in memoria di Roberto Sanesi

Di Ruben Garbellini

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«Break in the sun till the sun breaks down,
And death shall have no dominion»

«Irrompendo nel sole finché il sole non precipiterà.
E morte non avrà dominio»

(Dylan Thomas,
And death shall have no dominion)

«These fragments I have shored against my ruins»

«Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine»

(T.S.Eliot,
The Waste Land)

Roberto Sanesi
(© Alexander Hutchison)

Volgendomi, dopo mesi di doloroso allontanamento, a rivedere l'opera i Roberto Sanesi, mi accorgo che l'unica forma nella quale posso riconciliarmi con essa è quella del frammento. Sono rimasto a lungo indeciso e muto su questa situazione. Se scrivere o meno qualcosa su di lui. Non avrei mai pensato di farlo. La figura letteraria di Roberto Sanesi meriterebbe una maggiore considerazione, sia di pubblico sia di critica, per la sua opera che spazia in numerosissimi campi dello scibile, dalla traduzione alla critica, alla pittura alla poesia, alla musica. Si tratta, infatti, di un’opera che coincide con una vita intera colma di interessi e di avvenimenti, certo molteplice e muliebre e non riconducibile ad una semplificazione accademica. Dunque questo omaggio dovrà necessariamente esprimersi per frammenti; né biografia o revisione critica né istant book postumo.

Roberto Sanesi si era formato nell’ambiente milanese dell’Università Statale di Milano, in particolare con Enzo Paci. La sua prima importante apparizione avvenne nel 1951, «allorché l’editore Guanda mi affidò spericolatamente il compito di risolvere una serie di problemi di traduzione tutt’altro che facili», con riferimento alla traduzione delle poesie di Dylan Thomas. Sanesi diventerà tra i massimi anglisti italiani del secondo dopoguerra, e si prodigherà infaticabilmente per una maggiore diffusione della poesia e della cultura: nel 1998 era ancora in piena attività, quando organizzò a Verona alla Società Letteraria il Congresso «Poesia in opera», dove riuscì a portare Alain Juffroy, Giacomo Manzoni, Emanuele Severino con l’intento di costituire un Fondo Europeo della Poesia, Letteratura, Arte e Musica.

La sua passione per la poesia inglese lo portò a tradurre versi certo non di dozzina come il Milton di Paradise Lost, John Donne, Shakespeare, Marlowe, Shelley, Byron e molti altri. Alcuni mesi prima della scomparsa, alla fine dell’estate del 2000, lavorava ancora accanitamente ad una monumentale edizione dell’opera poetica di Shakespeare. Oltre alla sua ben nota attività di critico, poeta e traduttore, un altro aspetto mi pare rilevante, la lunga carriera di Sanesi nel campo dell’insegnamento, quell’impronta pedagogica che non si smorzò mai, da quando insegnava nell’immediato dopoguerra, come maestro elementare alla periferia di Milano in un istituto di orfani, i Martinitt, sino all’ultima telefonata che scambiai con lui. Non separerei troppo l’atteggiamento poetico e critico , giacché più che di un critico parlerei di Sanesi come di un indagatore delle possibilità parallele della parola. La sua esperienza umana e artistica si intreccia con le più importanti correnti e avanguardie della seconda metà del Novecento, si sposta da Milano a Parigi a Londra alla New York degli anni Sessanta, incrocia nomi quali Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo, Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginseberg, Michelangelo Antonioni, Jean-Luc Godard e la Nouvelle Vague, Thomas Stearns Eliot, Graham Sutherland, Jean Paul Sartre, Dylan Thomas e Alain Juffroy, il teatro di Beckett e la poesia visiva, la lirica e gli esperimenti sonori di John Cage, associa la direzione di importanti istituti culturali come Palazzo Grassi a Venezia e l’insegnamento in Università prestigiose come la Harward University, in una lista volutamente incompleta e quasi casuale che potrebbe continuare a lungo. E proprio alla sua opera poetica, più che a quella di traduttore e critico, mi pare di dover rivolgere, oltre ad un breve ricordo autobiografico, la mia attenzione.

