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Cesare Pavese (1908-1950)



esare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, dove il padre, cancelliere del tribunale di Torino, aveva un podere. Ben presto la famiglia si trasferisce a Torino, anche se le colline del suo paese rimarranno per sempre impresse nella mente dello scrittore e si fonderanno pascolianamente con l’idea mitica dell’infanzia e della nostalgia. Il padre di Cesare muore quasi subito: questo episodio inciderà molto sull’indole del ragazzo, già di per sé scontroso e introverso.

Molti si sono occupati dell’adolescenza di Cesare, di questo ragazzo timido, amante dei libri, della natura e sempre pronto ad isolarsi dagli altri, a nascondersi, a inseguire farfalle e uccelli, a sondare il mistero dei boschi.

Davide Laiolo, suo grande amico, in un libro intitolato Il vizio assurdo tende a evidenziare due elementi fondamentali: la morte del padre e il conseguente irrigidirsi della madre che, con la sua freddezza e il suo riserbo, attuerà un sistema educativo più da padre asciutto e aspro che non da madre affettuosa e dolce. L’altro elemento è la tendenza al «vizio assurdo», la vocazione suicida. Ritroviamo infatti sempre un accenno alla mania suicida in tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all’amico Mario Sturani.

Questo mondo adolescente di Cesare, così difficile, così traboccante di solitudine e di isolamento per Monti sarebbe invece il risultato della introversione tipica della adolescenza, per Fernandez la risultante di traumi infantili (morte del padre e mondo femminile in cui viene allevato, desiderio inconscio di autopunizione). Per altri ancora invece il dramma della impotenza sessuale, indimostrabile forse, ma a momenti rintracciabile in alcune pagine de Il mestiere di vivere.

Qualunque sia l’interpretazione che si vuole dare a questi primi anni, non si può negare che si profila subito in essi la storia di un destino tragico e amaro, evidenziato da un disperato bisogno d’amore, da una ricerca di apertura verso gli altri, verso il mondo, verso le relazioni interpersonali, destino di solitudine, di amarezza, di disperata sconfitta. Una grande dicotomia tra l’attrazione per la solitudine e il bisogno di non essere solo.

Dibattuto tra gli estremi di una orgogliosa affermazione di sé e della constatazione di una sua inadattabilità alla vita, Pavese sceglie fin da ragazzo la letteratura «come schermo metaforico della sua condizione esistenziale» (Venturi), in essa cercando la risoluzione dei suoi conflitti interiori.

Studia nell’Istituto Sociale dei Gesuiti e nel Ginnasio moderno, quindi passa al Liceo D’Azeglio, dove avrà come professore un maestro d’umanità, Augusto Monti, al quale molti intellettuali torinesi di quegli anni devono tanto. L’ingresso al liceo D’Azeglio è di somma importanza per la vita di Cesare, il quale tra il 1923 e il 1926 partecipa a quel rinnovamento delle coscienze che non solo esercitava l’azione educatrice di Monti ma che trovava concretezza e palpabilità nell’opera di Gramsci e Gobetti. Dapprima Pavese è assai riluttante a impegnarsi attivamente nella lotta politica, verso la quale egli non nutre grande interesse, anche perché tende a fondere sempre il motivo politico con quello più propriamente letterario. È però attratto dai giovani che seguono Monti: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Tullio Pinelli, Massimo Mila, i quali non aderiscono né al movimento di Strapaese (legato al fascismo) né a quello di Stracittà (movimento apparentemente progressivo ma in realtà anch’esso trincerato dietro lo scudo fascista), in opposizione ai quali essi coniano la sigla Strabarriera.

Cesare trova gusto nelle discussioni, si trova a suo agio nelle trattorie, assieme agli operai, ai venditori ambulanti, alla gente qualunque: molti di questi saranno un giorno protagonisti dei suoi romanzi. Ha la sensazione di essere giovane, rinato e, negli ultimi anni dell’Università, nella sua vita privata entra colei che sarà al centro della sua anima, «la donna dalla voce rauca». Cesare appare addirittura trasformato: per tutto il tempo durante il quale ha la sensazione che questa donna gli sia vicina, diventa cordiale, umano, affettuoso, aperto al colloquio con gli altri. Quella donna gli riporta l’incanto dell’infanzia, il suo viso, quando non la sente sua non è più il mattino chiaro, è una nube, ma una nube dolcissima e, anche se vive altrove, gli riflette sempre «lo sfondo antico». Quelle colline e quel cielo tornano ancora umanissimi come il «dolce incavo della sua bocca».

