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Il sorriso dell'ignoto marinaio (1976)



Vincenzo Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio
Mondadori, 1996,
pp. 160/ Euro 13,94

«A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?» si chiede Leonardo Sciascia (Scritti d’arte, RCS Libri, 2000) «Al mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede sui banchi della destra e a quello che siede sui banchi della sinistra, al contadino e al principe del foro; somiglia a chi scrive questa nota (ci è stato detto); e certamente assomiglia ad Antonello. E provatevi a stabilire la condizione sociale e la particolare umanità del personaggio. Impossibile. È un nobile o un plebeo? Un notaro o un contadino? Un pittore, un poeta, un sicario? Somiglia, ecco tutto».

Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) è una rassomiglianza, quella con il giovane innamorato della figlia dello speziale di Lipari, la causa del passaggio di mano del ritratto di Antonello da Messina: dallo speziale al barone di Mandralisca, uno scienziato naturalista che si occupa della ricerca e della catalogazione delle lumache. Quest’uomo di studio, che da giovane aveva partecipato ai moti del ‘48, si diletta a raccogliere reperti archeologici e oggetti d’arte che colleziona nella sua casa-museo di Cefalù.

Partendo da questo avvenimento, apparentemente marginale, Il sorriso dell’ignoto marinaio ricostruisce alcuni fatti che fecero di contorno nel 1860 allo storico sbarco di Giuseppe Garibaldi in Sicilia. In particolare la narrazione di Vincenzo Consolo si concentra sugli avvenimenti che ebbero luogo ad Alcàra Li Fusi sopra i Nébrodi, un paesino dell’entroterra di Sant’Agata di Militello, dove un gruppo di contadini, avendo assalito e ucciso i dignitari locali, tra cui molti proprietari terrieri, erano stati, dallo stesso governo di liberazione, processati e condannati.

I contadini avevano visto nell’Unità d’Italia la possibilità di ristabilire la giustizia che da sempre era stata loro negata, e la speranza di partecipare a una società che tenesse conto anche dei loro diritti fondamentali. Romanzo storico, cominciato a scrivere nel 1963, terminato nel ‘76, Il sorriso dell’ignoto marinaio permette a Vincenzo Consolo, rievocando i fatti di cent’anni prima, di fare riferimento anche agli avvenimenti più recenti. Corrono i turbolenti anni ‘70. Anni di feroci contrapposizioni tra sindacato e industria, anni di contestazione studentesca, di tentativi di eversione e di stragi ispirate e coperte dai poteri dello Stato. Anni di accese polemiche all’interno dello stesso mondo letterario.

Consolo ha già alle spalle il primo romanzo, La ferita dell’aprile, nel quale si è liberato dei ricordi dell’infanzia: il fascismo, la guerra, lo sbarco alleato. Proprio in quel periodo si riunisce per la prima volta a Palermo il Gruppo 63, al quale aderisce un manipolo di intellettuali: Eco, Arbasino, Sanguineti, Guglielmi... I più diventeranno celebri sotto il vessillo della neoavanguardia. Consolo partecipa a questa riunione e ha modo di riflettere sulle proprie scelte stilistiche e contenutistiche, che sono orientate, al contrario, in direzione dello sperimentalismo e si rende consapevole della propria diversità. (Vedi l’intervista a Italialibri, marzo 2001).

Da questa consapevolezza nasce il linguaggio de Il sorriso dell’ignoto marinaio che l’autore porterà avanti sviluppandolo nelle opere successive. È un linguaggio in bilico tra poesia e prosa, che rieccheggia la metrica musicalità della tragedia greca. «Le montagne erano nette nella messa di cupo cilestro contro il cielo mondo, viola parasceve. Vi si distinguevano ancora le costole sanguigne delle rocche, le vene discendenti dei torrenti, strette, slarganti in basso verso le fiumare; ai piedi, ai fianchi, le chiome mobili, grigio argento degli ulivi, e qua e là, nel piano, i fuochi intensi della sulla, dei papaveri, il giallo del frumento, l’azzurro tremulo del lino.»

La trama. Enrico Pirajno barone di Mandralisca compie un trasferimento in mare, da Lìpari a Cefalù, portando con sè il ritratto che lo speziale Carnevale ha accosentito a cedergli. Sulla barca un giovane marinaio commenta col barone la vicenda del gruppo di passeggeri al seguito di un operaio delle cave di pomice, irrimediabilmente malato di silicosi, diretto al santuario della Madonna Nera di Tindaro. È il 12 settembre 1852.

