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Vino e pane (1937)



Ignazio Silone Vino e pane
Mondadori, Oscar classici moderni, Milano 1996,
292 pp., Lire 13.000, euro 6,71

Ignazio Silone, Vino e pane
in, Romanzi e saggi
Mondadori, I Meridiani, Milano 1999,
2 voll., Lire 170.000

il secondo romanzo di Ignazio Silone. La scena si svolge prevalentemente in un paese dell’Italia centrale, nelle parole dell’autore, in «quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui e che non misura più di trenta o quaranta chilometri in un senso e nell’altro». È un palcoscenico popolato da personaggi umili, rassegnati, che trovano soddisfazione nella vivacità della lingua e nel sapore delle cose semplici, come il pane intinto nel vino, appunto.

Pubblicato nel 1937, e scritto nel periodo immediatamente successivo all’occupazione fascista dell’Abissinia, mentre a Mosca le purghe staliniane fanno strage degli ultimi residui di dissenso, Vino e pane narra le vicende di un rivoluzionario che troppo ha visto e troppo a vissuto. Contrariamente ad altri romanzi del genere, non vi si narrano avventure temerarie e azioni rocambolesche. Malato nello spirito e nel corpo, «bruciato» dalla malattia e da un inopportuno riverbero di notorietà negli ambienti della polizia politica e perciò temporaneamente costretto a un’inattiva clandestinità, Pietro Spina vive una profonda trasformazione interiore. Il fuggiasco, si rifugia in un fienile, in un paese non lontano dalla casa natale. Da lì, aiutato da un medico, vecchio compagno di scuola, riluttantemente travestito da prete («Se non ti conoscessimo» disse, «se avessimo dubitato che tu potessi fare di quest’abito un uso illecito, non te lo avremmo offerto») sotto lo pseudonimo di don Paolo Spada viene trasportato al paesino di Pietrasecca, casalinga Svizzera appenninica, capolinea della strada carreggiabile e anche, come si vedrà, dell’intera vicenda. «Non capisco come si possano costruire paesi in luoghi così stupidi» disse il prete «Se uno deve scappare di qui, quale scelta gli offrite? Non è un paese, è una trappola».

Attraverso la scrittura, Silone rielabora la propria vicenda personale: gli eventi che lo hanno portato attraverso la militanza, la relazione con la polizia, i compromessi politici nei rapporti con la dirigenza di Mosca, le pressioni da parte dei compagni, il sacrificio dei più idealisti fra i suoi compagni, il comportamento esemplare e la morte «eroica» del fratello in carcere.

Lo scrittore abbozza alcuni personaggi che caratterizzeranno vivacemente lo sviluppo della trama del libro. A partire dalle donne. La donna che, gratuitamente, gli si concede nel fienile. Bianchina, che, gravemente ammalata, don Paolo «assolve», che più tardi gli servirà da staffetta («Bianchina [...] quale fortuna che al mondo, accanto a questi porci calcolatori di uomini vi siano anche le donne»). Donne che per il loro eroismo vengono a volte ricompensate con il disprezzo, come Annina, la ragazza di Luigi Murica, il giovane collaborazionista, che fa scudo col proprio giovane corpo per coprire il suo compagno ed è per questo ripudiata.

Murica, come vedremo, è il personaggio attraverso il quale, forse più di tutti, l’autore fa parlare il suo cuore di idealista deluso, di uomo che, persi gli approdi della famiglia, della nazionalità e dei propri compagni, si ritrova a tu per tu con la sconfitta e un passato pesante.

Ma è Cristina Colamartini, insieme ideale femminile e simulacro dell’innocenza perduta di Ignazio Silone, che produce la simbologia più fosca e persistente: «A me perfino i lupi mi rifiutano» e ancora: «Il lupo capì che era ancora piccola e pensò di tornare quando fosse più grande». «Sopra la montagna ci sta una bianca agnella e un lupo nero la guarda» sentenzierà un’altra donna, Cassarola, la fattucchiera del villaggio, vaticinando quello che sarà l’esito della vicenda. Il lato oscuro avrà il sopravvento. L’ombra divorerà la luce. Il male primordiale trionferà sull’ideale. Probabilmente è quello che l’autore non cessò di aspettarsi, forse desiderò che sarebbe successo da un momento all’altro a se stesso.

Il problema dell’identità multipla e confusa di Ignazio Silone — alias Secondino Tranquilli (il suo vero nome), alias Silvestri (il suo nome da informatore della polizia) — si manifesta in un dialogo tra il finto prete e un fraterello di passaggio: «Cambiare il nome non basta, se l’acqua, le prietre, l’erba le piante, la polvere delle strade sono del paese in cui si è nati. Bisognerebbe andare lontano». «Io ero andato lontano [...] ma non ne potevo più e sono tornato». In Situazione degli ex, uno scritto del ‘42, a proposito della falsa identità, egli scriverà: «La regola del partito clandestino prescrive agli attivisti la rinunzia al nome dell’anagrafe come misura di protezione per deviare o ritardare le ricerche della polizia. Ma, toccando l’identità personale, l’effetto può alla lunga andare oltre. Come per il monaco nell’atto di entrare in ordine l’adozione di un nome di partito al momento del passaggio fuorilegge comporta [...] la rottura con la famiglia e di ogni altra relazione privata [...]. Uscirne equivale a una piccola morte. Ecco perchè la situazione traumatica dell’ex comunista può ricordare quella dell’ex frate». «Dopo anni di un uso quotidiano di carte false e nomi d’attacco, produce infatti un’impressione strana riacquistare di colpo le generalità d’origine. Può facilmente accadere che queste ci appaiano più false, o almeno più estranee delle altre [...]. Suppongo che molti riacquistino le generalità dell’anagrafe come un ennesimo pseudonimo, come una nuova e opposta necessità». E infatti Secondino Tranquilli alla fine scelse di continuare a essere Ignazio Silone.

