Il disprezzo si snoda nella Roma medio borghese degli anni ’50, tutta ipocrisia e opportunismo. Qui Alberto Moravia colloca Riccardo Molteni e la moglie Emilia

ITALIALIBRI - RIVISTA MENSILE ONLINE DI LIBRI ITALIANI, BIOGRAFIE DI AUTORI E RECENSIONI DI OPERE LETTERARIE


La romana (1947)



Alberto Moravia, La romana
Tascabili Bompiani, 2001
pp. 512 Euro 9,30.

critto tra il ’43 e il ’46 e pubblicato nel 1947, La romana segna una tappa importante nello sviluppo della narrativa di Moravia. Protagonista del romanzo, ambientato a Roma al tempo della guerra d’Etiopia, è una straordinaria figura femminile profondamente viva e moderna, Adriana, un’attraente diciottenne.

In questo romanzo lo scrittore si dimostra incline alla pietà, novità questa che conferisce all’opera un carattere diverso rispetto alle motivazioni moraviane dell’indifferenza e del disgusto della vita, quali si riscontrano nei romanzi precedenti: l’ideologia dell’autore è “riveduta” in virtù di un sentimento che si eleva al di sopra delle vicende, delle afflizioni e dei turbamenti quotidiani.

Moravia ha travasato ne La romana la concezione pessimistica della vita, elaborata nell’arco di quasi vent’anni, senza mai renderla così elementare ed esplicita. Ancora una volta ci si trova di fronte a personaggi tarati o afflitti dal “male di vivere” e qui, come fa notare il Pandini, «appesantiti da intellettualistiche velleità dimostrative o esplicative, le quali assumono una loro falsa risonanza, sotto il peso di un’allegoricità e di un ideologia inautentiche, che soffoca quegli stessi personaggi, facendone le maschere di una verità nient’affatto universale e soltanto moraviana».(1)

Il Pandini inoltre si dimostra alquanto scettico «di fronte alla costruzione dei personaggi e al mondo narrativo, che non riesce quasi mai ad elidere alcuni stridori di interpretazione, come il fatto che una prostituta, che narra le proprie esperienze e vicissitudini in prima persona, usi un linguaggio assolutamente improbabile per la sua condizione, o si ponga delle domande sull’esistenza così sottili e profonde da renderle in lei poco credibili».(2)

Davide Conrieri, analizzando una delle sequenze iniziali del romanzo (3), fa notare che «alla voce della protagonista-narratrice del romanzo si sovrappone o si sostituisce un’altra voce, che dice per lei parole che possono bensì esprimere i suoi sentimenti, ma che non le si possono attribuire verosimilmente. […] Così il lettore si trova ad intuire fin da subito, dalle primissime mosse del romanzo, che in esso il realismo moraviano non è vincolato a una misura mimetico-naturalistica, ad un adeguamento linguistico che presumibilmente avrebbe il linguaggio della protagonista narratrice, ove ce la trovassimo davanti in carne ed ossa» (4). A parte le dovute eccezioni, come ad es. la descrizione della visita al pittore nel cap. I, il linguaggio di Adriana non solo si allontana volutamente da coloriture dialettali e da un piano di realismo linguistico direttamente documentario, ma si sottrae pure al livello espressivo di una popolana di Roma, quale la ragazza ama definirsi.

Pertanto il realismo moraviano non va inteso sic et simpliciter come attribuzione ad ogni personaggio del linguaggio che gli è proprio, ma si configura piuttosto come “realismo psicologico”. Nell’intero romanzo, infatti, come ha ben sottolineato il Conrieri, «l’inventività linguistica è posta al servizio di un impegno di descrizione e di scrutinio degli atteggiamenti morali, tesa a rendere verbalmente, con la massima esattezza possibile, la loro natura per lo più composita e talvolta contraddittoria, le loro sfumature, e persino a dare il senso della loro non piena affabilità (‘non so che’, ‘una certa’, ‘una specie di’). Forse proprio qui, in questo sforzo di accuratezza nel fissare situazioni psicologiche ed etiche, e nel ricorso a certe connessioni lessicali, è da riconoscere la punta più rilevante del manzonismo nella Romana» (5).