II

Relentess caper for all those who step

the legend of their youth into the noon

«Un salto inesorabile per tutti quelli che sospingono
La leggenda della loro giovinezza nel pieno del meriggio»

(Hart Crane, Legend)

Avevo diciotto anni quando lo incontrai la prima volta, a Verona. Fumava passeggiando tra le due file di studenti e non aveva nulla a che fare con i docenti di liceo che avevo conosciuto sino a quel momento. Non avevo mai incontrato un poeta se non sui libri della vecchia biblioteca di famiglia, e Foscolo e Alfieri e Byron e Hemingway erano stati miei buoni amici sui vecchi testi rilegati con la garza e le lettere dorate sul dorso. Non lo capii subito, certo; come quasi tutti gli altri ragazzi non capirono un bel niente della sue dottissima lezione. Era quel suo metodo -così apparentemente frammentario e analogico- che ci lasciava sconcertati. I professori di liceo erano per la maggiore mestieranti che balbettavano a mala pena la loro lingua; Sanesi ne parlava una quantità e soprattutto le amava per quello che erano, vive o morte che fossero, greco antico o slang americano di Ferlinghetti o Ginsberg.

Coltissimo e incredibile mentre sulla vecchia lavagna di ardesia scura collegava versi greci e inglesi con la scioltezza della sua mente elastica di settantenne caparbiamente ancorato alla giovinezza. E soprattutto non aveva niente a che fare con i ritratti settecenteschi appesi nell’atrio. Quando fece una lezione sui Beatles e sul Rock americano e sull’Ecclesiaste, in completo di harris tweed color ruggine e orologio nel gilè, non era una cosa che accade tutti i giorni in un ambiente accademico italiano conservatore e ipertradizionalista. Credo che amasse intensamente la vita, e disperatamente, tali e tanti erano gli interessi della sua vulcanica attività. Ricettivo, ipersensibile, raffinato e selettivo, quasi introverso, penetrante e distaccato, conservava ancora a settant’anni la risorsa della stupefazione. Verso le quattro faceva una pausa e si sedeva sugli scalini della grande scala seduto accanto a noi a fumare la sua Chesterfield, con l’unica differenza dei capelli e della barba bianchi. Nessun professore si era mai seduto sugli scalini nella mia memoria con tanta disinvolta raffinatezza di aristocratico cinquecentesco.

Comprendeva nelle persone quel che c’era da comprendere e sul resto sorvolava, e in questo l’età e la padronanza dell’esperienza si percepivano con durezza e pesantezza. Era sempre molto impegnato e lo aspettavo con mezz’ora di anticipo quando arrivava con l’autobus delle due dalla stazione di Porta Nuova, e poi alle quattro lo accompagnavo di nuovo sino alla fermata successiva. In quelle mezz’ore e in quei mesi d’inverno e primavera cominciò senza che me ne avvedessi a lasciarmi la sua eredità. Mi consigliò e mi regalò dei libri e me ne sconsigliò altri, mi trattò duramente quando questo andava fatto e con paternità come a un nipote al quale si continui a dare del lei. Ci demmo del lei sino alla fine, anche quando lo rividi dopo che aveva avuto l’infarto e quando lo salutai l’ultima volta senza sapere, e lasciò perdere una riunione docenti per parlare con me in un’aula vuota e dirmi della simpatia reciproca e di come si era sentito male e di come l’avevano operato, e di come aveva meditato sulla morte e di come se l’era sentita vicina accanto al letto.

A Milano andavamo in giro per gallerie, mi presentava vecchi galleristi e insisteva con le segretarie per farmi avere i cataloghi, esploravamo i vecchi cortili milanesi e quando passava davanti al Jamaica diceva: «è un posto da ex», ma una volta tornò indietro e disse: «mi lasci dare un’occhiata» e guardò dentro e forse qualcuno lo salutò. Poi quando uscimmo nella luce accecante di giugno mi disse: «ci sono entrato la prima volta a sedici anni», e raccontò di un critico seduto fuori dal Jamaica che tirava noccioline americane sulla testa di Montale che passava sul tram e che Montale non capiva niente di musica, e ridemmo parecchio. Non mi forzò mai a scrivere, ma, un giorno, alla terrazza di un caffè all’aperto, dopo aver ordinato una limonata perché gli avevano tolto anche le Chesterfield, mi guardò fissamente e seccamente negli occhi e disse: «Che scriva, ma che scriva col sangue». E io lo guardai con la stessa secchezza nella tarda mattina primaverile. Mi parlava dell’estetica del frammento e di quello che per lui costituiva il sentimento dell’arte o della letteratura. Avevamo una concezione entrambi elitaria dell’arte. Ricordo il giorno della discussione della tesi. Una bella fanciulla nordica uscita da un romanzo di Marguerite Duras e io eravamo gli unici che si erano battuti per averlo come relatore. Lo aveva promesso e lo fece, con quel suo sguardo penetrante di vecchio su di noi. Ma non so se gli altri capirono. Poi io andai a vivere a Parigi e lo sentii solo per telefono prima di partire, e da quel momento egli vive unicamente nel mio ricordo. Ora io sono tornato in Italia e l’unica cosa che non ho potuto non fare è andare al cimitero. E sono certo che pure la bella fanciulla del Nord lo ha pianto e lo ricorda quanto lo ricordo io, e so che ve ne sono stati altri, affinché quel che ci ha lasciato non vada perduto, e «morte non abbia dominio».

