on di solo pane è un racconto. Leggendolo ho subito riflettuto su questa sua specificità testuale e mi sono chiesta il perché M. Collina la preferisca al romanzo. Daltronde tutti gli elementi necessari per uno sviluppo più lungo della storia, sono presenti. A livello tematico (il paese del sud con i suoi negozianti taglieggiati, i nuovi poveri, la legge che
la bontà non paga). A livello dei personaggi, per ciascuno dei quali lautrice molto più esplicitamente avrebbe potuto narrarci storie e vicende personali, e rapporti interpersonali. Le storie, ci ricorda Kundera in Larte del romanzo, rischiano tutte una lunghezza senza fine.
Non voglio certo sostenere che, una volta che si abbia lintelaiatura sia semplice scrivere un romanzo! Mi piace invece evidenziare come il racconto breve lasci più spazio allinventiva del lettore, come M. Collina preferisca alludere, più che narrare. Prendiamo Mosè: se ne descrivono laspetto, il comportamento; si suppone, con un forse, una precedente esistenza diversa. E noi che leggiamo siamo assolutamente liberi di figurarla come vogliamo. La semplice allusione a un passato altro ci emoziona di più di qualsiasi precisazione scritta. A tutto vantaggio, a mio modo di vedere, della nostra responsabilità di lettori.
Il verbo alludere mi manda, e non credo impropriamente, allArte poetica di Verlaine, e al suo ripudio della retorica, della satira, del patriottismo. Nella narrazione concentrata di Non di solo pane non cè un filo di retorica. Eppure, dato il tema
.
Questo è dunque un racconto e come tale punta allessenziale. Non ritengo sia un caso che M. Collina, oltre che autrice sia una delicata dicitrice, un brutto termine per indicare colei che contribuisce a restituire al testo loralità che gli spetta. Sentire e dire il suono delle parole invia al non scriverne mai una di troppo.
Appare fin troppo semplice comprendere il motivo per il quale Non di solo pane appartenga a un inedito e nuovo "Ciclo dei vinti". Non abbiamo infatti difficoltà a definirlo un racconto realistico-sociale: il narratore è assente, ci sono offerti tranches de vie di un determinato ambiente. Un certo fatalismo rimanda indubbiamente a Verga. Mi sembrano comunque più evidenti i rapporti, di analogia e dissonanza, con letica naturalista per la quale il raccontare era non solo un atto di denuncia ma il presupposto di un cambiamento per rendere meno acuto e sofferto lo sfruttamento delle classi subalterne. Questo racconto però, di diverso rispetto al modello se modello è stato-, e di sostanziale, presenta un paradosso impensabile per i naturalisti: le vittime diventano i colpevoli, il Panificio S. Francesco è oppresso da postulanti sempre più numerosi, insistenti, e talvolta aggressivi che ne decretano in pratica la rovina.
Ovvia mi pare una considerazione sul tempo che certo non è quello trascendente, e quindi non discutibile di una fiaba. Nella nostra contemporaneità il racconto va motivato, la sua ragione di essere deve apparirci esplicita. Ed ecco quindi che poco alla volta le parole dellinizio, quasi favolose per mezzo dellimperfetto, e anche vaghe (anno e luogo non sono circoscritti) ci introducono in una situazione realistica che ci appartiene, della quale comprendiamo la ragione, ma che, per un altro paradosso, non sentiamo completamente vera, captiamo che la storia forse non è neanche credibile. Eppure siamo indotti a meditare sulla sua verità, ne ricaviamo, sciogliendo anche lenigma del titolo, una morale che arricchisce la nostra coscienza. E se risponderemmo con difficoltà a chi ci interrogasse su chi sia il vero soggetto del racconto e quale ne sia invece loggetto, non avremmo invece dubbi ad affermare che quella di Non solo pane, anche se priva di eroi, -o forse proprio per questo- ci appare una avventura dei nostri tempi, unavventura che fallisce e ci invita a meditare.