Adriana si duole spesso della sua “pochezza e ignoranza”, ma quando descrive situazioni e moti sentimentali lo fa con una penetrazione, con una sottigliezza e con una finezza espressiva per nulla inferiori a quelle che si riscontrano nei discorsi di personaggi-narratori moraviani di cultura e condizione sociale più elevate: si prenda, ad es., il Silvio de L’amore coniugale. Insomma, dal punto di vista della mimesi linguistica, il referto di Adriana è difettoso per eccesso, essendo il discorso della protagonista-narratrice del romanzo decisamente superiore, tanto nelle articolazioni mentali e verbali quanto nelle risorse lessicali ed espressive, alla condizione assegnatale.

La trama

Fin dall’inizio Adriana si sente portata a condurre una vita onesta, semplice e tranquilla. Vive con la madre Margherita, una modesta camiciaia che, sedotta da un ferroviere e poi abbandonata, ha maturato un vivo disgusto per la vita coniugale, fatta di sacrifici e rinunce.
In mezzo alla miseria più nera, la donna progetta un avvenire migliore, facendo affidamento sulla notevole bellezza della figlia, cui consiglia di sfruttare al meglio questa sua dote; pertanto la propone ad alcuni pittori come modella sia per trarne vantaggi economici che per far conoscere lo splendore statuario del suo corpo. Adriana alterna le lunghe ed estenuanti pose ai lavori di casa ma, contrariamente ai desideri della madre, s’innamora di Gino, un giovane autista povero e squattrinato al servizio di nobili e ricchi signori, ed in lui ripone il sogno e la speranza di un matrimonio felice.
Questi, abile nel carpire l’indole sognatrice e la buona fede della ragazza, si finge celibe e seriamente intenzionato a sposarla, mentre in realtà, da subdolo e menzognero qual è, approfitta del fiducioso amore della protagonista per sedurla. Negli studi dei pittori Adriana si lega in amicizia con una modella di nome Gisella: la ragazza, però, denota subito un temperamento diverso dal suo e un carattere orgoglioso, spigoloso e risentito; frequenta diversi uomini e si fa mantenere da un amante ricco, Riccardo, che la copre di regali e di bei vestiti. Prova invidia per l’onesto fidanzamento dell’amica e, rinfacciandole continuamente la miseria in cui vive, col pretesto di aiutarla a trovarsi un corteggiatore altolocato, non fa altro che spiare l’occasione per renderla simile a sé.
A questo punto entra nella vita di Adriana, perché s’innamora perdutamente di lei, un tal Astarita- uomo sposato, ricco e voglioso- funzionario della polizia politica fascista. Durante una gita a Viterbo egli riesce ad avere Adriana col ricatto e con ogni altro mezzo subdolo, grazie alla complicità di Gisella, che impedisce all’amica di fuggire quando l’uomo si apparta con lei, dietro la minaccia di raccontare tutto a Gino. Di fronte alla perfida crudeltà di Gisella e alla determinazione animalesca di Astarita, questa cede, ricevendo come ricompensa dal suo “corteggiatore” la somma di tremila lire, e poi cerca di dimenticare l’accaduto andandosi a confessare.
Lo stesso Astarita scopre che Gino Molinari, il fidanzato di Adriana, è gia sposato e, dopo aver convocato la ragazza nel suo elegante e imponente ufficio, le rivela ogni particolare e tutti i dati possibili. Le offre, poi, il suo amore e la sua casa, informandola di essere separato dalla moglie e in attesa dell’annullamento del matrimonio. Il disgusto e la delusione inducono la protagonista ad abbandonare i suoi buoni propositi di crearsi onestamente una famiglia: si libera in lei l’istinto che la porta ad essere amante di tutti, avviandola al suo destino di prostituta.