III

At least as long as this false peacetime lasts

«Finché perdura questo falso periodo di pace»

David Gascoyne, (The Post-War Night)

La sua poesia appare come un continuo, ininterrotto susseguirsi di frammenti, dialoghi e domande posate su un identico canovaccio di tensione emotiva. «Un poeta emozionale, anzi addirittura senza eguali per il modo in cui ricordi, sensazioni e tumulti interiori nella sua voce non si decantano mai, ribollono con un pathos continuo…»: si esprime in questi termini Giacinto Spagnoletti in Storia della letteratura italiana del Novecento. Vincenzo Guarracino nell’introduzione a L’Incendio di Milano (Book Editore, 1995), dopo averlo definito «uno dei massimi poeti viventi europei» acutamente argomenta: «un poeta "emozionale": ma come andrà letta una simile precisazione? […] L’emozione, in sostanza, andrà intesa come una debolezza e un limite o come una qualità? Come un modo di vivere e di "patire" il mondo?».

Meno impulsiva di quella di un Dylan Thomas che tanto amava, l’opera poetica di Sanesi lascia comunque trapelare l’intensa passione che animava il poeta. Si vedano come esempio la serie di poesie della maturità Alter ego & altre ipotesi (1974), nelle quali la presenza del poeta è fortemente intuibile benché raramente dica "Io" in prima persona. Eppure vediamo Sanesi che gira per Milano o Londra o New York quanto vediamo Allen Ginsberg mentre scrive Howl. Appare, questa, quasi una cinica volontà di distacco, così propria delle più innovative avanguardie del Novecento, nella quale anche le ipotesi individuali diventano altre:

Fra i diversi momenti del tempo in ogni pausa,
il luogo in cui la mia poesia s’affanna
è una soglia distrutta, un tempio vuoto
dove il vento ripete un cenno incomprensibile.

La poesia di Sanesi non è solamente sperimentale, anzi posso affermare che essa è sperimentale più nel contenuto che nella forma, più nella sostanza filosofica, che nella meccanica narrativa e metrica. L’avanguardia per Sanesi costituiva un passaporto di libertà , non una tavola sulla quale effettuare semplici esperimenti verbali. Trovo che questo, riallacciato alla "capacità emozionale" riscontrata da Guarracino identifichi la letteratura di Sanesi come inesausta ricerca di significato, ancor prima che ricerca formale. Insomma è l’antica visione dantesca della poesia filosofica che si interroga su sé stessa e sul destino dell’essere nel mondo: difficile certo, ma in virtù di questa sua difficoltà essa evita le secche dell’aridità fine a sé stessa e del terribile punto di non ritorno. Aristocratico processo sì, ma non senza possibilità di sbocchi rigeneranti sul piano comunicativo.

