L'UTOPIA NEGATIVA DE IL RE DEL MAGAZZINO, DI ANTONIO PORTA, UN ROMANZO DALLA TRIPLICE CHIAVE DI LETTURA

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Il re del magazzino (1976)


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Antonio Porta, Il re del magazzino
San Marco dei Giustiniani, Genova, 2003
La biblioteca ritrovata, 152 pp.
Euro 14,00

n romanzo sulla distruzione della cultura e sulla nuova Preistoria; oppure un romanzo sulle parole: quelle che si possono ancora dire mentre la civiltà naufraga; oppure la volontà di spegnere il romanzo per creare una nuova forma, che sarà in un preciso rapporto con la distruzione della cultura di prima.

Possono essere tre chiavi di lettura di un libro che, dal punto di vista della trama, è semplice: un intellettuale si aggira nella campagna lombarda dopo la catastrofe che ha stravolto l’Italia (il libro è stato scritto nel 1976, negli anni di un sentimento di utopia negativa: ne sono i segni, ad esempio, Roma senza papa di Guido Morselli e Medioevo prossimo venturo di Roberto Vacca).

L’intellettuale decide di dedicare gli ultimi giorni di vita alla stesura di un diario a due livelli: uno descrittivo (in prosa, dedicato a tutti) e uno in versi (“brevi lettere” originariamente dedicate ai due figli). Lo smantellamento della società è descritto con ferocia (i discorsi senza tracce di ragione, la ricerca di un cibo che si riduce a fagioli secchi o pesci da catturare con le mani ecc.), mentre si affaccia una speranza postumana: il paesaggio sempre meno antropizzato, un possibile «ritorno degli dèi» (p. 16) e soprattutto il ragazzo-lupo, non-uomo o ex-uomo.

La diversità rinuncia alla ragione e — sembra di capire — tende a un ethos senza padri: «Nella penombra del magazzino mi pare di guardare gli occhi gialli del ragazzo/lupo. Vedo che producono una luce di crudeltà e possesso: vogliono essere il mondo, sono il mondo. Questa luce è uguale a quella che per un istante ha deformato il volto di mia figlia quando ha espresso il desiderio di eliminarmi» (p. 144); e la morte del narratore — con una gatta “sazia” che dorme sul suo stomaco e accanto al ragazzo-lupo — è, forse, anche la morte simbolica dell’umanità, sostituita dagli altri animali e da chi si è fatto animale.

La vecchia realtà muore. Muore anche il romanzo: il libro è un monologo con pochissimi fatti e quasi senza nomi propri (tranne quelli di poeti-modello come Brecht e Beckett), un prosimetrum e un collage (contiene anche frammenti della stampa e illustrazioni, funzionali al discorso e al delirio del narratore). Viene in mente La divina mimesis di Pasolini, pubblicata nel 1975: altrettanto infernale e confusa, e accompagnata da fotografie; ma soprattutto: composita e non-finita.

Quando le strutture sociali si allentano, nella realtà o nella visione profetica, le strutture espressive devono cambiare. Forse è proprio Pasolini l’intellettuale che il narratore ricorda a p. 81: «Solo uno, un poco buffo e un poco tonto, come lo consideravano, continuava a ripetere maniacalmente che lui ce lo vedeva il Fungo all’orizzonte e che la cultura colpevole faceva finta di niente: solo che dimostrava di esserlo per davvero tonto mostrandosi indifferente alla rimozione delle cause prime, non ha mai capito che il Militare è l’anima del Capitale e voleva opporsi alla macchina infernale recuperando l’Uomo…».

Come dire: la nuova Preistoria o l’Africa sognate da Pasolini possono apparire qui solo per un crollo irrimediabile, non per effetto di una rivoluzione morale. Questo romanzo si basa sulla dispersione violenta di una tradizione umana; poeticamente, si apre e si chiude con la dispersione dell’acqua — «l’acqua che vedo scorrere è limpida» (p. 21) — e della vita — «energia e calore si disperdono lentamente. Mi chiedo dove finiscono» (p. 145).

Infatti «il futuro non comincia» e il padre (quello della Trinità, nel contesto, ma con una minuscola che lo trasforma in ogni padre umano) «deve cancellarsi» (p. 133).

Il Padre è lo Stato, l’Energia e il Capitale, la Legge.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 12 luglio 2004
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