LA RABBIA E L'ORGOGLIO, DI ORIANA FALLACI, LA FINE DI UN SILENZIO DURATO DIECI ANNI

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La rabbia e l'orgoglio (2001)



Oriana Fallaci, La rabbia e l'orgoglio
Rizzoli, 2001
Piccola biblioteca la scala, pp. 163
Euro 9,81

ull’onda dell’emozione suscitata dagli attentati terroristici compiuti in America l’11 settembre 2001, con una lettera inviata al direttore del «Corriere della Sera», Ferruccio De Bortoli, Oriana Fallaci ha varcato la soglia di una ritrosia caparbia, che durava da tempo; e non lo ha fatto — tanto per intenderci — “in punta di piedi”. Come un pugno nello stomaco, risoluta, come un urlo tra le montagne, distintamente forte ed echeggiante, la scrittrice di origini fiorentine ha diviso teste e occhi, sguardi e pensieri, cuori. E qualcuno si è commosso: alla lettura di quelle prepotenti righe “fitte fitte”, incolonnate il 29 settembre su quattro pagine di quotidiano e più, qualcuno ha pianto. Qualcun altro, invece, in segreto ha lasciato che gli occhi s’imbevessero di lacrime, ma allo scoperto, nel mondo in cui è l’immagine dell’apparenza vanesia a farla da padrone, ha voluto polemizzare e discutere, replicare e “azzuffarsi”.

Le prime righe:

«Mi chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni gioiscono come l’altra sera alla Tv gioivano i palestinesi di Gaza. "Vittoria! Vittoria!". Uomini, donne , bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo che alcune cicale di lusso, politici o cosidetti politici, intellettuali o cosidetti intellettuali, nonché altri individui che non meritano la qualifica di cittadini, si comportano sostanzialmente nello stesso modo. Dicono: "Gli sta bene, agli americani gli sta bene". E sono molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d’una rabbia fredda, lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli addosso. Io gli sputo addosso.»

Il racconto della Fallaci, insieme alla sua capacità di esplicitarsi ed esplicitare in virtù d’un talento che vive di parole semplici, ma significanti, è giunto come uno sparo nel cervello e così tutti hanno potuto intravedere e riconoscere il terrore; assaggiare e percepire il vuoto che solo l’angoscia e il tormento, quando scavano incarogniti, sanno far provare, in fondo a tutto, là dove dormono quei sentimenti che a ridestarli danno i brividi:

«Ero un pezzo di ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio. Non ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima torre o sulla seconda. La gente che per non morire bruciata viva si buttava dalle finestre degli ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il paracadute, e venivano giù così, lentamente. Agitando le gambe e le braccia, nuotando nell’aria. Sì, sembravano nuotare nell’aria. E non arrivavano mai. Verso i trentesimi piani, però, acceleravano. Si mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti, quasi gridassero “ help - aiuto - help”. E magari lo gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf

Il pensiero della Fallaci sull’America e sull’Italia — due Paesi che, messi a confronto, sono lontani non solo sulle cartine, ma anche nell’anima, come fossero, in sostanza, due pianeti infilati nello stesso universo, ma solo per caso — quel pensiero, si diceva, è posto sotto una luce da cui tanti si sono sentiti e si sentiranno ancora per molto accecare:

«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.»

«Il fatto è che l’America è un Paese speciale, caro mio. Un Paese da invidiare, di cui essere gelosi, per cose che non hanno nulla a che fare con la ricchezza eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno dell’anima, il bisogno d’avere una patria, e dall’idea più sublime che l’uomo abbia mai concepito: l’idea della Libertà, anzi l’idea della libertà sposata all’idea di uguaglianza.»

E la rabbia della Fallaci trabocca dalle parole scritte; la stizza non può essere contenuta, perché ora si tratta di difendere ciò che è proprio, primo fra tutti il “costume” o chiamiamolo pure “spirito motore e qualificante” di ogni Paese:

«[...] Ecco dunque la mia risposta alla tua domanda sul Contrasto delle Due Culture. Al mondo c’é posto per tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che gli pare e se in alcuni paesi le donne sono così stupide da accettare il chador anzi il velo da cui si guarda attraverso una fitta rete posta all’altezza degli occhi, peggio per loro. Se son così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andar dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se son così minchione da sposare uno stronzo che vuol quattro mogli, peggio per loro. Se i loro uomini sono così grulli da non bere la birra e il vino, idem. Non sarò io a impedirglielo. Ci mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto di libertà, io, e la mia mamma diceva: “Il mondo è bello perché è vario”. Ma se pretendono di imporre le stesse cose a me, in casa mia... Lo pretendono. Usama Bin Laden afferma che l’intero pianeta terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all’Islam, che con le buone o con le cattive lui ci convertirà, che a tal scopo lui ci massacra e continuerà a massacrarci. E questo non può piacerci, no. Deve metterci addosso una gran voglia di rovesciar le carte, ammazzare lui.»

E tra tutti, L’Italia, una cultura che la Fallaci dichiara di amare in modo viscerale e appassionato:

«Io sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono ormai americana. Io la cittadinanza americana non l’ho mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato gli risposi: “Sir, io all’America sono assai legata. Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono profondamente legata. L’America per me é un amante anzi un marito al quale restrò sempre fedele. Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse scomodato a fare la guerra a Hitler e Mussolini, oggi parlerei tedesco. Non dimentico mai che se non avesse tenuto testa all’Unione Sovietica, oggi parlerei russo. Gli voglio bene e m’è simpatico. Mi piace ad esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo il passaporto col certificato di residenza, il doganiere mi dica con un gran sorriso: “Welcome home, benvenuta a casa”. Mi sembra un gesto così generoso, così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l’America è sempre stata il Rifugium Peccatorum della gente senza patria. Ma io la patria ce l’ho già, Sir. La mia patria è l’Italia, e l’Italia è la mia mamma.»

Infine il saluto della scrittrice, il ritorno alla probabile, chissà quanto lunga e ostinata, chiusura nel silenzio. E il senso d’un irremovibile, taciturno destino, già pesa:

«[...] Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio Ferruccio, e t’avverto: non chiedermi più nulla. Meno che mai di partecipare a risse o a polemiche vane. Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.»

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 30 settembre 2004
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