In "Venere privata" la vita di un giovane di buona famiglia, ricco ma solo e debole, si intreccia per caso con il dramma di una ragazza giunta a Milano dalla provincia

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Venere privata


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Giorgio Scerbanenco, Venere privata
Garzanti, Milano, 1999
L.14.000

a Milano degli anni ’60 non è solo l’opulenta città borghese che si prepara al suo futuro destino di metropoli italiana; tanti piccoli drammi personali si nascondono tra i muri grigi dei palazzi cresciuti come fiori di cemento sulla scia del boom economico. Storie di persone sole, che hanno perso la strada e non riescono a trovare un loro posto nella città moderna.

È questo il mondo narrativo di Giorgio Scerbanenco, giallista sui generis che non si preoccupa della suspense o dei colpi di scena ma, prima di ogni altra cosa, vuole ricostruire con perizia da vero romanziere il senso e il sapore di un’atmosfera esistenziale: quella della città che, da luogo di aggregazione e di progresso, si sta inesorabilmente trasformando in una metafora della solitudine. Un tema che in quegli anni ritornava di frequente nella letteratura, italiana e non solo: si pensi al Calvino di Marcovaldo, che con il suo anti-eroe trasognato e perdente contempla con un sorriso amaro il panorama della nuova società industriale.

Nulla di cui sorridere, invece, nelle pagine di Scerbanenco: i suoi quadri urbani sono immersi in un grigiore senza speranza, impietriti in un’apatia che non si lascia scuotere neppure dagli eventi più drammatici o cruenti. Con l’acume del grande scrittore, Scerbanenco riesce a percepire nella Milano dei suoi anni i germi del grande male della contemporaneità: l’indifferenza, che, come una ragnatela sottile ma robustissima, si stende su uomini e cose togliendo loro ogni vitalità, ogni entusiasmo. Ed è altissimo il prezzo da pagare, per chi cerchi di ribellarsi. Come Duca Lamberti, il protagonista di Venere privata, che è il primo dei libri dedicati alle sue indagini: un investigatore strano, approdato per caso alla lotta contro il crimine, dopo essere stato radiato dall’albo dei medici per avere praticato l’eutanasia su una paziente in agonia. E quello fu il primo, grande errore di Lamberti, il primo gesto di sfida all’indifferenza, che gli sarebbe costato, oltre alla carriera, anche alcuni anni di carcere: «dovevi lasciarla stare, era un caso penoso, ma comune, per di più con la morfina la signora Maldrigati non soffriva minimamente, bastava che lasciasse all’infermiera il compito di farle le iniezioni. Invece no, le era stato vicino in tutti i momenti possibili e aveva cercato di convincerla che non era vero che stava per morire».

Con la stessa umanità profonda e silenziosa Lamberti affronta anche i suoi casi, che non hanno mai la freddezza lucida e meccanica di un enigma da risolvere e poi dimenticare, ma conservano intatto tutto il peso e il dolore delle storie che portano con sé. Come in questo romanzo, dove la vita di un giovane di buona famiglia, ricco ma solo e debole, con un padre troppo lontano, troppo impegnato e soprattutto troppo sicuro delle proprie certezze, si intreccia per caso con il dramma di una ragazza giunta a Milano dalla provincia con una valigia piena di progetta e speranze, che viene travolta da un gioco crudele e più grande di lei. Due mondi lontanissimi, li si direbbe completamente estranei l’uno all’altro: solo la sensibilità acutissima di Duca Lamberti riuscirà a individuare quelle sottilissime relazioni che, come i fili di marionette manovrate da un capriccioso burattinaio, li hanno portati a incontrarsi per un breve ma preziosissimo momento. E, dietro quel momento, sta la soluzione del caso.

A cura della Redazione Virtuale

06 aprile 2001
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