Norma Stramucci
l Panificio S. Francesco sapprovvigionava di pane, pasta e biscotti freschi la gran parte degli abitanti dei quartieri centrali della cittadina. Di panetterie ce nerano altre due nei dintorni, e altre rivendite di alimentari fornivano alcune qualità di pane venuto da fuori, ma la fragranza dei prodotti venduti dal vecchio Panificio, il nitore della rivendita e il buon nome conquistato in sessantanni di conduzione familiare tramandatasi da tre generazioni, gli garantivano un primato mai messo in discussione e un incasso quotidiano di tutto rispetto. La cittadina, nel cui vecchio cuore prosperava il negozio, era un centro medio piccolo del profondo sud: strade assolate e assediate dal traffico rumoroso di giorno, ma, appena calata la sera, soltanto silenzio, noia e, talvolta, lunghe ventate dodore acre e lascivo provenienti dal mare lontano solo una decina di chilometri. Anche in tutto il resto non differiva molto dagli altri paesoni della zona, cresciuti in fretta e male attorno ad una piazza bianca e poche strade antiche abbandonate a se stesse; la periferia era abbrutita e invivibile come tante altre, gli sportelli bancari assediavano e inghiottivano le vecchie rivendite di prodotti locali, molti giovani si drogavano e trascorrevano il giorno senza occupazione, mentre un gran numero di disperati dogni nazionalità si arrangiava a sbarcare il lunario con mezzi poco ortodossi. E naturalmente la malavita -simile allombra di una meridiana che si sposta quietamente mai abbandonando il campo, e anche quando pare vinta dal buio se ne sta rincantucciata da qualche parte attendendo il momento di riapparire- sallungava senza ostacoli sullintero quadrante cittadino.
Quasi tutti i commercianti della città, infatti, avevano messo in conto, tra le spese da sottrarre allattivo, una qualche forma di compenso da devolvere alla famiglia cui dovevano rispetto, e se nerano fatti una ragione, rincuorati dallidentica sorte che tacitamente li stringeva tutti.
Solo il Panificio S. Francesco (e pochissime altre botteghe) ne era miracolosamente escluso: il vero motivo, e il perdurare di esso, era sconosciuto agli stessi proprietari, i quali avevano ormai cessato di stupirsene e rallegrarsene, considerandolo alla stregua di quella sorta dimmunità che inspiegabilmente preserva qualcuno in mezzo allimperversare duna epidemia.
Invece la nonna, Santa Di Giulio, fondatrice del premiato forno, ormai decrepita, eppure ancora lucida e attiva a suo modo, attribuiva questa inopinata fortuna al nome stesso dellesercizio, dedicato ad un santo formidabile che li avrebbe protetti da qualsiasi disgrazia a patto che si fossero sempre comportati da gente onesta e rispettosa della volontà di Dio. Ma la verità nessuno laveva mai saputa e naturalmente tutti si guardavano dal farsi troppe domande sulla faccenda.
Fino a pochi anni prima, nel vecchio centro cittadino ci si conosceva quasi tutti e in un certo modo, ci si aiutava. Non che non esistessero i poveri e i disperati, ma la questua, per esempio, era un di più a cui ricorrere solo destate, quando arrivavano, rari, i turisti stranieri, e in maggior numero, gli italiani del nord. Durante linverno, erano in pochi a stendere la mano, arrangiandosi a campare, alloccorrenza, con altri mezzi più o meno legittimi. Da qualche tempo però, larrivo in massa di clandestini sbarcati nel vicino capoluogo, e la difficile congiuntura economica che stava abbattendo una fetta di popolazione già da prima barcollante sullorlo della miseria, avevano cambiato la fisionomia della povertà di quei posti e ne avevano aumentato enormemente il peso.
Intanto, la gente degli antichi quartieri aveva imparato a riconoscere, tra i nuovi miserabili, un vecchio venuto da chissà dove, che parlava un italiano stentato e si lamentava poco. Dormiva per la strada, e quando glielo permettevano, si fermava in stazione e sappisolava per qualche ora sui treni fuori servizio o nella sala dattesa.
Aveva un aspetto stanco e malato: gli occhi azzurri spenti dalla cataratta e i piedi scalzi, rosicchiati da piaghe mai curate. Diceva di non avere un nome, ma ormai in tanti lo chiamavano Mosè per via della barba candida e lunga, come i capelli che talvolta nascondeva sotto un lurido berretto.