Riflessi storici di un secolo lacerato da contraddizioni e stermini massificati e ideologie sbriciolate; materiale tramutato in un sentimento verso una poesia il cui luogo «è una soglia distrutta, un tempio vuoto»; riferimenti a quella morte del sacro e a quella incomprensione sempre maggiore cui la parola scritta va incontro: anche di questo Sanesi parlava nei suoi scritti, anche quando non erano espressamente poetici. Ma anche rimescolamento lirico (non mancano, nella sua poesia, al di là di un forte approccio narrativo, numerosi momenti di intenso lirismo). Tessuto narrativo-poetico proiettato (come nel caso della raccolta Recitazione obbligata del 1981, sintomatica sin dal titolo) in una quasi teatrale volontà di rappresentazione. E teatro e musica furono due costanti passioni e campi d’intervento che accompagnarono Sanesi per tutta una vita. Presa di coscienza non legata ad una particolare ideologia ma ad una condizione più metafisica, che riflette temi squisitamente filosofici. A questo proposito è esemplare la prima raccolta poetica, Il feroce equlibrio (1957). Il titolo, che prende avvio da una poesia scritta in riferimento ad alcune litografie di Gio’ Pomodoro (ora perdute) vale la pena di essere riportata integralmente, almeno per la visione esistenziale proposta dall’allora giovane poeta e per evitare tagli sempre nocivi alla poesia:

Il personaggio nero che si stempera
Nero di pece e di ferite, nero,
sotto un sole che è nero ed è rotondo
solo perché due vaste mani a conca
lo fecero impastato di bitume
e d’abbominio e di brusìo d’insetti,
è un pilone di roccia e fermo muove
a un cielo giallo frantumato d’elitre
fermo e veloce sotto un sole nero.
E poiché ciò che muove compie il corso
Dall’eterno all’eterno, e ciò che è mosso
Da una ferita all’altra in turbini di luce
Si dispone secondo che lo spinge
Ciò che lo muove, sole che trasuda
Grasse costellazioni di petrolio,
l’uno muoverà sempre e l’altro sarà mosso
nel feroce equilibrio di due neri.

E’ una visione metafisica ma anche orrendamente terrena nella quale si colgono echi del Jhon Donne de Il sermone della Morte così come delle più spaventose manifestazioni della ferocia dell’umano. Accanto ad espressioni come «dall’eterno all’eterno» «mosso da una ferita», figurano «grasse costellazioni di petrolio» «feroce» e «nero» dalle quali paiono emergere i fantasmi sartiani de Il rinvio o le teste cementizie e granulose della pittura lacerata di Jean Fautrier. Un equilibrio feroce, appunto, quello su cui si basa l’etica di Sanesi, contrapposto tra un desiderio e una aspirazione ad una compenetrazione cosmica e uno schianto tutto terreno e materiale con la realtà che ci circonda. E qui il parallelo con Dylan Thomas non lo troverei troppo azzardato. Per questo la sua opera poetica, ma anche critica, non può apparire a primo avviso di facile lettura e decodificazione. Spesso essa richiede un’opera di decifrazione: il Novecento è stato il secolo nel quale i linguaggi si sono andati dissolvendo in una frammentazione e probabile estraneità a sé stessi. Appaiono anche momenti di distensione, come in alcuni versi più marcatamente lirico-elegiaci:

Nel gelo precoce la foglia si sgrava del verde, l’inverno
È taciturno, non muta colore, e così manifesta
Si fa la sua nebbia radici indurite, e la fiamma che spacca
Invisibile i grumi di terra (feroce fendendo la bruna
Corteccia…

Versi nei quali si ritrovano ancora influenze indubbie dell’opera di Dylan Thomas, in un riferimento fortemente vegetativo; «Nel gelo precoce la foglia si sgrava del verde» rammenta quel «sotto una luna che si sgrava», il Thomas de Nella coscia del gigante bianco. Una materia antropologica sovrapposta o sottoposta ad una ferocia intrinseca, leopardiana (?) della natura. La sua evoluzione segue anche i suoi spostamenti. Il contatto in prima persona con la letteratura americana alla fine degli anni Cinquanta a New York, dove insegna alla Harward University a seguito della vincita del Byron Award per l’Europa, apre nuove prospettive.

Di particolare interesse fu l’incontro con la Beat Generation, quella cultura della quale «tutti noi ci siamo nutriti» e che Sanesi ebbe modo di verificare di persona, nei primissimi anni Sessanta. A New York conobbe Ginsberg, Anne Sexton, Ferlinghetti e molti altri in quegli anni che ora appartengono -per noi poco più che ventenni- già al tempo del mito . Credo che l’incontro con questa realtà metropolitana, anglofona ma radicalmente differente dalla realtà ancora elegiaca e pastorale del Galles di Dylan Thomas o Vernon Watkins, così come i processi a Ginseberg e ciò che avevano significato le fiumane di straordinarie parole di Gregory Corso, un altro degli ‘amici americani’ , contribuirono a modificare il suo linguaggio poetico.