Adriana, tuttavia, nella sua innata bontà non riesce a concepire disegni di vendetta contro chi le ha fatto del male. Chiede a Gino di condurla nella villa dove egli presta i suoi servigi e di fare l’amore nel letto della padrona, nonché di lavarsi nel bagno di lei, cosa che ottiene con una certa difficoltà da parte del fidanzato, che teme di perdere il posto, al quale nel suo egoismo tiene tanto. Poi, dopo l’amore, riceve la conferma di quanto riferitole da Astarita e, nella stanza della padrona, ella ruba un portacipria d’oro massiccio con rubino, oggetto di grande valore, facendo ciò perché il giovane capisca a quale stato di abiezione l’abbia fatta giungere con i suoi inganni.
Scoperto il furto e timoroso di essere licenziato, Gino in un primo momento reclama da Adriana la restituzione del portacipria e la ragazza acconsente, anche per impedire che venga arrestata una cameriera innocente, ma successivamente spinge la sua insensibilità morale fino a far vendere l’oggetto da un certo Sonzogno e a perfezionare addirittura l’accusa contro la cameriera, mettendo nella stanza di lei dei dollari rubati. Inoltre se ne vanta con la protagonista come se si trattasse di una bella azione. Risentita, Adriana si sbarazza per sempre di Gino facendolo eliminare da Sonzogno, che ha conosciuto qualche tempo prima, ma fatalmente diventa anche l’amante di questo pericolosissimo individuo, un delinquente “dal pugno proibito” e dalla forza spropositata, dall’animo malvagio e insensibile, che ama a suon di sberle ed è sempre pronto ad offendersi e ad usare le mani anche con le donne: durante un loro incontro, questi le confida di aver ucciso barbaramente un gioielliere per un portacipria e le regala l’oggetto, ma la ragazza, riconosciuta la refurtiva e chiesto consiglio ad Astarita, restituisce il portacipria tramite il confessore, facendo in modo che la cameriera arrestata innocentemente sia liberata.
Nel frattempo Adriana e Gisella conoscono, sul marciapiede, Giancarlo e Giacomo. Il primo, molto ricco, regala un appartamento a Gisella, che finge sempre più la sua falsa e disperata felicità, mentre Adriana si innamora del secondo. Giacomo, o Mino, è il vero protagonista della seconda parte del romanzo: studente in Legge e appartenente ad una ricca famiglia della borghesia provinciale, complessato e sempre scontento di tutti e di se stesso, appare continuamente turbato da risvolti psicologici. Impegnato politicamente, trama una non ben precisata congiura antifascista e stampa, con l’aiuto di complici, dei volantini di propaganda contro il regime. Sembra deciso a perdere la vita per i suoi ideali, ma in realtà non sa bene che cosa vuole, tarato da debolezza di volontà. Con la sua anarchia improduttiva, incapace cioè di tradursi nel concreto, è indubbiamente il personaggio più sofferto dell’opera.
Qualche tempo dopo Adriana si accorge di essere incinta e scopre che il padre del bambino che aspetta è Sonzogno, ma per legare affettivamente a sé il sempre più depresso Giacomo, che è stato arrestato a causa della congiura sventata, gli fa credere che il figlio sia suo. Sonzogno si rifà vivo dalla giovane prostituta, poiché, vedendosi pedinato dalla polizia, crede che ella abbia denunciato l’omicidio da lui commesso e, giunto a casa sua, vi trova Astarita, il quale gli intima di stare alla larga dalla ragazza e lo schiaffeggia brutalmente. Adriana riesce ad ottenere che il poliziotto faccia rilasciare Giacomo, il quale in un momento di debolezza tradisce i compagni di fede politica e poi, tormentato dal rimorso che gli deriva dall’irreparabilità del suo gesto, si uccide, lasciando alla protagonista lettere per il riconoscimento legale del nascituro, mentre Sonzogno, fuggito via sparando sui poliziotti, raggiunge Astarita a casa sua e l’uccide, ma, preso poco dopo, muore in uno scontro a fuoco.
Il romanzo si chiude con l’immagine fiduciosa di Adriana e del bambino che deve nascere, in un mondo meno infelice, più schietto e augurabilmente meno contrassegnato dalla violenza.