Quel povero cappello era il suo unico mezzo di sostentamento, ma si capiva che non era andata sempre così: forse una volta, prima di ruzzolare in miseria, la sua era stata soltanto povertà dignitosa e forse per quel motivo, non aveva ancora imparato a comportarsi come chi è costretto a vivere d'elemosine. Arrivava la mattina presto nei vicoli più trafficati, vicino al mercato, e appoggiandosi alle pareti delle case, coperto dalla stessa giacchetta buona per tutte le stagioni, reggeva in silenzio, con entrambe le mani, il suo copricapo e se lo stringeva addosso senza stenderlo mai. Lintera sua persona, il viso dai lineamenti sottili, lespressione spaventata e umile, ispiravano sentimenti di mitezza e pietà, ma difficilmente a tali sensazioni del cuore, corrispondeva, da parte dei passanti, un piccolo gesto di carità.
Qualche volta se ne andava verso sera, stremato dalla fatica di sostenersi su quei piedi malandati, con il piccolo gruzzolo di una decina di mila lire. Più spesso, non riuscendo a reggersi ancora, abbandonava il campo, quasi senza un soldo.
Una di quelle mattine, quando le gambe non lo sorreggevano più e il freddo, pur mite, dellinverno meridionale, vinceva con facilità il fragile riparo della sua giacca, trovandosi proprio nelle vicinanze del Panificio S.Francesco, si fece coraggio ed entrò. Cera un bel caldo là dentro, il locale era pieno di gente e i molti sapori, sapidi e dolci, si mescolavano allegramente svegliando lappetito.
Si fermò qualche secondo appena varcata la soglia, poi savvicinò al bancone e rivolgendosi a Rosa, nipote di Santa e attuale proprietaria del negozio, chiese con un sospiro di voce:
«Non avete un po di pane di ieri? Ho fame».
Alcuni clienti si voltarono a guardarlo, Rosa rimase immota e seria in volto per un attimo, poi, riavutasi dalla sorpresa e riacquistato il cauto sorriso che le era familiare, prese due grossi pezzi di pane appena sfornato che le stavano davanti e, dopo averli infilati in una busta di carta marroncina, glieli consegnò:
«Angelì -disse a voce alta rivolgendosi alla cassiera- batti cinquemila lire e consegna lo scontrino al signore. Ha già pagato a me».
Mosè espresse la propria riconoscenza con un sorriso umile e meravigliato, ma non riuscì a proferire parola ed uscì in fretta, quasi a voler cancellare ogni traccia di sé, con in tasca un regolare scontrino fiscale per la merce avuta in dono.
La settimana successiva luomo, convinto dalla fame, si riaffacciò al negozio e la scena si ripeté esattamente come la prima volta. E così avvenne sempre più spesso, senza ormai nemmeno più bisogno di parole. Mosè era stato ufficialmente adottato dalla famiglia Di Giulio, che ne andava fiera, e tutti -o quasi- i clienti del panificio, plaudirono a questa lodevole iniziativa.
Non era nemmeno immaginabile però, che tale novità rimanesse rinchiusa tra i muri della bottega, che per sua stessa vocazione è luogo aperto a tutti, né si poteva pensare che, in una piccola città come quella, la faccenda non diventasse, in breve tempo, di pubblico dominio. I primi segnali furono le chiacchiere: bonarie quelle dei caritatevoli e dei progressisti, ironiche quelle dei cinici, scandalizzate e feroci quelle dei benpensanti. Ma questo fu il meno: non passò molto tempo che un bel numero di disperati del luogo, extracomunitari, tossici e nullafacenti, decisero di imitare la buona trovata di Mosé.
«Angelì, il signore ha già pagato, batti lo scontrino: sono cinquemila».
Queste parole, accompagnate da un sorriso tirato, risuonavano ormai più volte al giorno nella panetteria, producendo nel tempo leffetto maligno che, mentre il numero dei finti paganti cresceva a dismisura, quello dei clienti regolari diveniva sempre più sparuto.
«Non bisogna avere timore quando si fa bene -continuava a ripetere come una litania, la vecchia Santa, mentre, rattrappita sul suo trespolo a rotelle, sgranava rosari su rosari, in onore della Madonna e del Protettore del panificio- il pane di S.Francesco non ci mancherà mai, ma non lo si deve negare a nessuno. Se si voleva far finta di niente, bisognava chiamarlo Panificio Santa Indifferenza!».
Nonostante la saggezza e la carità cristiana della vecchia padrona, la famiglia Di Giulio era sempre più preoccupata, anche perché, assistendo ogni giorno a quellandazzo, i pochi fedeli clienti che non avevano mai preso a credito nemmeno una crosta di pane, incominciarono ad aprire il conto e a pagare a fine mese.