In retrospettiva ai Juke-box all’idrogeno di Ginsberg o dietro i Love Songs della sventurata e tenera Sexton c’è la re-invenzione oltre che di un linguaggio (nello specifico l’inglese americano e lo slang) anche di una cultura. Ambiente che credo abbia contribuito notevolmente a deprovincializzare il già non troppo provinciale poeta, che vive negli Stati Uniti alcune indimenticabili esperienze di vita oltre che letterarie: incide due dischi, va a spasso con Anne Sexton o Peter Orlowski, ascolta musica, presenzia alle vernici nelle minuscole gallerie del Greenwich Village, mangia riso in compagnia di poeti bizzarri e più di una notte, disteso in cucina, dorme con la testa sotto un lavandino. Era il rifiuto di una cultura ancora bigotta e provinciale, quella dei ‘salici piangenti’ pascoliani e di un quotidiano polveroso e sommesso, era un diverso modo di far letteratura, che era anche un modo diverso di concepire la vita:

Alla stazione
Cairoli I like sex un’onda verde
Acido e un aggressivo disimpegno
Dove rintocca un angelus perpetuo
Beat martellante con viola e fucsia
Stabiliscono inquiete coincidenze
Fra due generazioni.

E’ noto
Prima o seconda persona non importa. Non è
In nessun modo un’ipotesi. Gli avvenimenti, e
Fra questi la casa di Faulkner, un nudo
Roseo disteso su un divano…

Siamo passati in un’altra dimensione, che riecheggia i versi di Ginsberg:

Sempre nei timpani il rumore
Di tram abbasso
Tosse di parafanghi di taxi - strepito di strade-
Risate & colpi di pistola riecheggianti
Su tutti i muri-
Tic sfrigolante di neon – la voce di una Miriade

È un’altra lingua frammezzata, acida, che tra due generazioni -due mondi e due culture- trova "inquiete coincidenze". Ma improvviso riappare in quel «prima o seconda persona non importa», lo spettro di Faulkner, l’“instabilità del soggetto” nella casa georgiana in decadenza sulla collina di Santuario, quel testo del quale André Malraux dirà che «è l’intrusione della tragedia greca nel romanzo poliziesco», un «caricamento di sangue pesante e di violente emozioni sulla materia etnica». E lo scandaglio si spinge senza tremori anche al supremo confronto della vita, quello con la morte e con un intravisto spettro autodistruttivo:

E tuttavia respingi
La soluzione unica, il traghetto la morte che abbaia

Analogie che trovano conferma nel profondo interesse antropologico di Sanesi non solo applicato nel campo poetico ma soprattutto in quello critico. Se la materia etnica è preponderante in un poeta da lui tradotto e commentato come Dylan Thomas, lo è altrimenti l’arcaico riferimento agli onnipresenti riti e cicli vegetativi e stagionali, intrisi di una sensibilità pànica, nei suoi commenti e nella lunga amicizia che lo legò al grande pittore inglese Graham Sutherland. Mi pare opportuno continuare a far divagare il discorso in numerose direzioni, indicandole solo come traccia di un possibile percorso, proprio perché, se la sua opera poetica -e anche certi atteggiamenti più esteriori- mi sembravano costretti entro ferree leggi interiori di ritmo, questo è per forgiare la materia bollente o per trovarne le relazioni con altre realtà, storiche e culturali.

Realtà e radici -quante volte ritorna l’idea della natura e di un radicamento nella stessa, in Roberto Sanesi come in Dylan Thomas in Henry Moore o in Sutherland?- non altrimenti districabili dall’universo nel quale il poeta si trova immerso. Un universo che comprende anche la città, o meglio una città, Milano, che da luogo definito geograficamente e nominalmente, diventa, a mio avviso, metafora e contenitore dell’espressione di un Novecento profondamente inquieto, il fantasma della grande città caleidoscopica e fagocitante, un poco la controparte italiana della brumosa città irreale, la Parigi dannata di Baudelaire, i Navigli come il putrido Tamigi di Eliot o dell’ultimo viaggio della Woolf.