Nel 1930 (a soli ventidue anni) si laurea con una tesi Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman e comincia a lavorare alla rivista «La cultura», insegnando in scuole serali e private, dedicandosi alla traduzione della letteratura inglese e americana nella quale acquisisce ben presto fama e notorietà. Gli anni del liceo e poi dell’università portano nella vita del ragazzo solitario il suggello dell’amicizia: tutto contribuisce ad umanizzare le sue rabbiose letture: le dispute letterarie, l’eccitante accostamento al mondo vietato della politica, i caffè concerto, i miti sfolgoranti dell’industria cinematografica, le marce in collina, le vogate sul Po che rinvigoriscono il suo corpo, precocemente squassato dall’asma. In confronto al paese, la città si presenta come una grande fiera, come una festa continua. Di giorno la vita è piena, i negozi sono tanti, i tram sferragliano e dovunque si ascolta musica.

Nel 1931 muore la madre, pochi mesi dopo la laurea: per l’ammirazione mai manifestata e per il rimorso di non aver mai saputo dimostrare il suo affetto e la sua tenerezza per lei, la sua morte segna un altro solco amaro nella vita dello scrittore. Rimasto solo, si trasferisce nell’abitazione della sorella Maria, presso la quale resterà fino alla morte.

Intanto sempre nel 1931 viene stampata a Firenze la sua prima traduzione: Il nostro signor Wrenn di Sinclair Lewis. Il mestiere di traduttore ha tale importanza non solo nella vita di Pavese ma per tutta la cultura, da aprire uno spiraglio a un periodo nuovo nella narrativa italiana. Con le sue traduzioni, egli dà la misura di quanto sia grande la sua ansia di libertà, la sua esigenza di rompere lo schema delle retoriche nazionalistiche e aprire a sé e agli altri nuovi orizzonti culturali, capaci di smuovere quelle incrostazioni vecchie e nuove che avevano fatto ammalare la società italiana. Egli vuole presentare coscientemente «il gigantesco teatro dove, con maggior franchezza che altrove, veniva recitato il dramma di tutti». Il fascismo negava ogni iniziativa alle grandi masse, condannava e impediva gli scioperi, mentre in quei romanzi americani si leggeva la possibilità di creare nuovi rapporti sociali.

Contro la monotonia della prosa d’arte e diversamente dall’Ermetismo, Pavese dimostrava come il contatto con le grandi masse americane attraverso quei romanzi vivificasse anche il linguaggio, con l’inserimento della parlata popolare, sì da renderlo congeniale con i nuovi contenuti. Di tutti, quello che diventa la coscienza del suo destino è Peter Mathiessen (lo scrittore della Natura: Il leopardo delle nevi, L’albero dove è nato l’uomo, Il silenzio africano NdR.), per la comune ricerca del linguaggio, per il senso tragico e per il considerare inutile la vita, nonché per l’estremo gesto suicida.

Nel 1933 sorge la casa editrice Einaudi al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo per l’amicizia che lo lega a Giulio Einaudi: questi sono gli anni dei suoi momenti migliori con «la donna dalla voce rauca», una intellettuale laureata in matematica e fortemente impegnata nella lotta antifascista: Cesare accetta di far giungere al proprio domicilio lettere fortemente compromettenti sul piano politico: scoperto, non fa il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato per sospetto antifascismo a tre anni di confino da scontare a Brancaleone Calabro. Tre anni che si ridurranno poi a meno di uno, per richiesta di grazia: torna infatti dal confino nel marzo del 1936, ma questo ritorno coincide con un’amara delusione: l’abbandono della donna e il matrimonio di lei con un altro. L’esperienza (che sarà il soggetto del suo primo romanzo, Il carcere), e la delusione giocano insieme per farlo sprofondare in una crisi grave e profonda, che per anni lo terrà avvinto alla tentazione dolorosa e sempre presente del suicidio.

Si richiude in un isolamento forse peggiore di quello adolescenziale ma ancora una volta a salvarlo è la letteratura, il suo «valere alla penna».