Arrivò dicembre, la temperatura quellanno era rigida e il Panificio S.Francesco si riempiva già dalla mattina presto di postulanti sempre più numerosi, insistenti, e talvolta aggressivi: ormai pretendevano di più del solito pezzo di pane, e si fermavano a lungo per scaldarsi.
Rosa si era impegnata per agghindare il negozio e renderlo attraente in occasione del Natale, ma quasi nessuno si fermava ad acquistare i panettoni confezionati e messi in vendita appena sfornati, mentre gli altri i dolciumi natalizi, infiocchettati doro e di rosso, giacevano inutilmente ammiccanti a far da addobbi, come sagome di cartone. Trascorso anche Natale, i Di Giulio, alle prese con la chiusura dei conti e linventario di fine anno, si trovarono di fronte allinnegabile realtà: continuando così, sarebbero stati costretti a chiudere, trovandosi tutti -nonna, madre, padre e due figli- disoccupati e pieni di debiti fino ai capelli.
«Adesso basta, mamma -sinfuriò senza controllo il figlio, fornaio e principale artefice dellantico successo del panificio- così non si può continuare! Se non vogliamo chiudere e venderci anche la casa per pagare i debiti, dobbiamo smettere di accontentare tutti quei vagabondi approfittatori! Se ne vadano da unaltra parte a sfruttare
facciamo un po per ciascuno a rimetterci i clienti in onore di S.Francesco!».
Santa Di Giulio tacque per non alimentare con altre parole quello sfogo che stava per finire in bestemmia, ma in cuor suo fu certa, che da quel momento nessuno li avrebbe più aiutati miracolosamente a risalire la china, né ricompensati con abbondanza per il bene prima tenacemente perseguito e poi abbandonato e maledetto.
Poche mattine dopo, alla mesta apertura del panificio -sera allinizio dellanno nuovo- mentre i Di Giulio attendevano larrivo della solita folla di sfaccendati, decisi a negare loro, una volta per tutte, labituale sostentamento, si presentarono due giovani uomini mai visti prima: elegantemente incappottati di scuro, ai piedi scarpe nere di buona qualità, sciarpa di seta al collo e feltro calato sul capo.
Mai visti prima, ma riconoscibili allistante da chi avesse abitato per un tempo ragionevole in quella città: malavitosi, compari in visita ufficiale. La prima visita della Famiglia al Panificio S.Francesco.
Non cè ne furono altre: i nuovi arrivati riabbassarono la saracinesca dietro di loro, si guardarono intorno, uno dei due agguantò un pezzo di pane appena uscito dal forno e laltro si rivolse a Rosa, legittima titolare del panificio, con poche parole che non ammettevano repliche e avrebbero convinto qualsiasi persona di buon senso. Il forno stava per fallire e avendolo saputo in tempo, si dichiaravano disponibili ad acquistarlo per aiutarli a togliersi dai pasticci, poiché -questo lo sapevano tutti- potevano vantarsi di aver sempre dimostrato in certi frangenti unindole particolarmente sensibile.
La proposta era quella che si poteva legittimamente formulare in certe circostanze: laccollo dei debiti e una cifra simbolica per lacquisto. In alternativa, sintende, i Di Giulio avrebbero potuto sborsare mensilmente una somma ben più cospicua in cambio della protezione da quegli scansafatiche che li avevano dissanguati.
Vendettero.
Quando la primavera del Sud -che pare attendere con impazienza la fine di gennaio per tornare a riappropriarsi dei territori che le sono cari- si fu definitivamente manifestata, insieme allaria mite, satura dei profumi della campagna vicina e del mare ormai quietato, una nuova insegna apparve nei quartieri centrali della cittadina: NON DI SOLO PANE, proclamava con evangelica autorevolezza, facendo leva, per rafforzare lassunto, sui colori aggressivi e sulle luci perennemente singhiozzanti.
Sotto linsegna, completamente rinnovato, il vecchio panificio era stato trasformato in una hamburgheria di piccole dimensioni, ma unica in quel luogo, e piena di lusinghe per molti giovani perditempo.
E proprio nel centro del locale, chiassoso e ben illuminato, campeggiava (impossibile non soffermarvi lo sguardo) un grande cartello in cui si intimava perentoriamente: