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In Passeggiate africane Alberto Moravia afferma che, se tutti gli altri paesi del mondo hanno una storia, lAfrica ha invece unanima |
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Passeggiate africane (1987) |
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Sotto lo sguardo entusiasta di Moravia, le linee e i tracciati di una qualunque cartina raffigurante lAfrica guadagnano straordinariamente volume. Lautore, quasi a voler rassicurare prima di tutto se stesso, informa già dallinizio del «carattere non turistico e imprudente» del suo percorso. Evitando le affollate tappe delle agenzie di viaggi, schivando il più possibile i privilegi che, paradossalmente, in taluni luoghi e occasioni lAfrica sa offrire, così creando «isole di supersviluppo dentro il cuore stesso del sottosviluppo», Moravia ha cercato di cogliere per intero la selvaggia indole di quei luoghi, fino ad arrivarne al cuore e a poterli definire suoi. Nelle passeggiate lungo scenari in cui il tempo, più che distinguere, ha mescolato tra passato, presente e futuro, lo scrittore ha riscoperto una potenza generatrice matrigna, temibile, forte, la stessa a lungo narrata da Lucrezio e Leopardi, assai lontana dallimmagine europea in cui regnano luomo e la scienza. La natura africana, nella sua infinita bellezza, insieme fascinosa e accattivante, sembra tuttavia celare una falsità demoniaca e pericolosa. Non è più il concetto di «nobile», usato da Karen Blixen e accostato da Moravia nei due precedenti diari, a contrassegnare il carattere profondo del paesaggio africano; lautore trova più consono lutilizzo dellaggettivo «religioso» e scrive: «il solo sentimento religioso proprio dellAfrica è la paura». Per capire in cosa consista effettivamente questa «paura», non vale pensare ad Hemingway ed alla sua narrazione a riguardo «che sa di safari e colonialismo», quanto ad una «maschera tribale con la faccia di teschio, gli occhi di perline, i denti di conchiglie e i capelli e la barba di rafia». Lo scrittore appare stordito dallincanto di un paesaggio che non smette mai di ammaliare ed intreccia riflessioni dettate dallimpulso visivo, a sentimenti razionali e ragionati. Egli è alla continua riscoperta di vecchie immagini impolverate dal tempo attraverso cui lo sfondo africano possa sembrare più familiare o, forse, meno terribile nella sua geniale e originale essenza. E la scena di un film a ripetersi senza più alcuna regia nella corsa lungo una pista di solo nulla, a perdita docchio: una bambina in perizoma della tribù dei Manyati appare davanti alla Land Rover su cui lo scrittore viaggia; sorride in modo provocante e fa cenno con le braccia di fermarsi. Lautista, senza rallentare, la evita sterzando violentemente. A Moravia, che si volta a guardare dal vetro posteriore, balza subito alla mente la scena di un film di Fellini, tratta da una novella di Poe intitolata: Mai scommettere la testa con il diavolo, in cui una bambina gioca a palla di notte su un ponte in costruzione. Un senso di inquietudine invade la sua mente, lidea di un non so che di «diabolico» è assolutamente tangibile; poi tutto scompare, anche la bambina, nella corsa, tra la polvere. In Africa, alcuni paesaggi che di notte paiono la perfetta imitazione di luoghi fantastici o città illuminate allegramente come New York, il giorno dopo sono solo unaccozzaglia di tende daccampamento. Accade anche il contrario. Moravia racconta di arrivare in un albergo di Bukavo, pulito, ma vecchio e triste e di trovare una sorpresa nellaprire la finestra della stanza: «Sono stanchissimo, coperto di polvere rossa e schizzi di fango; vado direttamente alla finestra, la spalanco e vedo il lago di Como. Stesse alte colline che cadono a piombo sul lago; stesse acque sognanti, ombrose, immobili, nelle quali tremano e si confondono le nuvole bianche del cielo, le colline dalla cupa verdura, le case arrampicate sui pendii». Durante la narrazione, si percepisce il distacco dalla visione di Hemingway, il quale contempla e ritrae gli animali solo dopo averli cacciati e uccisi. Lautore, invece, descrive leoni, elefanti, gorilla, proprio come fecero gli anonimi artisti preistorici, disegnandoli nelle grotte africane: «in quelle rappresentazioni la vita prima della caccia prevaleva sulla morte dopo la caccia». Moravia scrive senza tregua dei suoi compagni di viaggio; fra essi, in un panorama in cui sembra assolutamente «stonare», unantologia di Leopardi. «Qualcuno dirà: perché proprio Leopardi? E io rispondo: per contrasto». Oltre ad esso, i dipinti di Van Gogh, i personaggi di Cocteau, i paesaggi di Stevenson e Melville, le note di Mozart, la pioggia di DAnnunzio. In «Passeggiate africane» sindugia più a lungo, rispetto agli altri due scritti a riguardo, sulle figure dei personaggi incontrati da Moravia lungo percorsi più o meno spericolati. Restano impressi alcuni di loro, come il ragazzo dai piedi malati o lindiano sul traghetto in mezzo al lago Kariba. Le caratteristiche del popolo africano si conoscono lentamente, come ad aspettare la fine della costruzione di un puzzle, mentre Moravia accosta pian piano riflessioni su di essi. Scopriamo, così, che in Africa le indicazioni sono sempre sbagliate, che gli africani trovano gli europei prepotenti, che alcuni di loro pensano che le fotografie, una volta scattate, portino via anche lanima e che, quando piove, molti di essi si bagnano senza tentare di ripararsi, quasi fino a riempirsi dacqua come bottiglie. Sembra, infine, di leggere Fiesta mobile di Hemingway, quando Moravia non dimentica di descrivere neppure i sapori delle cose; ed è così bravo, che si ha davvero limpressione di assaggiare la carne dellistrice, intanto che, con i commensali, si parla «dellargomento inevitabile in Africa, cioè dellAfrica stessa». A cura della Redazione Virtuale Milano, 16 maggio 2001 |
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