Quattro anni più tardi, sotto mentite spoglie, a bordo del San Cristoforo, Giovanni Interdonato entra nel porto di Cefalù. L’uomo reca con sè una Kore di terracotta da consegnare al Mandralisca, omaggio dello speziale di Lìpari. In lui il barone riconoscerà il giovane marinaio e contemporaneamente noterà in lui un'incredibile somiglianza con il ritratto di Antonello.

Altri quattro anni e il paese di Alcàra Li Fusi è testimone di un avvenimento insolito. La messa viene interrotta dall’irruzione di un eremita che, prima di acasciarsi in preda a un male misterioso, pronuncia dal presbiterio una profezia di morte e di distruzione per tutto il paese.

Due giorni più tardi, è il 15 maggio 1860, ancora una nave, una vaporiera, entra nel porto di Sant’Agata di Militello. Porta il Mandralisca in visita all’amico Galvano, principe dei Granza Maniforti. Qui il barone scambierà due parole con un giovane prigioniero del principe, originario di San Fratello, colpevole di aver ucciso un agnello selvatico. Per questo crimine l’uomo dovrà scontare tre anni ai ferri nel carcere di Sant’Agata. Proseguirà il Mandralisca per Alcàra, ad incontrare il collega barone Crescenzio Manca, con cui pianifica una battuta alla ricerca di nuovi esemplari di lumache da catalogare.

Il 16 maggio i congiurati di Alcàra si riuniscono per decidere i particolari che porteranno alla strage del giorno dopo.

Il 9 ottobre dello stesso anno nella lettera indirizzata all’avvocato Giovanni Interdonato, divenuto nel frattempo procuratore generale della Gran Corte di Messina, il barone di Mandralisca introduce la memoria dei fatti di cui si è trovato a essere, insieme al Manca, fortuito testimone, in quel fatale 17 maggio 1960. La lettera è un’arringa in difesa degli scellerati contadini e un’occasione per lo scrittore di esprimere gli obiettivi della propria poetica letteraria.

A differenza del principe Tomasi di Lampedusa, che osserva lo svolgersi della storia con assoluto distacco, con la coscienza della vanità di qualsiasi lotta, contro un ordine che, attraverso apparenti trasformazioni, rimane in sostanza assolutamente identico e immutabile, per Consolo l’intellettuale ha il dovere di dar voce agli emarginati, ai perdenti, a coloro che brevemente hanno voluto opporsi con gesti estremi e che di conseguenza hanno dovuto affrontare un destino peggiore: la fucilazione, la detenzione.

«La proprietà, Interdonato, la più grossa mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s'è aggirata strisciando per il mondo. Per distruggere questa i contadini d'Alcàra si son mossi; e per una causa vera, concreta, corporale: la terra: punto profondo, ònfalo, tomba e rigenerazione, morte e vita, inverno e primavera, Ade e Demetra e Kore, che vien portando i doni in braccio, le spighe in fascio, il dolce melograno...».

Il romanzo si conclude con la precisa e dotta descrizione del carcere del Castello di Sant’Agata, la cui forma sinuosa ricorda proprio la perfezione della coclea degli animali, un tempo prediletti, ora ripudiati dal protagonista. Per meglio dar fiato a questi vinti lo scrittore riporta, ricopiate dai muri grondanti di disperazione, le scritte che rappresentano, come voci di fantasmi, la testimonianza elusiva del passaggio sulla terra di questi uomini disgraziati.

«Il giuoco delle somiglianze» è ancora Sciascia che parla «è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza. A chi somiglia il bambino appena nato? A chi il socio, il vicino di casa, il compagno di viaggio? A chi la madonna che è sull’altare, Il Pantocrator di Monreale, il mostro di villa Palagonia? Non c’è ordine senza le somiglianze, non c’è conoscenza, non c’è giudizio. I ritratti di Antonello ‘somigliano’; sono l’idea stessa dell’archè; della somiglianza. A ciascuno si possono adattare tutte le definizione che sono state date dei siciliani, da Cicerone a Tomasi di Lampedusa: sono chiusi, sospettosi, sofisti; amano contraddirsi e contraddire, complicare le cose con l’astuzia e risolverle con secco intelletto; sono sensuali, avidi, violenti, tesi al possesso della donna e della roba, ma in ogni loro pensiero è annidata accettata vagheggiata la morte.»

Milano, 7 gennaio 2002
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