Eugenio Montale, Ossi di seppia (1925)
Classici Oscar Mondadori, Milano 1991
142 pp., Lire.12.000 (Euro 6,19)
el 1925, in un momento carico di minacciosi eventi storici, in un mondo che, ridisegnato artificiosamente dalla pace di Versailles, pare sul punto di sgretolarsi e dissolversi, Montale firma il manifesto antifascista di Croce e pubblica il suo primo libro Ossi di seppia. Diversamente da quanto accade nell'opera di altri scrittori ( Ungaretti, Gadda) deboli tracce rimangono della storia, della guerra, nella sua lirica. Pur senza estraniarsi dal suo tempo, bensì andando al di là e al di fuori «di questo e quello avvenimento storico», ponendosi al di sopra dei diversi schieramenti e delle diverse tendenze intellettuali, Montale vuole che argomento della sua poesia (e... di ogni possibile poesia) sia «la condizione umana in sé considerata». E materia della sua ispirazione diviene la disarmonia che l'uomo sente con la realtà naturale e storica che lo circonda.
In piena sintonia con la voce, disorientata ed angosciata dall'inettitudine della vita, della moderna cultura italiana ed europea (da Svevo a Piradello, da Baudelaire al contemporaneo Elliot), la sua poesia tenta di rompere «la campana di vetro» sotto cui vive il mondo, di spezzare quell'ingannevole schermo di apparenza che quotidianamente nasconde la realtà e di entrare in rapporto con l'essenza nuda delle cose.
Così in Ossi di seppia il poeta si immerge nell'aspro e brullo paesaggio ligure, sentito «come universalissimo» specchio dell'accartocciata e strozzata condizione umana, e con perplessa e «triste meraviglia», ignorando l'eroica e disperata rivolta del romantico Leopardi, critica, corrode, ma soprattutto interroga «il male di vivere» facendo parlare gli oggetti, non più le parole.
Trovandosi a respirare un'aria oramai satura di parole e di poesia, Montale, diversamente da Ungaretti e dagli ermetici, non ricerca una parola pura e naturale e non cerca di estrarre dal linguaggio misteri e segreti nuovi; ma accostandosi alla poetica del «correlativo oggettivo» di Eliot (che troverà piena realizzazione in Arsenio e nelle Occasioni), cattura gli oggetti banali, quotidiani, usuali, e li trasforma non in simboli che rimandano a qualcosa d'altro, ma in emblematici equivalenti di un'emozione, di un'intuizione, di una condizione.
La poesia per Montale, infatti, «nasce dal cozzo della ragione contro qualcosa che non è ragione». Così, in Ossi di seppia, a ogni passo lo sguardo del poeta «fruga d'intorno» ricercando nella realtà concreta, opaca e amara, immobile e fissa, «in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» che è la vita, «uno sbaglio di Natura, /
l'anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità». Qualunque cosa, la più assurda imprevista e banale, il profumo dei limoni, un volto che appare all'improvviso in uno specchio d'acqua, può miracolosamente far «balzar fuori» il segreto ultimo, più autentico e profondo dell'esistenza.
Montale, tuttavia, pienamente consapevole dei limiti storici e morali della civiltà contemporanea, dopo il crollo di tutte le verità e certezze positive, sente di appartenere alla «razza di chi rimane a terra». Rifiuta, quindi, la poesia trionfalistica e celebrativa dei «poeti laureati» Carducci e D'Annunzio, e ogni facile ottimismo consolatorio. Torcendo il collo all'eloquenza, attraverso un linguaggio in cui l'aulico cozza, secondo la lezione del crepuscolarismo di Gozzano, con il prosastico, Montale offre al lettore come unico messaggio: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
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