Il tema del mito, dell’eterno ritorno, di un nòstos quasi omerico e di un’altrettanto ineluttabile partenza coincidono con una volontà tesa al superamento del limite. E uso il termine limite oltre che nel senso linguistico nel senso più ampio possibile. Eliot e Pound hanno inciso notevolmente su questa tematica coniugando un vero e proprio “spappolamento” del linguaggio con una re-invenzione o riutilizzazione del tema del mito. Mi sembra che Sanesi abbia proseguito questo discorso, in specie su di un versante connesso ai cicli stagionali e vegetativi. Molti suoi versi parlano di questo figurato ritorno, di una natura legata ad un mondo arcaico -quello naturale prima della grande industrializzazione del secondo dopoguerra al quale egli aveva assistito e al suo progressivo dissolversi, per poi resistere solo nelle maglie della memoria fino a tramutarlo in una personale –fors’anche tragica- elegia. Attestazione di un sopraggiunto mutamento, ma più difficilmente distinguibile:

Lì dove c’era il muro di Messer Francesco
E immagini il sentiero
Mentre l’aura notturna ti vagheggia
Dentro gli occhi assonnati come un vento chiaro,
escono ancora voci dai tombini, e appena passa un treno
del metró soffocando ripetono chi è, dove sono
come è potuto accadere…

[…]

E lei che ancora parla da lontano, segreta
Voce irrequieta che sapeva tutto
Di questo nulla compatto, indecente, dimenticato

Sono frammenti degli ultimi anni, è L’incendio di Milano del 1991.

IV

A shadow of that substance

(Percy Bysshe Shelley)

Se ho privilegiato una breve trattazione dell’opera poetica a dispetto di quella di traduttore e critico che diede maggior fama a Sanesi, è perché personalmente considero l’opera critica di Sanesi sottoposta alla sua visione poetica. Insomma il poeta emergeva dal traduttore; le sue traduzioni hanno la forza e l’arte della persuasione di una parola poetica profondamente sentita e interiorizzata. Dunque anche questo aspetto era parte di una totalità intesa in senso goethiano nell’ «essere parte di quel tutto». Le sue frequentazioni nel campo del mito, dell’etnologia e dell’antropologia lo portarono a rilevare i nessi profondi e le radici comuni di tanta opera artistica e letteraria. Su questa base si fondava profondamente il suo pensiero, su questo compì e spiegò la differenza che per esempio intercorre tra la poesia inglese e quella italiana.

L’Europa vuol dire duemilasettecento anni di Storia, vuol dire Omero, vuol dire il Mito. E primariamente, l’esigenza, la riscoperta e le infinite metamorfosi del leitmotiv del mito sacrificale, da Narciso a Adone a Cristo. Solo portando i termini di paragone al loro azzeramento storico e facendoli coincidere con un universo nel quale tutto è mescolato e perciò tutto ha pari importanza, dèi e uomini, si potrà ricavarne la sotterranea forza e visione di una cultura. Oltre a questo, è il senso di perdita del mito che -dolorosamente sacrificale in Thomas sì da trasformarlo a sua volta biograficamente in vittima, o in maniera più intellettuale e meno fisica in Eliot -era uno dei punti- chiave del suo interesse critico. C’erano dunque due ramificazioni, mi parrebbe di intravedere, da un lato la cultura classica ed europea, il filologo coltissimo e scrupoloso, dall’altro il poeta e l’uomo avido di esperienze e di conoscenza, interessato profondamente al contemporaneo come ad una mutazione genetica di qualcosa di sempreverde ed eternabile.

Parti di un "metodo" a più dimensioni, un metodo volto più ad una "logica analogica" che ad una mera consequenzialità narrativa. Per primo, solo in ordine di citazione, metterei la citata "poetica del frammento" che –viene di lontano, Novalis e lo Zibaldone leopardiano testimoni privilegiati- e da lui sostenuta come azzeramento di un punto di vista unico. Questo coincideva con la sua visione del "fare"poetico. L’idea ingenua che i poeti facessero poesia e i pittori pittura lo irritava. Mi confidò, una mattina, che prima di frequentare la Statale e seguire i corsi di Enzo Paci voleva iscriversi all’Accademia di Brera, «almeno per la tecnica, sa. Ma per quanto riguarda la scrittura, non esiste una scuola di scrittura».