Il modello cui Moravia dichiara di ispirarsi consapevolmente nella costruzione del personaggio di Adriana è quello offerto dalla Moll Flanders di Defoe , il quale a sua volta, nella prefazione ai lettori del romanzo, si era soffermato sul linguaggio in cui è raccontata in forma autobiografica la storia della protagonista, avvertendo che il linguaggio del racconto originale e ostile della signora in questione erano stati modificati per rendere la narrazione più decorosa. Ma mentre Defoe “riscrive” il resoconto di Moll, Moravia sovrappone, come si è visto, la propria voce a quella della protagonista, mantenendo le originarie parole di questa. La battuta iniziale de La romana - «A sedici anni ero una vera bellezza»– riprende puntualmente la descrizione che Moll Flanders fa di se stessa adolescente, quando afferma di essere ritenuta «molto bella, o, se permettete, una vera bellezza» (trad. di Cesare Pavese, 1938).

Un modello siffatto permea di sé alcune linee portanti della fisionomia e del resoconto di Adriana, sicché è lecito riferire a questa alcune brillanti osservazioni che Pavese faceva a proposito di quella, come ad esempio: «Non si ferma ad annotare divertita o commossa parole o gesti caratteristici, ma di ciascun individuo coglie il significato essenziale, colto attraverso il dolore o la gioia che ne ha ricevuto», o queste altre di Virginia Woolf: «Ella deve dipendere totalmente dal proprio ingegno e giudizio, e affrontare ciascuna emergenza al suo nascere mediante una morale pratica che si è forgiata da sola nella testa». «Furba e pratica di necessità, ella è tuttavia perseguitata da un desiderio di romanticismo», romanticismo che si concreta nel desiderio di una serena, appagante vita coniugale e familiare, talvolta emergenti nel corso delle storie di Moll e di Adriana (6).

Queste osservazioni giustificano la sfasatura tra condizione sociale e culturale della protagonista e la qualità del suo discorso, che lungi dal denotare una manchevolezza dell’autore nei confronti del realismo linguistico, tendono ad additare la direzione peculiare entro cui esso si muove, la quale si prefigge appunto come scopo, la raffigurazione e la resa verbale più precise e sottili possibili della vita psicologica ed etica dei personaggi, disposta a sacrificare esigenze anch’esse "realistiche", ma avvertite come secondarie. Del resto sulla pagina letteraria il realismo assume sempre e inevitabilmente una forma particolare: quella che un dato scrittore in una data occasione ricerca riesce ad ottenere.

Ne La romana, la volontà di rappresentare realisticamente la dinamica interiore dei personaggi attraverso un linguaggio che ne renda con la massima esattezza e nettezza i movimenti bruschi o lenti, le svolte o le oscillazioni, prevale sull’esigenza che quel linguaggio risulti adeguato appieno alla condizione del personaggio che lo adopera (7). Identificare concretamente, cioè nelle vicende dei personaggi, il dato sentimentale, descriverlo con rigore, rappresentarne l’insorgenza e le manifestazioni, farne intravedere anche il carattere libero e gratuito, appare la massima forma di realismo: un realismo che coglie «il dispiegarsi della coscienza e il suo atteggiarsi in rapporto con il mondo ad essa esterno, nell’individualità dei processi interiori dei personaggi, e che insieme rimanda ad una visione generale dell’uomo e della sua esistenza». Esistenza nell’accezione tecnica dell’Esistenzialismo. Tracce di tale filosofia sono riscontrabili, appunto nell’atteggiarsi di Adriana e di Mino di fronte alla vita: entrambi i personaggi provano sentimenti di angoscia e disperazione, che nell’una, sicuramente intensi, sono tuttavia legati a crisi episodiche e destinate a risolversi, mentre nell’altro originano un tormento continuo ed implacabile, anche se talvolta è camuffato sotto l’apparenza di un’allegria e giocosità tese e crudeli.

