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I RACCONTI E I ROMANZI BREVI, DI GIUSEPPE PONTIGGIA, OPERE DOTATE DI UN'AMPIA AUTONOMIA E AUTORITA' PROPRIE. |
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La morte in banca |
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I racconti di Pontiggia, questo filone poco esplorato, soffrono allorigine duna collocazione in ombra, pubblicati, come sono, in appendice al romanzo breve, o racconto lungo La morte in banca, quasi fossero un riempitivo in coda a unopera giovanile, una referenza curricolare buona per la storia artistica di chi li ha scritti, più che unopera dotata di autorità e autonomia. Doppio equivoco, perché i racconti, come vedrà il lettore attento, coprono un arco temporale assai largo nella carriera dellautore, a riprova che il racconto breve, per Pontiggia, è uno strumento espressivo tuttaltro che giovanile od occasionale. Unaltra ragione, credo la principale, della scarsa considerazione di cui godono questi racconti, è, diciamolo a chiare lettere, la loro feroce sgradevolezza. Mentre nei romanzi Pontiggia diluisce e frammenta la sgradevolezza, lirriguardosità metafisica, in questi racconti le ha magnificate sotto la lente dun microscopio selettivo. Proprio grazie alla brevità dei testi, le situazioni sgradevoli simpennano senza climax, divampano e bruciano lasciando allultima riga soltanto un mucchietto di cenere untuosa. Autentiche monadi della sgradevolezza, dal nocciolo duro e persistente. E non si pensi a casi abnormi: i mostri di Pontiggia sono esseri umani colti nellesasperazione della loro medietà umana, veri estremisti del banale ai quali è sempre riservato un sommesso sberleffo, non dallautore, ma dalle loro premesse esistenziali. Questo sberleffo, vestito di panni più aulici, in altri contesti viene chiamato ironia tragica. Se è vero che Pontiggia, per la sua asciuttezza sprezzata, per il suo rifuggire dalla verosimiglianza ridondante, viene considerato un classicista, è ancor più vero che gli aspetti meno appariscenti del suo classicismo sono da ricercare nel senso della misura etica, che coincide con quella stilistica, nel senso dappartenenza a una polis umana che lo apparenta ai tragici greci. Già La morte in banca indaga il processo insano che conduce dallacerbità alla putrefazione senza passare per la maturità. Un processo paradossalmente statico, come nei romanzi risulteranno statiche la guerra dimboscate e colpi di spillo de Il giocatore invisibile o la falsa concitazione de La grande sera. Le tragedie istantanee dei racconti si consumano, mentre i personaggi si accaniscono a segnare il passo. Eppure, le loro silhouette non sono affatto caricaturali, anzi, grondano dumanità affratellante, che ce li fa amare perché nostri simili e cinduce a rifuggirli perché a noi troppo simili. Non saprei quale di queste vicende scegliere a esemplare, quale personaggio indicare come riassuntivo. Tutti abbiamo provato lanancasma o lidea folle che sorge e si rafforza, insufflata nella mente da un demone maligno, come il personaggio che si accorge di vedere i colori e rovescia diametralmente di segno una funzione pacificamente naturale in unossessione. Lavaro che guasta col suo vizio le vacanze dei compagni di viaggio non è poi peggiore rispetto a questi ultimi, anzi, ha quasi una sua tragica dignità da opporre agli amici, pacifici borghesi consumatori, moderatamente edonisti. Ci sentiamo tutti avvinti al macigno di Sisifo, come lobeso che muore alla vigilia del suo combattutissimo dimagrimento, o imprigionati in una banca, alla mercé di folli e di zelanti, di apocalittici perfettamente integrati e dintegrati che si trastullano con lapocalisse. E ci ritroveremo a condividere lansia di un galoppino a caccia del diario dun famoso scrittore appena morto, le ritrosie dun vecchio poeta gentilmente svanito alle prese con una giovane intervistatrice, soffocheremo nel quasi-gaddiano (nello spirito, non nel linguaggio) scenario dun concerto per chitarra rovinato dal caldo soffocante della sala. Se proprio dovessimo scegliere uno di questi racconti, vorrei segnalare Lettore di casa editrice, che, in apparenza, può sembrare poco più che un aneddoto sceneggiato, ma è in realtà un graffito a forti segni neri su un grigio bituminoso, fluviale nelle sue appena dieci pagine. La storia dun tediato burocrate della letteratura che si trova a esaminare romanzi inediti per conto duna casa editrice, alla ricerca, non dicesi dun capolavoro, ma dun testo appena decente e pubblicabile. Quando per errore si ritrova in mano una traduzione de L'idiota di Dostojewskji, non lo riconosce, scambiandolo per lennesimo romanziere della domenica dai magri talenti. Signori che leggete e scrivete e pubblicate, eccovi serviti. Epifanie alla rovescia, equivoci che disvelano più verità di quante non ne mostri una conoscenza certa. Il punto sul quale Pontiggia fa leva per sollevare il mondo come se fosse un pallone gonfiato è qui; il suo è un mondo alleggerito, fatto di pochi tratti ricavati astraendo da una messe informe di dati umani. Una massa che preme e si fa sentire, che rivendica attenzione, sotto la pellicola tersa dello stile. Penso che Pontiggia, da critico severo e competente qual'era, avesse unalta opinione giustificatissima di questi suoi racconti, la cui stesura lha accompagnato per quarantanni. Il miglior omaggio che possiamo tributargli, è collocarli al posto donore che meritano sul nostro scaffale, ad altezza docchi, con Sofocle e Flaubert per compagnia. A cura della Redazione Virtuale Milano, 7 luglio 2003 |
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I commenti dei lettori
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