Nel 1936 compare a Firenze, per le edizioni Solaria, la prima raccolta di poesie Lavorare stanca che comprendeva le poesie scritte dal 1931 al 1935 e che fu letta da pochi. Una seconda edizione, comprendente anche le poesie scritte fino al 1940, fu pubblicata nel 1942 da Einaudi. In quegli anni scrive ancora racconti, romanzi brevi, saggi. Esce nel 1941 la sua prima opera narrativa, Paesi tuoi, «ambiantata in quelle colline e vigne delle Langhe, che accanto alla Torino dei viali e dei caffè, dei fiumi e delle osterie, costituisce l'altro grande luogo mitico della poetica pavesiana» (Emilio Cecchi). Sembra aver riacquistato la fiducia in se stesso e nella vita e, soprattutto frequentando gli intellettuali antifascisti della sua città, pare aver maturato anche una coscienza politica. Tuttavia non partecipa né alla guerra né alla Resistenza: chiamato alle armi, viene dimesso perché malato di asma.

Destinato a Roma per aprire una sede della Einaudi, si trova isolato e in lui prevale la ripugnanza fisica per la violenza, per gli orrori che la guerra comporta e si rifugia nel Monferrato presso la sorella, dove vivrà per due anni «recluso tra le colline» con un accenno di crisi religiosa e soprattutto con la certezza di essere diverso, di non sapere partecipare alla vita, di non riuscire aessere attivo e presente, di non essere capace di avere ideali concreti per vivere (motivi che ritorneranno nel Corrado de La casa in collina e che in un certo senso riportano alla inettitudine sveviana e quindi al Decadentismo).

Dopo la fine della guerra si iscrive al Partito comunista ma anche questa scelta, come la crisi religiosa, altro non era se non un ennesimo equivoco, una nuova maniera di prendere in giro se stesso, di illudersi di possedere quella capacità di aderenza alle cose, alle scelte, all’impegno che invece gli mancavano. La sua probabilmente era una sorta di tentativo di riparazione, di voglia di mettere a posto la coscienza e del resto ancora il suo impegno è sempre letterario: scrive articoli e saggi di ispirazione etico-civile, riprende il suo lavoro editoriale, riorganizzando la casa editrice Einaudi, si interessa di mitologia e di etnologia, elaborando la sua teoria sul mito, concretizzata nei Dialoghi con Leucò.

Recatosi a Roma per lavoro (dove soggiornerà per un periodo stabilmente, a parte qualche periodica evasione nelle Langhe) conosce una giovane attrice: Constance Dowling. È di nuovo l’amore. La giovane con le sue efelidi rosse e forse in qualche modo con una sincera ammirazione per un uomo ormai famoso e noto, ricco di intelletto e capace di una forte emotività, accende ancora una volta Cesare, ma poi va via, lo abbandona. Costance torna in America e Pavese scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

A questo secondo abbandono, alle crisi politiche e religiose che riprendono a sconvolgerlo, allo sgomento e all’angoscia che lo assalgono nonostante i successi letterari (nel 1938 Il compagno vince il premio Salento; nel 1949 La bella estate ottiene il premio Strega; pubblica La luna e i falò, considerato il suo miglior racconto) alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto non riesce più a reagire. Logorato, stanco, ma in fondo perfettamente lucido, si toglie la vita in una camera dell' albergo Roma di Torino ingoiando una forte dose di barbiturici. È il 27 agosto del 1950. Solo un'annotazione, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.».

Aveva solo 42 anni.

A cura della Redazione Virtuale

Milano, 12 luglio 2001
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Igino Criveller, Treviso, 13/10/'04

Gradita sorpresa nell'incontrare il vostro sito. e la voglia di ringraziarvi è grande. Pavese che ho scoperto in gioventù, è stato il primo autore che mi ha avvicinato alla lettura. stupendo nella descrizione della sceneggiatura dei racconti, mi ha emozionato ieri, come d'altronde adesso. Per me, positivista nato, è stato il metro per poter misurare le mie scelte e il mio crescere. E' la prima volta in trent'anni, che mi permetto un commento. Ma a Pavese lo dovevo. Grazie

Valter Fascio, Torino, 11/10/'04

Dopo Cesare Pavese è cambiato tutto, in Italia e nel mondo, nella letteratura come nella vita. Un tempo il destino ha voluto portarmi negli stessi luoghi che hanno influenzato la sua poetica: difficile mi è stato trovare l'altrove come per lui lo fu l'America. Le sue stagioni restano consegnate all'Italia di ieri; tuttavia, il mito di Cesare Pavese non si è mai spento anche in tempi molto distanti dalle sue campagne e città. Ai lettori storici se ne aggiungono sempre altri, le sue opere sono ristampate e i critici ne discutono ancora animatamente. Non è poco per uno scrittore che non ha mai fatto concessioni ai gusti del tempo e alle mode passeggere. Anche adesso che tutto è finito, molti dei problemi sollevati e sofferti da Cesare, nella vita quotidiana e nella Letteratura, ci riguardano più che mai, oggi più di ieri. What has remained unchanged, climbing up towards the ancient village, in the midst of a superb scenery, is "the gentle countryside with the few fleshy bushes, tree trunks and rugged rocks" where, on the night of San Giovanni, fires will be lit.

Emilio V., Palermo, 28/09/'04

Di Pavese avevo letto, sino a questa estate, soltanto La spiaggia. Poi ho comprato (e letto) tutte le opere. Sono arrivato a Pavese leggendo gli autori americani che aveva amato e tradotto: Lee Master, Melville, Steinbeck ecc... Consiglio queste letture per capire meglio il genio di Pavese ed il suo linguaggio, primo in Italia, moderno e scorrevole. Tutti i suoi romanzi si leggono d'un fiato.

Gianmario Moggia, Novara, 28/06/'04

Ho letto, in età giovanile, il "vizio assurdo" di Davide Lajolo e ho potuto rendermi conto della personalità fragile di Cesare. In quegli anni, ne avevo all'incirca 20, soffrivo pure io di alcune problematiche adolescenziali e un po' in Cesare mi riconoscevo, anche se non ne ho mai condiviso la "vocazione" al vizio assurdo. La vita è troppo bella per buttarla via, e una persona super intelligente come era lui non avrebbe dovuto cedere. Appunto perché era un grande, che avrebbe potuto e dovuto dare agli altri un esempio di ottimismo, anche se il tempo che lui si era trovato a vivere non gli prospettava molto di buono: il periodo fascista, la guerra e poi il dopoguerra con la guerra fredda e il mondo diviso in blocchi. C'era però, a differenza di oggi, la speranza nel "sol dall'avvenire" che avrebbe dovuto indurlo a proseguire, a dare quello che lui, ed era tanto!, aveva dentro.

Fra, 27/06/'04

LA LUNA E I FALÒ è uno dei romanzi che più mi ha toccato. Pavese, al culmine della carriera, ha saputo raccontare la dimensione archetipica dell'uomo, attraverso il mito della terra e dell'infanzia.

Francesca Sperandio, Roma, 17/06/'04

Ogni nostro pensiero come ogni nostra azione sono mossi dalla volontà di entrare in comunione con un prossimo che ci somigli e per questo ci capisca. Per alcuni questa bisogno di rispecchiarsi in qualcun altro rimane un'eterna e infruttuosa ricerca, per me così è stato finché non ho avuto tra le mani i tuoi racconti e il tuo diario.Scoprire di non essere più sola allo sbando tra disperazione e alienazione, mi ha riappacificata con me stessa, i tuoi pensieri mi consolano, mi fanno provare l'immensa gioia della condivisione, unica cura del male.La vita come dici tu stesso è il tempo concessoci per la ricerca di noi stessi, sono felice che tu ci sia riuscito, ti sei congedato dalla vita pervaso di completezza.Grazie per aver lasciato scritto ad uso di tutti, le tue minuziose riflessioni, anche nei momenti più bui trovo la luce guida del faro, e mi sento salva. Ti devo la vita!

Carmen Mazzarella, Canosa (Ba), 22/05/'04

PENSO CHE PAVESE SIA UN GRANDE DELLLA LETTERATURA LUI HA SAPUTO DARE LE PAROLE ALLE EMOZIONI... SI... QUELLE PIU' NASCOSTE...E CI FA VEDERE LA DISPERAZIONE DELLA SOLITUDINE CON OCCHI DEL POETA...LUI POTEVA TROVARE RIMEDIO MA I POETI NON LO FANNO PER TROVARE LA POESIA...CHE SI CELA NELLE FERITE PIU' DOLOROSE E SANGUINANTI.........

Luca (LucaDuca03@libero.it), 25/03/'04

Cesare Pavese mi ha affascinato da subito, da quando alle scuole medie ho letto le poesie "Mari del Sud" e "Città in campagna". Successivamente altro, quasi tutto, poesie e romanzi. Troppo grande, troppo intelligente, troppo sensibile per poter vivere serenamente in mezzo ai suoi simili. Il più grande autore italiano del '900.

Michele Lauricella Ninotta(michelelauricellaninotta@virgilio.t), Colonia (Germania), 16/03/'04

Nella mia ignoranza, descrivo Cesare come un eroe, egli con la sua narrativa mi trasporta. Non so dove...,le mie paure riaffiorano, poi svaniscono, quasi un gioco di emozioni. Il mio vuole essere un grazie, ad un uomo, un eroe la cui forza lo ha fatto vivere, e la stessa gli ha toglto la vita!

Sam Cantone (scantone@bigpond.net.au), Melbourne (Australia), 18/02/'04

Sono uno studente australiano tanto amante di Pavese che mi sta sempre accanto nella vita. Ho letto e riletto "La luna e i falo'" non so quante volte e vi trovo sempre qualcosa di nuovo che mi aiuta a capire tante cose nella vita nel cercare proprio in fondo all'anima la verita' cosi' come ha cercato di fare Pavese........

Alberto, Madrid, 05/02/'04

Ogni tanto penso a Pavese, tento d'immaginare i suoi pensieri tramite le su parole, però non ce la faccio, e poi ad un certo punto rimango triste, mai deluso.

Angelo Nicola Meola (angelnik@tiscalinet.it), Grosseto, 26/01/2004

Oh Cesare, quali angoscie ci richiami dalle tenebre ! E' così difficile soffocarle nei meandri delle nostre anime e la tua poesia le richiama, ...come Euridice, Oh Euridice. Tu ti sei voltato apposta, volevi che morisse, invece ti ha ucciso. Noi cercheremo di votlarci ed affrontarle, finché ce la faremo, finché non ne saremo soprafatti, grazie Cesare.


Luciana (lubiana@tele2.it), Roma, 03/12/03

pavese...pavese si ama:si ama il ritmo pacato dei suoi scritti,si amano le sensazioni ed i paesaggi da lui descritti,si amano i suoi personaggi,i suoi incontri.se non ci piace lo si capisce subito,leggendo le prime 20 parole,però seti piace, non lo abbandoni più


Gloria F., 27/10/'03

PENSO CHE NON SI DEBBA PARLARE DI VIZIO, BENSI' DI VIRTU'.CESARE NON DOVEVA SCUSARSI CON TUTTI. IN UN MONDO DOVE I FIGLI DI PUTTANA IMPERANO NON OCCORRONO TANTI RIGUARDI. LA TUA IMMENSA VIRTU', TUTT'ALTRO CHE ASSURDA; E' ADORNA DI CORAGGIO! TI MERITI L'ETERNITA', COSI' COME I FIGLI DI... MERITANO DI ESSERE TORTURATI E LASCIATI IN VITA AGONIZZANTI.


Harold Meddows (harold@meddows.uk), Torino, 8/10/'03

In risposta a beatrice divina: tu credi che sia debole una persona capace a trovare tutta la forza necessaria per togliersi per sempre la vita? io no. siamo noi i deboli, che continuiamo a vivere nell'angoscia....


Eva Kinska (visenna@canada.com), Varsavia, 26/09/'03

Sono polacca, ma ho studiato lingua e letteratura italiana. Ho scritto la mia tesi di laurea su Pavese. Era proprio un genio ...(si dice cosi'?)Affascinante.


Cristina (volobliquo@hotmail.com), Milano, 22/09/'03

Posso oslo dire che pavese è diventato il mio poeta preferito...se mai ne avessi avuto uno,avrei scelto lui..mi sta accanto, silenzioso in questo dolore che sto vivendo..e comprendo come si possa essere sentito lui...sono filantropica...ma sono anche...come dire..disperata!non ho lo stesso vizio assurdo che aveva lui,non ci penso proprio al suicidio!...ma lo capisco...sento nella sua solitudine che ha lui... un bacio


Beatrice Divina, 31/08/'03

I suicidi sono omicidi timidi. masochismo invece che sadismo. - il mestiere di vivere -. penso che sia una risposta abbastanza esauriente ai passati interventi. il suicida sarà si un egoista, ma soprattutto un debole. e non è una scusante.


