Oriana Fallaci, Niente e così sia
Rizzoli, 1997
pp.360 Euro 6,80
ra battaglie, offensive, carestie e guerriglia urbana Niente e così sia non è solo la testimonianza di un anno passato in Vietnam (Viet-Nam). Raccontandoci cosa successe a cavallo tra il 1967 e il 1968, in quello scontro che vide protagonisti gli Stati Uniti, Oriana Fallaci insegue anche una risposta intorno al significato della vita. Lautrice si avvicina alla guerra come un medico affronta una malattia: linteresse, il fascino guidano lo studio di un fenomeno del quale si conosce linevitabilità, ma che si cerca di sconfiggere, il desiderio di sezionare in tanti piccoli pezzetti un pericolo mortale per conoscerlo in ogni sua minima sfumatura e sapere meglio come evitarlo.
La guerra, vista da lontano, appare solo come un incubo. Si stenta a credere che possano esistere veramente simili massacri. Forse neppure si riesce a immaginarli. È solo la lontananza che la rende accettabile. Per questo, prima nemica della pace è lignoranza intorno a ciò che veramente accada in un campo di battaglia, dove anche la vita di schiere di ragazzi perde il suo valore e la sacralità che tutti noi le riconosciamo.
Cè qualcosa che stride. È folle un mondo nel quale, nello stesso momento, in un luogo decine di persone si affannano per regalare ad un uomo carico danni qualche settimana in più e in un altro posto contemporaneamente, a centinaia, a migliaia, dei giovani muoiono dissanguati, mutilati da orrende ferite, stesi nel fango senza che nessuno si curi di loro.
Cè chi passa una vita di studi per capire come andare sulla Luna e cè che si affanna nellinventare una pallottola che squarci meglio la carne del nemico. E con un tacito grido lautrice fa emergere dalle sue pagine linterrogativo: perché dobbiamo sprecare tante energie per ucciderci? Perché cè chi continua a produrre armi? Domande che ci appaiono forse banali, magari inutili e retoriche. Ma, dice la Fallaci, se si è stati testimoni della brutalità di un fronte, tali interrogativi riacquistano tutta la loro forza.
Lincomprensibilità è lamara conclusione che si viene defilando tra le pagine: è sempre stato così. Da millenni le guerre straziano le popolazioni. Schiere infinite di ragazzi si sono maciullate in interminabili trincee spesso senza nemmeno sapere il perché. Un amore, una famiglia li aspettavano a casa. Una vita da riempire spezzata nellindifferenza generale.
Cercando il significato della vita, solo questo si può dire: essa è un guscio, una scatola vuota che a noi tocca riempire nel modo migliore. E se questo significasse combattere per quello in cui si crede, come evitarlo? È luomo che, per essere tale, non può che cercare continuamente di superare se stesso e gli altri scatenando conflitti per la sua sete di potere. Un morto in una guerra è, così, come Gesù: un innocente che muore per gli errori di tutta lumanità.
Cercare la religione delluomo, mettere luomo al posto di Dio per giudicarlo, salvarlo e compatirlo su questa terra e non nel Regno dei Cieli: non si può sperare in così tanto dopo aver visto che si è pronti a trasformare i propri simili in bestie da macello. Eppure, prima di avere gli occhi pieni di orrori, rincorrere il sogno di un simile "credo" pareva essere la soluzione dei nostri mali.
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Io volevo soltanto raccontare la guerra a chi non la conosce», scrive la Fallaci. Il fascino dellesasperazione, laprire campi inesplorati, gli eroismi, scoprire se stessi esplorando i propri limiti: essere in un conflitto porta a tutto questo. E se la risposta data su cosa sia la vita può essere insoddisfacente, al termine della lettura resta un senso di nausea verso qualunque tipo di violenza e lamara consapevolezza che il Vietnam (Viet-Nam) è in tutto il mondo: una guerra che finisce solo per ricominciare dopo qualche tempo.
Dietro il pessimismo di una storia fatta solo dagli assassini sta lobbligo per tutti noi di attraversare il palcoscenico della vita nel migliore modo possibile. Ed è lunica cosa che possiamo fare visto che la nostra esistenza, una volta cessata, non serve più a niente. Niente e così sia.
A cura della Redazione Virtuale
Milano, 29 aprile 2002
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