In Mino il porsi in rapporto con gli altri in modo da ammetterne concretamente l’esistenza autonoma assume i connotati aggressivi e violenti di esperimento volontaristico dal dubbio successo, esplicitati, ad esempio, nello storcere il dito di Adriana, durante il suo primo incontro con lei, per rendersi conto, dal dolore che le ha cagionato, che ella esiste realmente – ma poi estesi a tutta la relazione che lo studente mantiene con la donna; nella protagonista, invece, tale atteggiamento prende le forme di una riuscita relazione simpatetica, che si instaura a partire da un moto spontaneo di comprensione ed immedesimazione, come accade, ad esempio, nei confronti prima di Gisella e poi Astarita: verso di essi la protagonista avrebbe, nel momento in cui si apre a capirli e a compatirli, buoni motivi di risentimento ed insofferenza, che però vengono tacitati da un impulso di partecipe intelligenza. Adriana riferisce di aver chiaramente notato come Gisella provasse nei suoi confronti dispetto e invidia, e prosegue: «ma pur comprendendola così bene, anzi appunto perché la comprendevo, ebbi compassione di lei».

Ugualmente racconta del fastidio che le procurava Astarita con atti dettati dalla sua “pazza libidine” e delle proprie irritate reazioni, registrando poi un subitaneo movimento di comprensione: «Improvvisamente mi sembrò di comprenderlo troppo bene», che si concreta nella raffigurazione diretta delle passioni di cui Astarita era succube: «Aveva atteso quell’appuntamento per non o quanti giorni […] non aveva fatto altro che pensare alle mie gambe, al mio petto, ai miei fianchi, alla mia bocca”, e che finisce per spegnere in lei l’irritazione, sostituita da costernata compassione».

Si notino poi gli atteggiamenti con cui Adriana e Mino si pongono di fronte al tema esistenzialistico della “scelta”: Mino non trova conciliazione tra le condizioni reali della sua vita, i suoi effettivi comportamenti, da un lato, e il desiderio di darsi un’identità essenziale che egli possa riconoscere come autentica e che lo sottragga al tormentoso sentimento di mancanza al tormentoso sentimento dell’assurdità del suo esistere, dall’altro. La sua consapevolezza di intellettuale, le sue elaborazioni speculative, i suoi tentativi volontaristici di partecipazione vera al mondo non riescono a produrre quella conciliazione. L’impossibilità di essa verrà sancita da un vero e proprio atto gratuito, che peserà molto sul personaggio che l’ha compiuto: la delazione, attraverso la quale Mino si costituisce come persona che non si piace, provocando in sé un rifiuto invincibile e definitivo di se stesso. «E qui è tutto il guaio» – afferma lo stesso Mino.

Diversamente da lui, Adriana è capace di non rifiutarsi per quella che gradualmente si viene costituendo nel corso della sua vita, per effetto dei suoi atti e di quelli degli altri, ossia di scegliere un atteggiamento di accettazione verso le identità essenziali che nel tempo la vengono definendo, riformando di conseguenza il progetto che ha per sé. I mutamenti di prospettiva e gli aggiustamenti progettuali costano ad Adriana sofferenza e risentimento, ma riescono a conciliarla, sia pure a volte in forme di conciliazione rassegnata, con se stessa e con il mondo. Amaro sarà per lei il dover constatare che l’aspirazione alla normalità, così intensamente coltivata ed intesa come «una vita tranquilla, con un marito e dei bambini», cozza contro una diversa, più potente e vera "normalità": «La normalità della vita non erano i miei progetti di felicità bensì il contrario, tutte le cose, cioè, che sono ribelli a piani e programmi, che sono casuali, che si rivelano difettose e imprevedibili, che portano delusione e dolore» (cap. VI della parte prima).

E ugualmente amaro le sarà il pensare alla trasformazione, cui il comportamento di Gino l’ha indotta: «E pensai che ero sempre stata dolce e buona e che, forse, da quel momento non lo sarei più stata, e questo pensiero mi riempì di disperazione». Eppure, nonostante la “delusione” e la “disperazione”, Adriana riesce, tramite atti concreti (accogliendo quel Giacinti «così antipatico» nella sua «povera camera destinata ad usi tanto diversi», fingendo con Gino sentimenti che aveva provato, ma che ora non poteva più provare, a rinunciare agli antichi sogni di «farsi una vita decente e normale», e lei che si era raffigurata assieme alla madre e al fidanzato come «la sola che non recitasse una parte», a «recitare una parte come un’attrice sul palcoscenico» (Cap. VIII della parte prima).