Marco Fantelli (fantelli@libero.it), Haan (Germania), 14/08/'03

Scrivo a voi, per le belle parole, e scrivo a Lui, Ce. Ho ripreso ieri, dopo circa 13 anni, Il Mestiere di Vivere tra le mie mani. E' ingiallito e diverso. Ma le mie sottolineature e i miei commenti di quei giorni sono ancora lì. Forse per esaltare e divinizzare in maniera ancora più forte, ora, il motivo per il quale me lo sono ritrovato ieri tra le mani. Lette le vostre impressioni, aggiungo una pillola che mi trasporta compiaciuto e complice verso di Lui. Quello che amo del suo lavoro interiore è la nostra completa e viva realtà che ha compreso in modo unico. ...come lui scrive: 3 dicembre 1938 "...Leggendo non cerchiamoidee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra - che già viviamo - e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi." Grazie ancora per le vostre parole.


Giovanni Campanella, 24/05/03

Solo la presunzione porta ad credere che sia necessario essere dei sapienti per sperimentare la sofferenza. Qualsiasi incolto o ignorante può vivere profonde crisi. La stessa presunzione spinge l'uomo a credere che il suo "male di vivere" sia maggiore rispetto a quello di chiunque altro. La verità è che la stessa capacità di camminare,di scrivere, la certezza che il sole torni sempre a splendere costituiscono tesori inestimabili ampiamente degni di essere vissuti. Leopardi stesso, nel suo "Dialogo di Plotino e Porfirio", condanna il suicidio quale atto egoistico, i cui effetti sono altrettanto devastanti per le persone legate affettivamente al suicida, per le quali il fardello di dolore risulta appesantito. Il vero antidoto alla sofferenza è la lotta accanita contro la stessa sofferenza del prossimo. E davvero ci si renderà conto dell'inconsistenza di certe pene e ostinazioni. L'analisi, effettuata con l'altro, di qualsiasi dolore, porta al suo annullamento. Chi si isola dal resto del mondo, spesso, opera dentro di sé una sorta di selezione, regolata dal pregiudizio.


Enrico Savoldi (free@dog.com), Brescia, 21/05/03

Nessuno riuscirà mai a capire veramente la filosofia di pavese perché nessuno è riuscito e non riuscirà mai ad entrare nelle viscere della sua psiche; solo io, l'illuminato, ho avuto l'incredibile opportunità di aprire le porte della percezione che collegano il suo mondo pessimista con l'esterno. Solo io ho la chiave per quelle porte e per il bene dell'umanità scomparirò lasciando tutti nell'eterno dubbio.


Vasco Ryf (vasco@ryf-ti.ch), Svizzera, 11/05/03

Pavese, nel "compagno" ha visto una crescita progressiva del fascismo in Italia, secondo me è paragonabile all'evoluzione della lega.Rendiamoci conto della direzione dell'Italia che ha intrapreso verso gli altri popoli e verso l'ambiente. NO ALL'ITALIA FASCISTA


Franco Giorgi (cat@cat.com), Como, 10/05/03

Durante la mia permanenza in carcere ho potuto leggere molte opere di pavese rendendomi conto che il suo aspetto pessimistico della vita è atroce e devastante per l'animo umano.


Luca, Verona, 10/04/03

A me sembra che pavese non ha molto senso in quello che dice perche non lo so se uno si puo uccidere senza motivo solo perche sei in solitudine e senza amore


Francesco (vincenzo.digregorio@libero.it), Bari, 12/03/03

il suo libro "il compagno" secondo me e stupendo.Volevo dire solo questo


Rocco Sestito (rocc.sestito@tiscali.it ), Catanzaro, 10/03/03

Ho conosciuto Pavese da giovane. Il primo libro che mi è capitato tra le mani è stato: "Il compagno", letto avidamente ai tempi dell'università. Poi via via tutti gli altri. Con "Il Mestiere di vivere" ho conosciuto Pavese nelle pieghe della sua solitudine e della sua allucinante profondità..nella sua angoscia che sorride da sola..


Vasco Piccoli (vasco.piccoli@tin.it), treviso, 01/01/2003

Ho letto poco di questo autore; mi é rimasto impresso soprattutto "Il mestiere di vivere", un libro amaro, ma vero e profondo, che ho apprezzato tantissimo e che tanto, secondo me, deve far riflettere. Vorrei discuterne con qualcuno!


Marco (marcocos@virgilio.it), Potenza, 05.10.2002

Il mio contributo a Cesare Pavese e in particolare a Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, gli occhi della speranza, quella di vivere la felicità che diventa inesorabilmente morte e solitudine a sua volta un vizo una tensione verso una sernità irraggiungibile una gabbia un'illusione, finché non verrà la morte materiale e spirituale a liberarcene. Grazie Cesare il tuo ricordo è ancor piu sublime del suicidio tuo stesso.