In questo lo vedo erede di una tradizione romantica, non posso non pensare a un Byron , a un Faulkner o a un Hemingway («s’impara a scrivere solo scrivendo») o alla visionaria fragilità di quel Wiliam Blake del quale resta uno dei maggiori traduttori e commentatori. Ma anche ad uno sguardo visionario spalancato sull’impossibilità di comunicare direttamente il proprio pensiero -e questo era quanto, non dicendo, cercava di esprimere-. Così come c’erano metodi a disposizione ma non scuole, e dunque un metodo che può anche consistere nell’assenza di metodo, paradossalmente. Linea di pensiero per la quale non c’era possibilità diretta di spiegare la poesia.

«Sarebbe ora che la finissero con le parafrasi», diceva, seccato. Un’argomentazione difficile, questa, non certo addomesticabile, ché dell’arte aveva un concetto nobile ed elitario. Non era certo tenero durante i suoi corsi di estetica, sembrava quasi chirurgico nella sua spietata dissacrazione di personali abbandoni e confessioni. Forse perché si confidava così profondamente con la poesia da apparire impersonale. Ma costruiva una critica sul testo basandosi su elementi il più delle volte impersonali, quasi si trattasse di riordinare un puzzle. E qui ancora ritrovo quell’idea del frammento, quel voler annullare la soggettività- soprattutto e primariamente nel campo della critica -in favore di uno sguardo lucido e impietoso, che potesse coniugare Freud ed Einstein al calore sensuale delle ballate di Dylan Thomas.

Non era una contraddizione la sua, come molti dicevano: ma una logica non convenzionale. Sembrava contraddirsi quando affermava l’eredità del Romanticismo e poi citava i saggi di Thomas Stearns Eliot sul distacco poetico, per ritornare ancora a Lord Byron sugli scogli a Lerici. Forse vi era anche contraddizione, ma quella contraddizione creativa; insomma l’effetto incastro, chiaroscuro, ingranaggio. Un poco come fare la macchina infernale a teatro: ognuno inventa un movimento e quel che ne risulta diviene un qualcosa. Applicando a questo qualcosa un metodo, il risultato poteva divenire. Poteva essere. Ed è questo, l’essere, il dasèin di Martin Heiddeger uno dei punti attorno ai quali scandagliare la sua opera.

L’estetica del frammento dunque si ricompone per generare una visione che non consista nella critica soggettiva, ma in una comparazione di dati i più disparati i quali, in una valutazione d’insieme, possano donare un senso maggiore all’oggetto poetico, letterario o artistico in esame. Tecnica di scavo e di interpretazione senza la pretesa di una spiegazione univoca, ma quasi tesa al concetto di un’opera perpetuamente in fieri. In questo, era affascinato dalla casualità o sincronicità degli eventi. «Se vi cade una goccia sul disegno che state eseguendo, che fate? Lo stracciate o vi allontanate e poi tornate a guardarlo e lasciate la goccia?» Due visioni ben distinte, una apertura agli eventi esteriori visti come possibili generatori di nuove forme, un voler abolire i compartimenti stagni della creatività che lo portava ad una curiosità insaziabile. C’era un fluire quasi magmatico delle sue parole che si intersecava con la realtà, col cosmo e con la scienza. Una scioltezza di pensiero che mi ricordava Colderige.

Uno dei suoi saggi critici più noti, riguardante The Waste Land di T.S.Eliot chiarisce in modo inequivocabile questo criterio di valutazione. L’innestarsi di un pensiero umano sulle basi del mito e l’analisi del prodotto del pensiero su queste basi lo portavano ad arditi collegamenti che svelavano la remota affinità tra un testo e un altro. Cito come ultimo esempio un testo da lui molto amato quale Visione e preghiera di Dylan Thomas, che nella forma è identica ad una poesia di Simia di Rodi del III secolo avanti Cristo e alla medesima attuazione sul piano figurativo che ne fa il Pasolini di Poesia in forma di rosa.

