Non è solo di carta, Uomini. è di voci, di mani (le mani degli uomini, mani piccole, grandi e protettive, calde, distanti, mani pelose che tagliano l'aria accompagnando la voce), di occhi. Occhi, soprattutto. Quelli di chi nel libro dice "io", certo, e non solo per scrutare città, paesaggi, cieli. Per scrutare occhi altrui. Bisognerebbe un giorno, azzardo, fare un inventario degli occhi, degli sguardi che si incontrano in questo libro bellissimo: sguardi ilari e dolenti, misteriosi, pieni di luce. Per chi, come Marisa Volpi, storica dellarte, conosce a fondo la potenza, la verità, l'incanto dell'occhio umano (non è forse nel vedere, nel guardare che spendiamo molto di questa vita?), per chi sa che l'arte è incontro di sguardi, scrivere diventa anche rincorrere occhi di uomini (e donne), lontani o vicini non importa, appropriarsene o riappropriarsene, palpebre che sbattono sottili come un rintocco d'orologio, come il ritmo del cuore.
Scrive Bruno Quaranta: «La perfezione, a questi uomini, la comunica chi li ritrae, inseguendoli e svelandoli in ogni anfratto. E abbaglia (allucina), tale perfezione, essendo le nostre pupille calamitate da un tempo scipito, avaro di personaggi, di caratteri, di anime. Paesaggio con figure. Un paesaggio che, dannunzianamente, è simbolo, emblema, segno, scorta a traverso il laberinto interiore. Marisa Volpi suscita (re-suscita) unItalia non calpestata, non vilipesa, non imbrattata, la sabbia magica che dissipa le polveri della realtà. Ci sono le natali Marche, di un umor nero da Leopardi incarnato. Cè una Roma non ancora ostaggio dei maxi-bacherozzi, come Mario Praz, custode di unincorrotta via Giulia, apostrofava le automobili. E una Firenze dove il Quattrocento severo è patinato da un Ottocento intimista che rende triste il silenzio e squallido il chiasso. E le Cinque Terre, e Spoleto, e Torino, e il Sud
Non scordando il mondo fuori di casa...»
Il ritmo del cuore, si diceva. «Restano solo quelle pagine che sono come uscite dal nostro fiato, che ci ha dettato la sincerità della memoria». Ricordo queste parole e non so più di chi sono. So che le pagine di Uomini hanno quel ritmo, che si nutrono di momenti, di abbracci, di passi attesi o inattesi, scaglie di mare, stanze vuote, abiti, colori delle stagioni. Di quello che resta in noi, mentre i giorni seguitano a scorrere: sedimenti.
Le lettere furono bellissime per me. E ancora oggi hanno il potere evocativo di un'estate a via Tolmino, quando guardavo gli alberi dalla finestra aspettando la posta.
È difficile riassumere quel misto di percezioni che la lettura dà, anche violente, forse perché non è riassumibile. Chiuso il libro resta come qualcosa appiccicato alle dita, una polvere magica, una e molte atmosfere addosso: vite vissute che si aggiungono a quelle di chi aveva cominciato a leggere con solo la sua piccola vita tra le mani. E poi, naturalmente, alcuni uomini di questo libro uomini da noi conosciuti attraverso libri e foto soltanto, uomini comunque a noi cari: Cesare Garboli, che troppo presto se n'è andato via, e Roberto Longhi, e Giulio Carlo Argan, e Raffaele La Capria: finisci per sentirli più vicini, più amici, come si fossero aggiunte tra noi e loro condivisioni nuove e più calde. Una stanza, un mare, un vento.
«Se tira vento la mia casa diventa inabitabile», dice Cesare del grande parallelepipedo aggrappato solidamente al terreno scosceso.
C'è uno straordinario saggio di Garboli, quello che dà il titolo a Pianura proibita, in cui si legge: «I libri trasmettono un tipo di cognizione della realtà che non appartiene alla sensazione, alla vita presente, ma alla reminiscenza. Chiamano in causa il tempo. Nati dalla memoria di chi li ha scritti, i messaggi contenuti nei libri si manifestano, e si materializzano, grazie alla memoria di chi li legge (...). I libri non sono altro che il luogo dove l'esperienza del mondo, le storie, le cose, le persone parlano e si manifestano al passato, entrando come se nulla fosse nella nostra vita presente». Come è vero tutto questo.
Uomini chiama in causa il tempo, e un poco vuole sfidarlo. Non è semplicemente un libro di ricordi. Perché per scrivere avere ricordi non basta. L'ammonimento è di Rilke: «Bisogna saperli dimenticare, quando sono troppi, e attendere con pazienza che tornino. Perché, da soli, essi non sono ancora poesia». Devono diventare «nostro sangue, sguardo, gesto e, ormai privi di nome, non possono più distinguersi da noi stessi». Questo il percorso di ogni immagine, ogni memoria, ogni volto e voce raccolta con cura nelle pagine di Uomini, che ha il respiro d'una scrittura liquida e misuratissima insieme, ma pure io credo di ogni spazio bianco, come ha insegnato Flaubert.