Massimiliano Ortler (max.ortler@inwind.it), Mezzolombardo, Trento, 02.10.2002

Di recente ho letto La luna e i falò. E' un libro portentoso e massimamente tragico, che non lascia scampo. Insegna, a mio parere, che le idee e le aspettative, che nella fanciullezza ronzano nella mente dell'individuo come ipotesi di progetti ancora di la da venire e da realizzare, si rivelano, nell'ambito della maturità consapevole, privi di fascino, manifestamente banali, irrimediabilmente scontati. Forse ha ragione Montale quando sostiene che «l'imprevisto (e la mancanza di una pervicace volontà di sondare le pieghe più recondite delle cose umane, aggiungerei) è la sola nostra speranza".


Gnu, (gattomonello@libero.it), Napoli, 16.04.2002

Qualcuno ha scritto che più si sale sulla scala del sapere e più si soffre...Pavese doveva conoscerla bene questa sensazione. Si ama a tal punto la vita che si vuole sempre andare Oltre, scavare, scavare, guardare sotto il velo di ogni cosa per conoscere, perché non ci si riesce ad accontentare della superficie, dell'apparenza, dell'illusione delle cose. Ma si rompe inevitabilmente ogni incanto...e si sta male da cani...


Franca Bertignone (ele.veglia@libero.it), Carisio, Vercelli, 28.02.2002

Ho scoperto Cesare Pavese da adolescente e la lettura delle sue opere ha accompagnato quel burrascorso e temibile periodo che ognuno di noi attraversa. La lettura si è trasformata, piano piano, in una passione e attraverso le sue parole ho viaggiato dentro e fuori dal mondo scoprendo e conoscendo aspetti, per me nuovi, della vita. Leggendo "Il mestiere di vivere" ho compreso la complessità della vita e quando sia faticoso per gli uomini appiccicare un giorno dietro l'altro...Solo le persone che amano inesorabilmente la vita decidono di privarsene, forse perché non accettano di viverla in maniera diversa da come vogliono. Ho un solo cruccio: quante meraviglie avrebbe ancora scritto?


Ilenia Verri (ilenia.verri@libero.it), 21.10.2001

Le sue poesie sono molto belle e significative.


Lucia Salfa (pacal@nexus.it), Roma, 01.08.2001

Il commento di Lorenzo mi incoraggia ad inviarvi il mio pensiero riguardo al mio incontro con Pavese. Non ho conosciuto Pavese, non l'ho conosciuto personalmente, fisicamente, credo invece di averlo conosciuto fin troppo nelle pieghe della sua solitudine, della sua disperazione, del suo male di vivere. Non credo che un'adeguata intelligenza possa evitare il suicidio, caro Lorenzo. Credo piuttosto che una sana incoscienza possa invece permetterci di vivere le nostre giornate con una leggerezza che non appartiene più a chi è riuscito ad arrivare in fondo. Io questa leggerezza non la conosco, per mia sfortuna, ed ho allontanato la figura di Pavese dalla mia vita il giorno in cui il destino ha voluto che due miei amici, sconosciuti tra di loro, si sono suicidati.Ho bruciato il mestiere di vivere, quel giorno, sperando così di poter cancellare un lato così triste della mia vita. Non l'ho più letto, lo vedo ora impolverato di fronte a me, mi manca e so che tornerò a tenerlo tra le mie mani. Un grande autore, un grande poeta, un uomo fragile che ha saputo trasformare la sua enorme paura dell'abbandono in un'opera che non gli permetterà di essere mai abbandonato. Peccato Cesare, che non puoi vedere cosa ci hai lasciato.


Lorenzo Zupi (lore.zupi@tiscalinet.it) Cosenza, 19.07.2001

Mi piacerebbe sapere perchè un uomo intelligente, colto e famoso si sia tolto la vita così freddamente, uccidendo tutte le sue potenzialità. Ma forse è difficilecomprendere a fondo le ragioni degli altri. Certo che mi sarebbe piaciuto avere conosciuto Pavese per dirgli:"Amcico, la vita dà sempre nuove possibilità. Resisti e non soggiacere alla tentazione del vizio assurdo". Lorenzo Zupi (lore.zupi@tiscalinet.it)




http://www.italialibri.net - email: - Ultima revisione Ven, 21 lug 2006

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