Esemplari a questo punto sono i suoi riferimenti alla struttura visiva del sonetto, visto anzitutto come struttura grafica prima ancora che metrica e verbale (Quattro spazi doppi tra quattro spazi pieni, Quattro Quattro Tre Tre). Excursus concettuali che spaziavano senza freni e senza limiti temporali, da Cavalcanti a Zanzotto. «Un poeta è moderno nel momento in cui lo si legge», affermava. In ciò -artisticamente- non pareva perdersi nei rivoli del banalmente contemporaneo. Poiché tutto è relativo, compreso il tempo:

…così che almeno questo
Rimanga innocente, povera sadica alternativa
D’essere estraneo, sì, ma appassionatamente
.

Milano, 21 maggio 2002
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Note

1) Dylan Thomas, Poesie, Guanda 1951; trad. di R.Sanesi.
2) The Waste Land, in T.S.Eliot, Poesie, Bompiani 1961, trad. di R. Sanesi
3) in Dylan Thomas, Poesie, Guanda, 1996, pag. 16.
4) William Shakespeare, Poesie, Mondadori 2000, a cura di R.Sanesi
5) Aggiungo come nota a margine che, in alcune sue famose pagine, BAudelaire affermava essere «Il poeta il miglior critico, mentre un critico non potrà mai trasformarsi in poeta»; ribadendo dunque io concetto per il quale la critica diviene "operativa" in quanto colui che commenta l'opera ne è, ancor prima che fruitore, autore a propria volta.
6) Hart Crane, The Bridge and other Poems, Il ponte e altre poesie, a cura di Roberto Sanesi, Milano Garzanti 1976
7) In Poeti inglesi del ‘900, a cura di R.Sanesi, Bompiani 1960
8) Questa realtà in Rapporto informativo, Feltrinelli, Milano, 1966
9) Cfr., solo a titolo di paragone, l’introduzione a Laborintus di E.Sanguineti.
10) Cito Emanuele Severino, Poesia come filosofia, intervento alla Società Letteraria di Verona nel corso del Convegno Poesia in opera, 18 marzo 1999.
11) Molte sue citazioni mi riaffiorano alla memoria da conversazioni, incontri, passeggiate senz’altro ordine che quello del ricordo.
12) I nomi ricordati non sono che alcuni dei più noti, come ricordava il poeta: «…andavo a prendere il tè dal Prof. Reuben A. Brower (a volte ci incontravo Harry Levin, Eldmund Wilson, Robert Frost)…»
13) Riprendo una bella espressione di una sua celebre collega, Fernanda Pivano.
14) L’improvviso di Milano, Guanda, Parma 1967.
15) «All the time the sound in my eardrums/of trolleycars below/taxi fender cough – creack of streeds/Laughters & pistol shots echoing/at all walls/tic leaks of neon-the voice of Myriad-»; Allen Ginsberg, Aether (Etere), 28 maggio 1960, in Poesia degli ultimi americani, a cura di Fernanda Pivano, Feltrinelli 1964.
16) Cfr. André Malraux, Essais critiques, Gallimard, Paris, 1966 e W.Faulkner Santuario, introduzione di Emilio Cecchi, UTET, Vicenza 1973.
17) Lettera IX, in La cosa scritta, Guanda, Milano 1977.
18) Per una più ampia veduta sulla saggistica di Sanesi sulla poesia e la pittura anglosassoni del Novecento Cfr. La valle della visione, Garzanti, 1985. In questo testo, raccolta di saggi tra i migliori del poeta, le correlazioni antropologico-etnografiche con la poesia –di Thomas, di Blake, di Vernon Watkins ecc.- o con la grafica di Ceri Richards e i paesaggi incantati di Paul Nash o Graham Sutherland, trovano una loro completa e organica descrizione. Vedi anche Poeti inglesi del ‘900 , cit.
19) Adduco a titolo di ulteriore analisi, le note finali di The Waste Land apposte da Eliot stesso, o la sterminata opera compiuta da Pound nei Cantos. Da questi due filoni, quello più marcatamente simbolico-allegorico di Eliot e lo stravolgimento sintattico e lessicale operato da Pound traggono vita, comunque, due differenti pensieri poetici.
20) Cfr.J.W.Goethe, Faust.
21) Cfr. Percy Bysshe Shelley, Adonis.
22) Cfr. Roberto Sanesi, Byron, CEI, Milano 1966.
23) Cfr. H. Hemingway, Parla un vecchio giornalista in By-line, Mondatori 1999
24) In T.S. Eliot, Poesie, cit.
25) Paragrafo, sul disamore in L'incendio di Miano, cit.

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