Lo scrittore riporta nel libro una serie di naufragi di ex compagni di cui è stato probabilmente testimone anche nella vita. Il violinista Uliva: «Non sono rassegnato» disse Uliva «La vita non mi fa paura, ma ancor meno la morte. Contro questa pseudo-vita soffocata da leggi spietate, l’unica arma lasciata all’arbitrio dell’uomo è l’anti-vita, la distruzione della vita stessa». Salterà in aria con l’appartamento. Murica, forse il vero alter ego dell’autore, verrà riacciuffato dalla polizia e morirà in carcere, non prima, però, di essersi sgravato delle proprie colpe.

«Un mattino, all’uscir di casa [...] fui arrestato da due poliziotti». «[...] Il funzionario sgridò o finse di sgridare i suoi subalterni [...] Aveva notizie minuziose sulla mia famiglia e sulle difficoltà che mettevano in pericolo la continuazione dei miei studi [...]» «Accettai» «Non c’era nulla da fare. Il mio destino aveva voluto così» «Tremavo per la mia reputazione in pericolo, non per il male che facevo» «Passai dalla paura della punizione alla paura dell’impunità» «se una più sicura tecnica garantisse di tradire i propri amici, senza correre il pericolo di essere un giorno smascherato, il male diverrebbe per questo più sopportabile?» «Cominciai seriamente ad avere paura dell’assurdo» «Infine andai da don Benedetto».

Don Benedetto impersona probabilmente entrambe le figure di riferimento di Silone: don Orione, che lo raccolse nella deriva del dopo-terremoto della Marsica, che sconvolse la sua adolescenza e la sua vita, e Carl Gustav Jung, che lo aiutò con la psicanalisi a sopravvivere a un altro terremoto, quello dell’espulsione dal partito e del contenzioso con la propria coscienza. «Mi spiegò che, senza dubbio, non bisogna amare il male, ma, purtroppo, il bene spesso nasce dal male» «Quando infine egli mi congedò e mi permise di tornare a casa, mi sembrava di essere un uomo rinato». «C’è un uomo nelle vicinanze di Rocca al quale ti prego di ripetere la tua confessione».

Il libro ha anche sprazzi di umorismo in perfetto stile neorealista, specialmente quando descrive la vita durante il regime fascista. «Avete visto Pompeo?[...] Se lo trovo e non si arruola spontaneamente, com’è vero Iddio, gli sparo». «Un grido altissimo si levò dai gruppi dei notabili e dei militi, un grido ritmico, un’invocazione appassionata al capo: “CE DU, CE DU, CE DU”». O quando descrive come le virtuosissime figlie dell’ex-socialista, patriota e grande avvocato MarcoTullio Zabaglio perdano allegramente le candide mutande, ad opera dei volontari d’Abissinia.

E non mancano espressioni accorate contro i totalitarismi: «In ogni dittatura [...] un solo uomo, anche un piccolo uomo qualsiasi, il quale continui a pensare con la propria testa, mette in pericolo l’ordine pubblico».

Vino e pane è un libro catartico. In esso lo scrittore ricostruisce frammenti della propria molteplice personalità. «Il pane è fatto di molti chicchi di grano» disse Pietro. «Perciò significa unità. Il vino è fatto di molti acini d’uva, e anch’esso significa unità». Ma l’operazione non riesce perfettamente. Non stupisce che Silone abbia poi proceduto, nella sua vita, a «scrivere e riscrivere sempre lo stesso romanzo». Forse il danno era troppo esteso per poter essere rimediato. Egli riesce, nella fede cattolica, a recuperare il piacere delle cose semplici. «Il pane di grano bagnato nel vino rosso, non c’è nulla di meglio» disse il frate. Ma una parte del suoi sensi resta sempre in allarme: «Ma bisogna avere il cuore in pace.»

Vino e Pane è dunque una delle molteplici versioni del romanzo di un ragazzo sfortunato, che fu preda di uomini senza scrupoli e fu aiutato da personalità straordinarie. Al tempo stesso troppo debole per prevalere e troppo forte per soccombere, egli ha operato per tutta la vita, nell’eccessiva complicazione delle proprie vicende personali, per sfuggire a una sorte catastrofica e ha cercato nella letteratura di venire a capo di quel garbuglio inenarrabile.

«Salvato?, disse Pietro. Esiste un participio passato di salvarsi? [...] forse il domani somiglierà all’oggi. Si direbbe che noi seminiamo una semente contaminata.»

Milano, 27 giugno 2000
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