Adriana affronta questi cambiamenti, accogliendo i messaggi che le arrivano dalla sfera del corporeo, per quanto li senta in contrasto con la sua volontà, con il suo cuore e con il suo animo: è il «sentimento forte di complicità e sensualità», che pare sorgere dal suo temperamento e che ella sperimenta prima con Astarita e poi con Giacinti nel ricevere denaro in cambio d’amore, a farle scoprire la sua “vocazione” e a farle capire che doveva «essere proprio fatta per quel mestiere», anche se con il cuore aspirava a cose tanto diverse. Ed è il riconoscimento della forza autonoma del corpo, che continuando a vivere in un momento in cui ella «avrebbe voluto non vivere più», incurante della “volontà” di lei la porta a risolversi per l’accettazione pacata della vita nella nuova forma in cui le si prospetta: «Tanto valeva, pensai a mo’ di conclusione, adattarsi a vivere e non pensarci più» (8).

Pertanto, come hanno ben evidenziato Romano Luperini ed Eduardo Melfi, «la protagonista de La romana trova nella propria passività una rivalsa naturale alle umiliazioni sociali, che le permette non solo di sopravvivere, ma di abbandonarsi alla propria vitalità sensuale. Adriana, con la sua naturalezza istintiva, riesce ad amare, mentre Giacomo, l’intellettuale borghese, ne è incapace, perché osserva se stesso agire, si sdoppia in gesti e coscienza, è irrimediabilmente estraneo a tutto ciò che fa» (9).

«Il rapporto che corre tra Adriana e lo studente» – ha detto Moravia – «è proprio quello che corre tra chi accetta il proprio destino, ossia il temperamento e le condizioni naturali sociali, e chi non le accetta. Ed è anche il rapporto tra una natura passiva, anzi la natura senz’altro, ed un principio attivo» n (10). Una simile affermazione può essere interpretata come centro ideologico dell’intera opera, che trova la sua esplicita formulazione nelle parole conclusive del cap. II della parte seconda: «Così, dopo poche ore di angoscia, io rinunziai a lottare contro quello che pareva essere il mio destino, e anzi lo abbracciai con più amore, come si abbraccia un nemico che non si può abbattere; e mi sentii subito liberata. Qualcuno penserà che sia molto comodo accettare una sorte ignobile ma fruttuosa, invece di rifiutarla. Ma io mi sono sovente domandata perché la tristezza e la rabbia abitino così spesso l’animo di coloro che vogliono vivere secondo certi precetti o uniformarsi a certi ideali e perché invece coloro che accettano la propria vita, che è anzitutto nullità, oscurità e debolezza, sono così spesso gai e spensierati. Del resto, in questi casi, ciascuno obbedisce non a precetti, ma al proprio temperamento che in tal modo prende figura di vero e proprio destino. Il mio, come ho già detto, era di essere, a tutti i costi, lieta, dolce e tranquilla; e io l’accettavo». (11)

Vivere significa accettare la propria “naturalità” con passiva e ferma rassegnazione e abdicazione. L’aver compreso questo, conferisce alla “romana” un’aura di saggezza, come era nelle intenzioni dell’autore, il quale ha dichiarato: «Con La romana ho voluto creare la figura di una donna piena di contraddizioni e di errori e, ciò nonostante, capace – per forza ingenua di vitalità e slancio d’affetto – di superare queste contraddizioni e di rimediare a questi errori, e giungere ad una chiaroveggenza e ad un equilibrio che ai più intelligenti e ai più dotati spesso sono negati».

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 13 febbraio 2002
© Copyright 2002 italialibri.net, Milano - Vietata la riproduzione, anche parziale, senza consenso di italialibri.net


