NARRATIVA | POESIA | SAGGISTICA | DOSSIER | INTERVISTE |
Il disprezzo si snoda nella Roma medio borghese degli anni 50, tutta ipocrisia e opportunismo. Qui Alberto Moravia colloca Riccardo Molteni e la moglie Emilia |
|
|
|||
FORUM | CONTRIBUTI | RIVISTA |
La romana (1947) |
|
|||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
![]() |
In questo romanzo lo scrittore si dimostra incline alla pietà, novità questa che conferisce allopera un carattere diverso rispetto alle motivazioni moraviane dellindifferenza e del disgusto della vita, quali si riscontrano nei romanzi precedenti: lideologia dellautore è riveduta in virtù di un sentimento che si eleva al di sopra delle vicende, delle afflizioni e dei turbamenti quotidiani.
Il Pandini inoltre si dimostra alquanto scettico «di fronte alla costruzione dei personaggi e al mondo narrativo, che non riesce quasi mai ad elidere alcuni stridori di interpretazione, come il fatto che una prostituta, che narra le proprie esperienze e vicissitudini in prima persona, usi un linguaggio assolutamente improbabile per la sua condizione, o si ponga delle domande sullesistenza così sottili e profonde da renderle in lei poco credibili».(2) Davide Conrieri, analizzando una delle sequenze iniziali del romanzo (3), fa notare che «alla voce della protagonista-narratrice del romanzo si sovrappone o si sostituisce unaltra voce, che dice per lei parole che possono bensì esprimere i suoi sentimenti, ma che non le si possono attribuire verosimilmente. [ ] Così il lettore si trova ad intuire fin da subito, dalle primissime mosse del romanzo, che in esso il realismo moraviano non è vincolato a una misura mimetico-naturalistica, ad un adeguamento linguistico che presumibilmente avrebbe il linguaggio della protagonista narratrice, ove ce la trovassimo davanti in carne ed ossa» (4). A parte le dovute eccezioni, come ad es. la descrizione della visita al pittore nel cap. I, il linguaggio di Adriana non solo si allontana volutamente da coloriture dialettali e da un piano di realismo linguistico direttamente documentario, ma si sottrae pure al livello espressivo di una popolana di Roma, quale la ragazza ama definirsi. Pertanto il realismo moraviano non va inteso sic et simpliciter come attribuzione ad ogni personaggio del linguaggio che gli è proprio, ma si configura piuttosto come realismo psicologico. Nellintero romanzo, infatti, come ha ben sottolineato il Conrieri, «linventività linguistica è posta al servizio di un impegno di descrizione e di scrutinio degli atteggiamenti morali, tesa a rendere verbalmente, con la massima esattezza possibile, la loro natura per lo più composita e talvolta contraddittoria, le loro sfumature, e persino a dare il senso della loro non piena affabilità (non so che, una certa, una specie di). Forse proprio qui, in questo sforzo di accuratezza nel fissare situazioni psicologiche ed etiche, e nel ricorso a certe connessioni lessicali, è da riconoscere la punta più rilevante del manzonismo nella Romana» (5). Adriana si duole spesso della sua pochezza e ignoranza, ma quando descrive situazioni e moti sentimentali lo fa con una penetrazione, con una sottigliezza e con una finezza espressiva per nulla inferiori a quelle che si riscontrano nei discorsi di personaggi-narratori moraviani di cultura e condizione sociale più elevate: si prenda, ad es., il Silvio de Lamore coniugale. Insomma, dal punto di vista della mimesi linguistica, il referto di Adriana è difettoso per eccesso, essendo il discorso della protagonista-narratrice del romanzo decisamente superiore, tanto nelle articolazioni mentali e verbali quanto nelle risorse lessicali ed espressive, alla condizione assegnatale.
