loro frettolosi accoppiamenti al buio, lui armato e implacabile e lei lontana, impietrita. Dovevano essere buffi a vedersi, stupidi come possono esserlo coloro che ripetono senza un barlume di discernimento un dovere che non capiscono e per cui non sono tagliati. Eppure hanno fatto cinque figli vivi e tre morti prima di nascere che fanno otto: otto volte si sono incontrati sotto le lenzuola senza baciarsi né carezzarsi. Un assalto, una forzatura, un premere di ginocchia fredde contro le gambe, una esplosione rapida e rabbiosa». Quel signor marito zio il cui cervello assomiglia, pensa Marianna, in un certo senso alla sua bocca «trita, scompone, pesta, arrota, impasta, inghiotte» ma niente trattiene di quel cibo e resta magro, a dispetto degli anni. Per lui la moglie è una incomprensibile bambina di un nuovo secolo, così assurda nella sua ansia di rinnovamento, così incomprensibile, tesa alla ricerca di novità, di azione. Quellazione «aberrante, pericolosa, inutile e falsa» perché rendere familiare lignoto e dargli forma è tradimento di quellozio sublime che solo i nobili veri possono permettersi. Cento volte meglio quel quadro che tiene nel suo studio che rappresenta il martirio di san Signoretto e che porta sotto, incisa nel rame, la dicitura «Beato Signoretto Ucrìa di Fontanasalsa a Campo Spagnolo, nato a Pisa nel 1269». Lamore tuttavia la insegue e Marianna fugge, la cerca con gli occhi, con il corpo, con la mente, con ingenui tranelli, cavaliere dai capelli ricci e neri sul suo cavallo veloce e dispettoso, la spia e lei fugge, la implora e lei resiste, la cerca, la trova, la perde si trovano, si amano. E nel suo ventre la sensazione dellamore, quel ventre che aveva solo subito il travaglio dei parti e il martirio del sacrificio. Un amore impossibile per Marianna, nobile, duchessa, mutola, vedova, femmina, rappresentante della regale stirpe degli Ucrìa. Un amore da cui bisogna fuggire. «Il brigantino si muove appena dondolandosi sullacqua verde. Davanti, a ventaglio, la città di "Paliermu": una fila di palazzi grigi e ocra, delle chiese grigie e bianche, delle stamberghe dipinte di rosa, dei negozi dai tendoni a strisce verdi, le strade delle «balati» sconnesse in mezzo a cui scorrono rivoli dacqua sporca [ ] Ora il brigantino è agiato da scosse lunghe e nervose. Le vele sono issate: la prua si dirige decisamente verso lalto mare. Marianna si appoggia con tutte e due le mani alla balaustra laccata mentre Palermo si allontana con le sue luci pomeridiane, le sue palme, le sue immondizie spinte dal vento, la sua forca, le sue carrozze. Una parte di lei rimarrà lì, su quelle strade inzaccherate, in quel tepore che sa di gelsomini zuccherati e di escrementi di cavallo». Profumi ed escrementi: la bellezza di un mondo che appare contro latrocità di un mondo che schiaccia, che opprime, che uccide, che condanna, che perseguita; la bellezza di quelle ragioni del cuore che la ragione non conosce ma che ti costringe a misconoscere Gli escrementi di cavallo, simbolo di un logorante immobilismo mentale che si nutre di se stesso, appannaggio di un mondo maschile fatto di maschi che non hanno alcun diritto se non quello esercitato in nome di una falsa doppia morale, maschi che in fondo fanno pena, perché non trovano altro alibi alla loro prepotenza crudele che non si riduca al possesso di quel qualcosa con cui possono violarti e sentirsene orgogliosi. «La sera, alla tavola del capitano, nel saloncino dal tetto a botte, seggono strani visitatori che non si conoscono fra loro: una duchessa palermitana sordomuta chiusa in una elegante spolverina alla Watteau a rigoni bianchi e celesti ». E «brandelli di memorie disperse e quasi dissolte» risalgono dal fondo della coscienza immagini di tutta una vita, una lunga vita, segnata da quello "scantu" che lha resa sordomuta, una menomata che ha trasformato la sua menomazione in una proficua fonte di affinamento fisico e intellettivo, che vorrebbe ritornare indietro ma che ha troppa voglia di riprendere il cammino, di percorrere la strada del suo destino fino alla fine, interrogando i suoi silenzi interrotti solo una notte, da un assurdo grido agghiacciante che traduce finalmente la memoria di ciò che fu. «Vorrei che il romanzo comunicasse ai lettori unidea profonda e sensuale della Sicilia». La Sicilia de La lunga vita di Marianna Ucrìa riesce a soggiogarti così profondamente, da farti sentire nelle narici lodore della menta, del mare, immaginando «una notte benigna, tiepida, allagata di profumi» e percependo «una leggera brezza salina che arriva a tratti dal mare». A cura della Redazione Virtuale Milano, 12 settembre 2001 |
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I commenti dei lettori
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