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Rubè |
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Fin dalle prime pagine del suo romanzo, Giuseppe Antonio Borgese ci fornisce la chiave di lettura per comprendere la personalità e, di conseguenza, anche le vicende del protagonista. Tutto sta nella semplice filosofia di vita ereditata dal padre, che «giudicava che tutti, a cominciare da se medesimo, fossero intrusi in questo mondo, fuorché i geni e gli eroi». Questa sentenza inchioda Filippo Rubè a vivere la propria esistenza come («un involto che qualcuno gli avesse affidato senza dirgliene il contenuto né più passasse a ritirarlo») sospinto da unambizione disperata.
Nonostante questa "malattia", se l'Italia si trovasse a trascorrere unepoca di pacifica normalità, Rubè sarebbe sufficientemente dotato per affrontare la carriera politica, un'arena in cui i mediocri ottengono ottimi risultati. Calando a Roma, ci dice Borgese, a bottega dallonorevole Taramanna, si porta dietro tutto quello che gli serve: «una logica da spaccare il capello in quattro, un fuoco oratorio che consumava largomentazione avversaria fino allosso e una certa fiducia dessere capace di grandi cose». E fino allultimo Filippo Rubè pensa fermamente che il politico perfetto non possa essere un uomo soddisfatto di sé e della realtà, perché gli mancherebbe la motivazione per migliorare la situazione sociale. Il politico perfetto, che egli si sente di incarnare perfettamente, deve essere necessariamente un fallito. In queste affermazioni, pare di cogliere la critica a industriali e imprenditori che, proprio negli anni in cui Borgese scrive, finanziano un movimento destinato a uccidere la dialettica sociale e politica e a piombare lItalia nel baratro della dittatura. Purtroppo, lItalia soffre dalla stessa «inorganicità della memoria» che affligge il personaggio. «LItalia diceva Rubé somiglia a uno che si batte in duello a morte, e fra una ripresa e laltra si diverte a scommettere al totalizzatore sulla propria pelle». E ancora: «È la società che è infetta, [...]. Altrimenti avrebbero trovato modo di utilizzare le mie qualità, che c'erano, che c'erano, mi lasci dire...» Interventista fin dallinizio, Rubè si arruola tra i primi (facendosi raccomandare dal padre di colei che presceglierà come futura consorte), e viene mandato nelle retrovie. Attanagliato dal panico di poter scoprire di aver paura, fa di tutto per farsi mandare al fronte e quindi fa di tutto per esporsi al fuoco. Quando finalmente riesce a farsi colpire, ottiene il duplice obiettivo di essere rimandato a casa e di venir considerato un eroe. Sarebbe un successo, ma a Rubè, sempre coerente nella sua nevrastenia («il movimento centrifugo che castiga gli egocentrici»), non basterà. Nel suo comportamento con le donne è altrettanto nevrotico e autolesionista. Rubè è fortemente attratto da Mary. Forse perché Mary, bambina, scampò al naufragio della nave in cui perirono i genitori, dimostrando delle incredibili doti di sopravvivenza. Una donna bella, ricca e pervicace, il cui segreto della vita, di una semplicità disarmante, sta nell«aver imparato a nuotare a Long Island». Ma, ci confida Borgese, Mary è «troppo ricca perchè le sue speranze osassero guardare fino a lei». Piuttosto Rubè rivolge le proprie attenzioni alla non meno bella Eugenia, figlia di un capitano dartiglieria. Ma il nome di questi è macchiato dalla fuga della moglie, scappata con un attendente. Una ciccatrice indelebile nella società borghese di quei tempi (e anche di questi...). Eugenia è per Rubè la donna ideale a cui non legarsi, una donna sempre pronta a essere abbandonata. La prende in un letto dinfermeria, ne fa la sua amante in albergucci nei dintorni di Roma. Finalmente, a Milano, la sposa, ma solo a guerra finita e dopo un lungo soggiorno in Francia. A Parigi frequenta il salotto di Celestina Lambert, moglie di un generale francese, «una perfetta sposa, una perfetta madre, una perfetta francese, una perfetta musicista, una perfetta bellezza». Con lei intreccia una tenera amicizia che è forse lunico sentimento sincero a cui si abbandona nel corso della vita. Placato il conflitto mondiale, gli si offre un posto a Milano. La pace, però, non mantiene le promesse: la depressione economica si sovrappone a una preesistente situazione di conflitto sociale, esacerbato dalla mattanza della guerra e dagli echi della rivoluzione che in Russia ha portato al potere la classe operaia. Filippo, che «ogni volta chera vicino a un ricco sentiva molta ammirazione pel bolscevismo», si lascia andare ad affermazioni inopportune, che gli costano il posto. Nel disordine dei giorni confusi che seguono il licenziamento, si trova a vagare in riva a un lago. Da quel momento in poi si consumerà lentamente la tragedia in un crescendo insonne che brucia le ultime cento pagine del libro come un incendio, fino al naufragio finale, tra la folla. È affascinante notare come alcuni personaggi del romanzo incarnino stereotipi di stampo tipicamente fascista, prima ancora che il fascismo si manifestasse concretamente. Quando il romanzo uscì, fu male accolto, proprio per questa premonizione visionaria di Borgese, che seppe vedere e dipingere il fascismo nella sua preistoria, quando ancora non era stato lanciato alla prova della Storia. Scritto con eleganza e precisione, nel secco stile degli anni venti, Rubè è godibilissimo anche oggi. Estremamente evocativo e immaginifico, «il primo romanzo di alta qualità scritto in Italia durante la grande guerra» (Guido Piovene su «Il Giornale», 9 novembre 1974), romanzo simbolista, sotto un'apparenza di realismo, ricorda significativamente altri celebri grandi romanzi di quellepoca: La metamorfosi (1915) di Franz Kafka, La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo, ma soprattutto Luomo senza qualità (1930) di Robert Musil, di cui anticipa l'ironia con irresistibili, sintetici, efficacissimi aforismi. Tutti romanzi che descrivono il malessere dellintellettuale moderno, quale egli si affaccia al mattino del ventesimo secolo. 14 gennaio 2001 |
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I commenti dei lettori
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