Un modello siffatto permea di sé alcune linee portanti della fisionomia e del resoconto di Adriana, sicché è lecito riferire a questa alcune brillanti osservazioni che Pavese faceva a proposito di quella, come ad esempio: «Non si ferma ad annotare divertita o commossa parole o gesti caratteristici, ma di ciascun individuo coglie il significato essenziale, colto attraverso il dolore o la gioia che ne ha ricevuto», o queste altre di Virginia Woolf: «Ella deve dipendere totalmente dal proprio ingegno e giudizio, e affrontare ciascuna emergenza al suo nascere mediante una morale pratica che si è forgiata da sola nella testa». «Furba e pratica di necessità, ella è tuttavia perseguitata da un desiderio di romanticismo», romanticismo che si concreta nel desiderio di una serena, appagante vita coniugale e familiare, talvolta emergenti nel corso delle storie di Moll e di Adriana (6). Queste osservazioni giustificano la sfasatura tra condizione sociale e culturale della protagonista e la qualità del suo discorso, che lungi dal denotare una manchevolezza dellautore nei confronti del realismo linguistico, tendono ad additare la direzione peculiare entro cui esso si muove, la quale si prefigge appunto come scopo, la raffigurazione e la resa verbale più precise e sottili possibili della vita psicologica ed etica dei personaggi, disposta a sacrificare esigenze anchesse "realistiche", ma avvertite come secondarie. Del resto sulla pagina letteraria il realismo assume sempre e inevitabilmente una forma particolare: quella che un dato scrittore in una data occasione ricerca riesce ad ottenere. Ne La romana, la volontà di rappresentare realisticamente la dinamica interiore dei personaggi attraverso un linguaggio che ne renda con la massima esattezza e nettezza i movimenti bruschi o lenti, le svolte o le oscillazioni, prevale sullesigenza che quel linguaggio risulti adeguato appieno alla condizione del personaggio che lo adopera (7). Identificare concretamente, cioè nelle vicende dei personaggi, il dato sentimentale, descriverlo con rigore, rappresentarne linsorgenza e le manifestazioni, farne intravedere anche il carattere libero e gratuito, appare la massima forma di realismo: un realismo che coglie «il dispiegarsi della coscienza e il suo atteggiarsi in rapporto con il mondo ad essa esterno, nellindividualità dei processi interiori dei personaggi, e che insieme rimanda ad una visione generale delluomo e della sua esistenza». Esistenza nellaccezione tecnica dellEsistenzialismo. Tracce di tale filosofia sono riscontrabili, appunto nellatteggiarsi di Adriana e di Mino di fronte alla vita: entrambi i personaggi provano sentimenti di angoscia e disperazione, che nelluna, sicuramente intensi, sono tuttavia legati a crisi episodiche e destinate a risolversi, mentre nellaltro originano un tormento continuo ed implacabile, anche se talvolta è camuffato sotto lapparenza di unallegria e giocosità tese e crudeli. In Mino il porsi in rapporto con gli altri in modo da ammetterne concretamente lesistenza autonoma assume i connotati aggressivi e violenti di esperimento volontaristico dal dubbio successo, esplicitati, ad esempio, nello storcere il dito di Adriana, durante il suo primo incontro con lei, per rendersi conto, dal dolore che le ha cagionato, che ella esiste realmente ma poi estesi a tutta la relazione che lo studente mantiene con la donna; nella protagonista, invece, tale atteggiamento prende le forme di una riuscita relazione simpatetica, che si instaura a partire da un moto spontaneo di comprensione ed immedesimazione, come accade, ad esempio, nei confronti prima di Gisella e poi Astarita: verso di essi la protagonista avrebbe, nel momento in cui si apre a capirli e a compatirli, buoni motivi di risentimento ed insofferenza, che però vengono tacitati da un impulso di partecipe intelligenza. Adriana riferisce di aver chiaramente notato come Gisella provasse nei suoi confronti dispetto e invidia, e prosegue: «ma pur comprendendola così bene, anzi appunto perché la comprendevo, ebbi compassione di lei». Ugualmente racconta del fastidio che le procurava Astarita con atti dettati dalla sua pazza libidine e delle proprie irritate reazioni, registrando poi un subitaneo movimento di comprensione: «Improvvisamente mi sembrò di comprenderlo troppo bene», che si concreta nella raffigurazione diretta delle passioni di cui Astarita era succube: «Aveva atteso quellappuntamento per non o quanti giorni [ ] non aveva fatto altro che pensare alle mie gambe, al mio petto, ai miei fianchi, alla mia bocca, e che finisce per spegnere in lei lirritazione, sostituita da costernata compassione». Si notino poi gli atteggiamenti con cui Adriana e Mino si pongono di fronte al tema esistenzialistico della scelta: Mino non trova conciliazione tra le condizioni reali della sua vita, i suoi effettivi comportamenti, da un lato, e il desiderio di darsi unidentità essenziale che egli possa riconoscere come autentica e che lo sottragga al tormentoso sentimento di mancanza al tormentoso sentimento dellassurdità del suo esistere, dallaltro. La sua consapevolezza di intellettuale, le sue elaborazioni speculative, i suoi tentativi volontaristici di partecipazione vera al mondo non riescono a produrre quella conciliazione. Limpossibilità di essa verrà sancita da un vero e proprio atto gratuito, che peserà molto sul personaggio che lha compiuto: la delazione, attraverso la quale Mino si costituisce come persona che non si piace, provocando in sé un rifiuto invincibile e definitivo di se stesso. «E qui è tutto il guaio» afferma lo stesso Mino. Diversamente