Note

1) G. Pandini, Invito alla lettura di Moravia, Milano 1989, p. 90.
2) G. Pandini, op. cit. ibidem
3) «Il pittore, intanto, mi aveva fatto distendere sopra un sofà in fondo allo studio e mi aveva messo in posa, piegandomi lui stesso le braccia e le gambe nell’atteggiamento che desiderava; ma con una dolcezza riflessiva ed astratta, come se mi avesse già veduto nel modo che voleva ritrarmi». Questa "dolcezza riflessiva ed astratta" del pittore, nota il Conrieri, è determinata con troppa precisione per uscire dalle labbra della protagonista
4) Cfr. l’ Introduzione a cura di Davide Conrieri, premessa in A. Moravia, La romana, Bompiani, Milano 1998, pag. IV.
5) Cfr., per questa e le citazioni successive, l’ Introduzione citata.
6) Tra Moll ed Adriana vi è però una differenza: entrambe riconoscono di essere state indotte a prostituirsi dalla povertà e dal bisogno, ma a differenza della prima, l’altra unisce alla miseria la sua naturale propensione. Si veda infra.
7) Per spiegare una simile prevalenza, mette ben in evidenza il Conrieri, «si potrebbe certo richiamare in termini generali la propensione di Moravia alla descrizione di atteggiamenti interiori, con un gusto ed acume da moralista, che lo porta a studiarne e a registrarne le gradazioni, commistioni o dissonanze, ma poi occorre puntare su indicazioni più specifiche. Adriana, nel capitolo decimo della parte seconda, al termine di un esame della propria disposizione passionale nei confronti di vari uomini, dopo aver concluso «tutto questo mi sembrava strano e al tempo stesso spaventoso», enuncia un principio di determinante importanza, oltre che per intendere la sua psicologia, anche per comprendere gli intendimenti centrali del romanzo: «I sentimenti sono la sola cosa che non si possa né smentire, né rifiutare, né, in un certo senso, analizzare». L’unico dato di realtà irrefutabile, saldo, di incontrastabile evidenza, che si afferma perentoriamente nel suo esserci immotivato, non necessario e persino assurdo – donde l’impossibilità, in certi casi, di analizzarlo, è il dato sentimentale. Lo è per la protagonista e lo è per il suo autore».
8) Anche la comprensione degli altri, fa notare il Conrieri, si connota per Adriana come «immedesimazione fisica»: egli indica l’episodio in cui la ragazza, superando un moto di irritazione verso la madre, si “cala” all’improvviso nel corpo materno, con la spontaneità che la contraddistingue («Improvvisamente provai una sensazione strana: mi parve di essere io la mamma, proprio la mamma in carne e ossa, in atto di aspettare che sua figlia Adriana, di là nella sua camera, avesse finito con il suo amante di passaggio») e chiosa con queste parole: «La comprensione piena della madre passa attraverso vivaci e turbanti sensazioni fisiche, sempre spontanee, sempre subitanee (‘Improvvisamente mi sentii avvizzita, grinzosa, slombata; e compresi che cosa fosse la vecchiaia, che non soltanto cambia la persona, ma la rende debole e incapace’)».
9) R. Luperini-E. Melfi, Neorealismo e Neodecadentismo: da Moravia a Tomasi di Lampedusa, Laterza, Bari 1980, p. 37.
10) Cfr. E. Sanguineti, Alberto Moravia, Mursia, Milano 1962, p. 91 e sgg.
11) Il grassetto è nostro





Novità in libreria...


AUTORI A-Z
A
B
C
D
E
F
G
H
I
J
K
L
M
N
O
P
Q
R
S
T
U
V
W
X
Y
Z

OPERE A-Z
A
B
C
D
E
F
G
H
I
J
K
L
M
N
O
P
Q
R
S
T
U
V
W
X
Y
Z



Per consultare i più recenti commenti inviati dai lettori
o inviarne di nuovi sulla figura e sull'opera di
Mario Tobino

|
|
|
|
|
|
|
I quesiti
dei lettori




I commenti dei lettori


I nuovi commenti dei lettori vengono ora visualizzati in una nuova pagina!!

Matteo D'Elia, (frizzola@hotmail.com), taranto, 10.06.2002

E' sicuramente un libro molto interessante dal quale si evince l'ostiltà del Moravia verso la borghesia e i suoi difetti. Un libro comunque molto intrinsenco di senso umano. Il Moravia si sofferma molto nella descrizione dei suoi personaggi cercando di farli immaginare al lettore.




http://www.italialibri.net - email: - Ultima revisione Gio, 27 lug 2006

Autori | Opere | Narrativa | Poesia | Saggi | Arte | Interviste | Rivista | Dossier | Contributi | Pubblicità | Legale-©-Privacy