da lui, Adriana è capace di non rifiutarsi per quella che gradualmente si viene costituendo nel corso della sua vita, per effetto dei suoi atti e di quelli degli altri, ossia di scegliere un atteggiamento di accettazione verso le identità essenziali che nel tempo la vengono definendo, riformando di conseguenza il progetto che ha per sé. I mutamenti di prospettiva e gli aggiustamenti progettuali costano ad Adriana sofferenza e risentimento, ma riescono a conciliarla, sia pure a volte in forme di conciliazione rassegnata, con se stessa e con il mondo. Amaro sarà per lei il dover constatare che laspirazione alla normalità, così intensamente coltivata ed intesa come «una vita tranquilla, con un marito e dei bambini», cozza contro una diversa, più potente e vera "normalità": «La normalità della vita non erano i miei progetti di felicità bensì il contrario, tutte le cose, cioè, che sono ribelli a piani e programmi, che sono casuali, che si rivelano difettose e imprevedibili, che portano delusione e dolore» (cap. VI della parte prima). E ugualmente amaro le sarà il pensare alla trasformazione, cui il comportamento di Gino lha indotta: «E pensai che ero sempre stata dolce e buona e che, forse, da quel momento non lo sarei più stata, e questo pensiero mi riempì di disperazione». Eppure, nonostante la delusione e la disperazione, Adriana riesce, tramite atti concreti (accogliendo quel Giacinti «così antipatico» nella sua «povera camera destinata ad usi tanto diversi», fingendo con Gino sentimenti che aveva provato, ma che ora non poteva più provare, a rinunciare agli antichi sogni di «farsi una vita decente e normale», e lei che si era raffigurata assieme alla madre e al fidanzato come «la sola che non recitasse una parte», a «recitare una parte come unattrice sul palcoscenico» (Cap. VIII della parte prima). Adriana affronta questi cambiamenti, accogliendo i messaggi che le arrivano dalla sfera del corporeo, per quanto li senta in contrasto con la sua volontà, con il suo cuore e con il suo animo: è il «sentimento forte di complicità e sensualità», che pare sorgere dal suo temperamento e che ella sperimenta prima con Astarita e poi con Giacinti nel ricevere denaro in cambio damore, a farle scoprire la sua vocazione e a farle capire che doveva «essere proprio fatta per quel mestiere», anche se con il cuore aspirava a cose tanto diverse. Ed è il riconoscimento della forza autonoma del corpo, che continuando a vivere in un momento in cui ella «avrebbe voluto non vivere più», incurante della volontà di lei la porta a risolversi per laccettazione pacata della vita nella nuova forma in cui le si prospetta: «Tanto valeva, pensai a mo di conclusione, adattarsi a vivere e non pensarci più» (8). Pertanto, come hanno ben evidenziato Romano Luperini ed Eduardo Melfi, «la protagonista de La romana trova nella propria passività una rivalsa naturale alle umiliazioni sociali, che le permette non solo di sopravvivere, ma di abbandonarsi alla propria vitalità sensuale. Adriana, con la sua naturalezza istintiva, riesce ad amare, mentre Giacomo, lintellettuale borghese, ne è incapace, perché osserva se stesso agire, si sdoppia in gesti e coscienza, è irrimediabilmente estraneo a tutto ciò che fa» (9). «Il rapporto che corre tra Adriana e lo studente» ha detto Moravia «è proprio quello che corre tra chi accetta il proprio destino, ossia il temperamento e le condizioni naturali sociali, e chi non le accetta. Ed è anche il rapporto tra una natura passiva, anzi la natura senzaltro, ed un principio attivo» n (10). Una simile affermazione può essere interpretata come centro ideologico dellintera opera, che trova la sua esplicita formulazione nelle parole conclusive del cap. II della parte seconda: «Così, dopo poche ore di angoscia, io rinunziai a lottare contro quello che pareva essere il mio destino, e anzi lo abbracciai con più amore, come si abbraccia un nemico che non si può abbattere; e mi sentii subito liberata. Qualcuno penserà che sia molto comodo accettare una sorte ignobile ma fruttuosa, invece di rifiutarla. Ma io mi sono sovente domandata perché la tristezza e la rabbia abitino così spesso lanimo di coloro che vogliono vivere secondo certi precetti o uniformarsi a certi ideali e perché invece coloro che accettano la propria vita, che è anzitutto nullità, oscurità e debolezza, sono così spesso gai e spensierati. Del resto, in questi casi, ciascuno obbedisce non a precetti, ma al proprio temperamento che in tal modo prende figura di vero e proprio destino. Il mio, come ho già detto, era di essere, a tutti i costi, lieta, dolce e tranquilla; e io laccettavo». (11) Vivere significa accettare la propria naturalità con passiva e ferma rassegnazione e abdicazione. Laver compreso questo, conferisce alla romana unaura di saggezza, come era nelle intenzioni dellautore, il quale ha dichiarato: «Con La romana ho voluto creare la figura di una donna piena di contraddizioni e di errori e, ciò nonostante, capace per forza ingenua di vitalità e slancio daffetto di superare queste contraddizioni e di rimediare a questi errori, e giungere ad una chiaroveggenza e ad un equilibrio che ai più intelligenti e ai più dotati spesso sono negati». A cura della Redazione Virtuale Milano, 13 febbraio 2002
1) G. Pandini, Invito alla lettura di Moravia, Milano 1989, p. 90. |
![]() |
|
![]() |
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
|
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
I commenti dei lettori
|
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
|
||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
|
![]() |